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Le Vite Davanti a Sé # 3 
di Andrea Gratton
02 Marzo 2013
 

Terza Parte

Le Carte in Tavola

(Ignace, Lucien, Anne, Philippe)

 

 

Testimonianza di Ignace Vergnes, notaio. Parigi, VII arrondissement, 5 gennaio 1981.

 

Innanzi tutto, vi chiederei di essere il più sintetici possibile, perché il tempo che vi posso dedicare è poco. Forse in nessuna professione come la mia il tempo è fisicamente “d'oro”, e con una decina di clienti in attesa di vidimare rogiti, testamenti e passaggi di proprietà vari, beh, il tempo che vi posso concedere è il tempo minimo necessario per chiarire alcune questioni di natura eminentemente pratica. Perché di altro non posso discutere, dato che le scelte di vita (e in questo caso, mi si passi l'ossimoro, di morte) dei miei clienti non mi riguardano né direttamente, né indirettamente.

L'uomo che mi state indicando in questa foto era un mio cliente abituale. Con lui ci siamo occupati di numerose transazioni economiche, registrazioni, atti notarili delle più svariati tipologie ed entità. Non credo, però, sia questo a interessarvi, né mi sento propenso a condividere delle informazioni così materialmente personali con due, lasciatevelo dire, sconosciuti. Posso però parlarvi di ciò che credo vi interessi maggiormente. Ovvero dell'ultima volta che ho visto quest'uomo, e dell'ultimo atto che abbiamo stilato assieme. Non lo vedevo da un paio d'anni, ma sapevo che le cose per lui non stavano andando nel migliore dei modi. Nel mio ambiente si sa sempre tutto sui propri clienti, nonostante non ci si interessi direttamente delle loro vicende personali. Le voci girano, e quando qualcuno entra in fase calante, lo si sa sempre prima del diretto interessato. Così ci si prepara psicologicamente. Si ipotizza già che tipologia di servizio ci verrà richiesta. Di solito si inizia con le vendite del patrimonio immobiliare, case vacanze, doppie abitazioni, risorse varie che diventano solo un peso quando le entrate non sono più quelle di una volta. Poi ci sono i casi delle sbandate amorose: amori senili che fanno intestare intere proprietà a fanciulle la cui reputazione è spesso moralmente dubbia, ma questo è un altro discorso, e non riguarda certo l'uomo in questione.

Insomma, quando capitò in questo studio, dopo diversi anni di assenza, già immaginavo cosa mi avrebbe chiesto. Stavo quasi per indicargli io stesso la proprietà alla quale rinunciare per monetizzare (ai tempi avevo in mente il suo bell'appartamento in Rue du Bac, che avrei piazzato in poco tempo con ottimi profitti per entrambi), quando lui mi spiazzò completamente con una richiesta alla quale non ero affatto preparato. «Devo diventare un altro scrittore», mi disse. «O meglio, fisicamente sarò io a continuare a scrivere, solo lo farò sotto pseudonimo. Il ruolo “pubblico” di questo mio alter ego sarà svolto da un mio congiunto, il quale figurerà in tutto e per tutto come autore materiale di queste mie nuove opere letterarie». «In sostanza», continuò, «voglio che lei certifichi legalmente questa situazione, affinché, alla mia morte, ogni cosa possa essere resa pubblica. Solo alla mia morte, però. Non prima! Non credo ci sarà una caccia all'uomo; solo vorrei che, finché sono in vita, non ci sia materiale che possa collegare quello che scriverò sotto mentite spoglie alla mia figura. Alla mia precedente carriera di scrittore». «Inutile che le dica», concluse, «che dovrà trovare una maniera per tutelare economicamente la persona che reciterà tale ruolo. E che lo dovrà fare anche a mia morte avvenuta. Chiedo molto a questa persona, quindi è giusto che ne possa raccogliere parte dei frutti». La conversazione si svolse in questi termini, perché fu sostanzialmente solo lui a parlare. Io gli dissi soltanto di tornare dopo un paio di settimane, così da potermi consultare con alcuni specialisti di diritto ereditario per la stipulazione di un contratto così particolare. Lui acconsentì senza problemi: ci conoscevamo da diverso tempo, quindi sapeva di potersi fidare. Le cose, infatti, andarono così, ed esattamente due settimane dopo firmò il famoso contratto che ho reso pubblico il giorno successivo alla sua scomparsa. Un contratto che, lo dico senza vanagloria, dovrebbe entrare nei libri di testo di diritto, tanto è complesso e, allo stesso tempo, inattaccabile (infatti, nessun supposto erede ha reclamato diverse spartizioni di diritti d'autore ed eredità).

Non credo vi interessi poi molto la struttura tecnica del contratto. Ciò che mi aveva chiesto è ciò che gli è stato garantito. Non a caso, quando la verità venne a galla, tutti rimasero a bocca aperta dato che non vi erano falle nella rete burocratica protettiva che avevo creato affinché nessuno potesse risalire alla sua persona. Una cosa, però, vorrei condividere con voi, ed è una cosa di cui non ho parlato a nessuno e su cui, a mio avviso, si è riflettuto ben poco. L'uomo della foto, il mio vecchio cliente, era ben certo che le cose sarebbero andate così come aveva previsto. Non aveva dubbi in merito! Scomodò la creazione di un contratto del genere perché era certo dell'esito che avrebbe ottenuto. In cuor suo egli sapeva già che questa sua nuova “personalità” avrebbe riacciuffato il successo letterario che il suo essere reale (il fantasma della sua prima persona, potremmo chiamarlo!) aveva smarrito. Non si trattava semplicemente di assumere un nome de plume e scrivere qualche racconto o un romanzetto poliziesco o d'appendice. Egli voleva crearsi una nuova identità, e aveva già calcolato ogni cosa. Anche l'accoglienza che avrebbe ottenuto. Anche le lodi che gli sarebbero state tributate. Lodi delle quali, ovviamente, non avrebbe mai potuto godere. Nella sua mente il romanzo della sua nuova vita si era già svolto. Si trattava solo di dargli le ultime tre forme necessarie: quella narrativa, quella fisica e quella giuridica. Se la prima era un passo fin troppo ovvio per uno scrittore nato come egli era, e la seconda era già stata programmata con l'aiuto di un congiunto (chissà quanti giorni avrà passato a istruire quell'uomo), per la terza aveva necessariamente bisogno del mio aiuto. Aiuto che, con estrema professionalità, sono riuscito a dargli.

E, badate bene, sarebbe un errore considerare questa terza forma come la più banale e scontata! Come vi dicevo, il contratto stesso che ho redatto è un romanzo di cavilli e postille. Perfetto nella sua completezza. Inattaccabile nel suo aver considerato qualsiasi possibilità ed evenienza! Ed ora scusatemi, ma il tempo che potevo concedervi è abbondantemente scaduto. Il tempo è denaro, e il mio lavoro, dopotutto, non è troppo diverso da quello di uno scrittore. Ciò che scrivo, però, vuole tutelare le vite dei miei clienti dai sogni altrui; mentre ciò che scrive un narratore è finalizzato a creare nuovi sogni nella vita di perfetti sconosciuti. Siamo diametralmente all'opposto, insomma, ed è proprio questo il motivo per cui siamo così prossimi.

 

Testimonianza di Lucien Bliard, detective. Parigi, Basilica del Sacro Cuore, XVIII arrondissement, 17 dicembre 1980.

 

Ci sono tre luoghi che concedono una vera e propria visione di Parigi. Il primo è la Tour Eiffel, il secondo è la Tour Montparnasse e il terzo è la collina di Montmartre, con la Basilica del Sacro Cuore. Voi mi direte che no, che dopotutto il Sacro Cuore non centra nulla, perché è molto più basso. E la visuale della città che concede è ben poca cosa se rapportata a quella dei primi due luoghi. Tuttavia potrei smentirvi in ogni momento. Perché se davvero il Sacro Cuore è più basso della Tour Eiffel e della Tour Montparnasse, lo spaccato di città che concede allo sguardo è molto più profondo e vivo di quello che le sue illustri compagne (l'una con la noia di una vecchia puttana borghese troppo imbellettata, l'altra con la freddezza del cemento, del vetro e del ferro) sanno donare. Si tratta di una specie di visione ad altezza d'uomo. Una visione che dà una profondità di Parigi non solo spaziale, bensì umana. Come un microscopio puntato continuamente sulle sue strade, sulle sue abitazioni. Sui suoi negozi e abitanti. Sulla vita che vi si vive, sui commerci che vi si consumano. Sugli scambi, sulle strette di mano. Sulle conversazioni che vi si fanno. Fitte fitte. Bocca a bocca, con l'alito bianco della voce che, con questo freddo, quasi si solidifica appena uscito dalla gola. Credo sia questo il luogo migliore per parlare dell'uomo che mi state mostrando in quella foto. Anzi, credo che questo sia il luogo migliore per parlare di uomini in generale. Perché solo a contatto con la strada si può parlare delle infinite declinazioni degli esseri umani. Solo schiacciati sul cemento si può cercare di spiegare cosa passa per la mente di un individuo. Schiacciati visivamente, però! Con gli occhi, voglio dire. Ché a star schiacciati con i piedi si possono solo vivere gli eventi, e non rielaborarli. Non cercare di dar loro un senso. Non trovar loro una collocazione. Perché vi voglio dire una cosa, ed è che se il corpo aziona e modifica, sono gli occhi a registrare e raccontare. Loro e solo loro. Dovreste ben saperlo, voi, con quella telecamera e quella foto in mano. E allora ecco, ecco la rielaborazione che state cercando. Eccola qui! Qui nei miei occhi. Ve la voglio sbattere in faccia così, senza troppi giri di parole! Bianca e intonsa, come la neve che non vuol saperne di coprire questo Natale. O come il colore stesso del Sacro Cuore, che a discapito dell'inquinamento mi sembra ogni anno sempre più nitido. Sempre più luminoso.

Siamo intervenuti in Rue du Bac la sera del 2 dicembre. Esattamente due settimane fa. Era stata la domestica a chiamare la polizia. Aveva sentito uno sparo provenire dallo studio e, allarmatasi, era entrata, constatando che il suo datore di lavoro si era appena sparato in bocca. Nonostante la sua “freddezza” me l'avesse resa inizialmente sospetta (un buon investigatore deve sempre sospettare di tutto e tutti, mettendo in discussione soprattutto ciò che appare ovvio!), i primi rilevamenti balistici e ambientali avevano subito confermato la versione della donna. L'uomo nella foto si era ritirato nel suo studio per la notte solo che, invece di mettersi sotto le coperte, si era messo la canna di una pistola in bocca. E aveva premuto il grilletto, lasciando che il proiettile facesse il resto. Il corpo era proteso all'indietro, le mani abbandonate verso il suolo. La pistola giaceva a terra e, nonostante il freddo della stanza, era ancora tiepida per il colpo esploso da poco. Il sangue aveva già iniziato a coagularsi, impastando i peli della barba e del petto nonché la vestaglia di seta rossa che l'uomo portava. Ricordo che, nel vedere quella scena, la prima impressione che ho avuto è stata quella di trovarmi di fronte a uno di quei dipinti religiosi del Settecento che riempiono il Louvre. Una specie di deposizione del Cristo, risolta laicamente con una sedia di legno al posto delle pie donne. La vestaglia rossa, dopotutto, sembrava quasi un sudario; o una sindone, tanto appariva connaturata al corpo affusolato dell'uomo. Talmente affusolato e secco che gli si sarebbero potute contare le costole, se solo si fosse scostato di un po' quel paramento improvvisato. Le conclusioni le traemmo in poco tempo, e senza bisogno di aiuti e indizi. Sul tavolo c'era un biglietto, la cui calligrafia fu riconosciuta dalla domestica come quella del suo datore di lavoro. Dato di fatto facilmente rilevabile, che appurammo mettendo a confronto il biglietto con uno dei numerosi testi autografi che l'uomo teneva in casa.

In fondo, la soluzione di quel caso (se di “caso” si fosse mai potuto parlare) era tutta nel piccolo particolare che balzava immediatamente all'occhio non appena si fosse messo piede nello studio: la vestaglia rossa. Quella vestaglia tanto nuova e curata, da dare immediatamente l'impressione di essere stata comprata per l'espressa volontà di celarsi. Di nascondere il proprio corpo agli occhi di chi lo vedrà privo di vita, una volta udito lo sparo. La pistola e il biglietto (che, nella pratica investigativa, vengono considerati due indizi fondamentali) sono in realtà degli oggetti accessori. Particolari da cui un buon investigatore deve sapersi staccare se vuole davvero trovare la risposta a un'azione del genere. Perché sì, perché un investigatore deve sempre trovare una risposta agli eventi sui quali è portato a riflettere. Perché il suo valore non si misura semplicemente nello scioglimento di un caso. Nella scoperta del colpevole di qualche delitto, furto o efferatezza. Il suo valore si misura nella presa di coscienza dei moti che hanno spinto un essere umano a compiere un dato gesto. A portare a compimento un dato progetto, di qualunque natura esso sia. Ecco, allora, che la soluzione è nel particolare inaspettato. Nella confessione non vocale che, in maniera fatidica, rivela molto di più di quanto le semplici parole potrebbero fare.

Così un appartamento di Rue du Bac con un suicida, una pistola tiepida e un biglietto testamentario al suo interno, finiscono col dire molto poco se confrontati con l'acquisto di una nuova veste da notte color rosso sangue. Se l'essenziale non può essere colto dagli occhi, è il superfluo che deve far riflettere. E da lì, come in una specie di spirale, l'attenzione si deve spostare lentamente verso l'essenza più pura dell'azione stessa. Secondo continui e infiniti moti centripeti. Dopotutto, è l'animo umano quello che indaghiamo con le nostre ricerche e le nostre azioni. E dovreste saperlo perfettamente voi due, con quella telecamera fissa su di me. Sui miei occhi. Sulle mie emozioni. Sui miei sguardi. Perché, se davvero sono io (io e non solo, sarei pronto a giurarci!) il protagonista di questo frammento di “essenzialità” cui devo dare forma e corpo, è pur vero che l'attore principale nel proscenio del “superfluo” è quell'uomo di cui mostrate ossessivamente la foto. E di cui, quasi come un tabù, non pronunciate mai il nome. Ben fatto, ragazzi miei! Ben fatto! Sareste degli ottimi detective a vostra volta!

Solo, non dimenticatevi mai che per vedere le cose più nitidamente si deve essere schiacciati a terra. E che quindi si deve cercare la “visione dalla collina di Montmartre”. Sempre e comunque.

 

Testimonianza di Anne Féret, ricercatrice universitaria. Parigi, Université Paris-Sorbonne, VI arrondissement, 10 dicembre 1980.

 

Prima ancora di dirvi che sì, che conosco quell'uomo sulla foto, vorrei chiedervi come avete fatto a trovarmi. Perché il motivo della vostra intervista lo comprendo perfettamente, solo non capisco come abbiate fatto a entrare in possesso del materiale necessario a portarvi fin qua. A mettervi sulle mie tracce, ovvero quelle di una piccola e ben poco conosciuta ricercatrice di Letterature Comparate. Una come decine e decine di altre ricercatrici, insomma! Una che prende pochi soldi, tira la cinghia per arrivare a fine mese, e che segue progetti e pubblicazioni dei grandi nomi del gotha universitario, venendo poi raramente accreditata. Magari menzionata solo di striscio. Il nome completo scritto in piccolo (spesso sbagliato), in quella parte dei crediti che nessuno legge mai. E poco importa se poi, nel concreto, la ricerca delle varianti di un testo o l'indagine sui manoscritti sia tutta farina del mio sacco. Se l'applicazione di quella data teoria o di quel dato metodo di analisi vengano proprio da me. Dalle notti passate in biblioteca davanti a quei libri che, a una certa ora, si assomigliano tutti. Diventando una specie di indistinto bianco-nerastro, con gli occhi mangiati fuori dalla stanchezza, dal sonno, e dalle luci innaturali. Ma questo è un discorso che c'azzecca poco, scusate, e voi (lo so benissimo) siete qui per parlare di un altro argomento. Quindi andiamo direttamente al sodo!

L'articolo uscì nel 1975 su una piccola rivista di Letteratura Francese. Una di quelle cose che non legge mai nessuno, ma che a noi ricercatori serve per fare un minimo di curriculum. Lo spunto saltò fuori, come quasi sempre accade, per caso. Per una combinazione fortuita, piuttosto che ricercata. I due libri, infatti, mi capitarono in casa nello stesso momento. Il primo, quello del vecchio scrittore, fu un regalo di compleanno di mia madre, convinta che da un instancabile prosatore come lui ci fosse ancora d'aspettarsi qualcosa. Il secondo, invece, quello del suo giovane alter ego, fu un regalo di Pierre, il mio compagno dell'epoca. Quello scrittore sembrava il nuovo che avanzava, e il povero Pierre, che non doveva aver mai letto più di dieci libri in vita sua, andò nella prima biblioteca che gli capitò sottomano, e chiese al commesso un libro con il quale “far colpo su una giovane studentessa di Letteratura Francese” (ho ricostruito la scena passo dopo passo!). Fu così che iniziai a leggere quei due libri quasi in contemporanea, e fu così che i dubbi iniziarono a prendere possesso delle mie riflessioni. Aggiungeteci, poi, che da qualche settimana stavo curando la revisione dell'edizione critica francese del Banchiere Anarchico di Fernando Pessoa e il gioco è fatto.

Non a caso, l'articolo uscì quasi per gioco. Una specie di divertissement, possiamo dire. E, non a caso, non se lo filò nessuno. Vi è mai capitato di possedere un'intuizione sconvolgente, e di vederla passare senza destare il minimo interesse nell'opinione pubblica (per la verità, mi sarebbe bastato molto meno), salvo poi scoprirla, ad anni di distanza, sulla bocca di tutti? Ecco, questo è quello che mi sta accadendo ora. La vostra stessa presenza lo dimostra! Perché sarà anche una soddisfazione personale, ma è una soddisfazione vuota. Perché sì, perché sono stata la prima persona a scoprire che quei due scrittori erano lo stesso scrittore e l'ho denunciato, illustrato criticamente, spiegato con un articolo tanto accurato quanto approfondito. Eppure niente! Cinque anni fa nessuno si prese la briga di chiedermi nulla. Di spostare la soglia di attenzione un po' più in là. Di cercare di capire perché una ragazzina poco più che ventenne affermasse con convinzione che uno dei grandi vecchi della letteratura francese e una delle nuove voci meticce di quest'ultima fossero la stessa persona.

Ora, a cinque anni di distanza, quando tutto è dato per scontato, cosa vi posso dire che già non abbia detto? Potrei inorgoglirmi davanti alla telecamera, dicendo “io lo sapevo!”, oppure potrei fare come quei soldati giapponesi: chiudermi nella mia isola a proteggere il mio lavoro da una guerra finita da tempo immemore. In fondo, credo che né l'una né l'altra opzione sarebbero state poi così sensate. Quindi mi limito a dirvi che sì, che sono stata io la prima a “smascherarlo”. E che non è stato facile perché, per la maggior parte, è stata casualità, coincidenza. Perché, per la maggior parte, sono stati dei fattori indipendenti che, come in un esperimento, hanno fatto sì che potessi scoprire questa nuova formula chimica, e potessi sbandierarla ai quattro venti. Ricevendo in cambio il totale disinteresse della comunità letteraria e culturale francese.

Sarebbe facile spiegarvi, ora, punto per punto, i passaggi che cinque anni fa hanno portato una banale casualità a trasformarsi in una specie di teoria letteraria. Allo stesso tempo, però, sarebbe noioso. Se non inutile. Dopotutto, credo che l'opzione più giusta sia la vostra: documentare il tutto in maniera algida. Senza fronzoli o commenti. Perché quando una pallottola ha ricomposto gli alter ego, cercare di capire il contatto letterario tra i due diventa assolutamente superfluo. Allora è meglio indagare lo scrittore nella sua pienezza, ammesso che ciò possa essere davvero fatto. Perché, in fondo, stiamo pur sempre parlando di bugiardi nati, che dalle bugie cercano di cacciar fuori verità. Gente nata con la contraddizione nel cuore, l'ossimoro nella mente, il bipolarismo nelle mani. Ed è proprio questo il motivo che mi spinge a studiarli. Perché, passo dopo passo, immersa nelle loro bugie fantastiche, mi sento più vicina alla verità. E, non ve lo nascondo, mi cresce dentro una paura fottuta. Che nessuna pallottola al mondo sarebbe mai in grado di liberare o di ricomporre.

 

Testimonianza di Philippe Troussier, videoreporter. Lione, Festival del cinema Indipendente, 2 dicembre 1981.

 

Intanto, vorrei iniziare col dire che di solito sono io quello che intervista e raccoglie le domande. Quindi mi sento un po' un pesce fuor d'acqua nell'essere dall'altra parte della barricata, con una telecamera puntata addosso e la possibilità di parlare a ruota libera, raccontando l'origine e la genesi di questo lavoro. Chiedo dunque anticipatamente scusa a tutti, e mi arrendo a questa specie di legge del contrappasso, che dopo decine di testimonianze raccolte in giro per la Francia fa sì che l'ultima testimonianza a essere raccolta sia proprio la mia. E senza possibilità alcuna di tirarmi indietro (credo di essere ben più timido di tutti coloro intervistati finora!). L'ironia della sorte ha voluto che il documentario su cui io e Celia abbiamo lavorato in maniera incessante per più di quattro mesi, trovasse la sua collocazione proprio a un anno dalla morte dell'uomo che lo ha ispirato. Anzi, forse, più che ironia, è un segno del destino, ammesso che qualcuno ci creda. Così mi trovo nella duplice sensazione di essere spiazzato dal parlarne proprio in questo momento, nonché di sentire che qualcosa va detto in ogni caso. Perché tra pochi anni il tempo passerà inesorabile e, come diceva un poeta portoghese di cui non ricordo il nome, col passare degli anni dei defunti ci si ricorda solo in due occasioni: la data di nascita e quella di morte. Quindi, dato che il ricordo è ancora vivo e presente in me e in noi, mi sembra l'occasione giusta per parlare del nostro lavoro e di quello che, durante i mesi di lavorazione, per noi è sempre stato “l'uomo della foto”.

Potrei iniziare spiegandovi come mai abbiamo deciso di scrivere e realizzare un documentario su di lui, ma credo sarebbe una spiegazione parziale e, sostanzialmente, noiosa. Diciamo che ci sarebbero di mezzo una cena vegetariana, una conversazione notturna, una specie di brain-storming tra una birra e un'altra e tutto questo genere di cose che accadono e che poi, una volta accadute, ti fanno risvegliare con un'idea folle in testa. Un'idea che, come un chiodo fisso, non vuol saperne di andarsene. Ecco, è proprio così che tutto è iniziato, e da quella notte le cose hanno preso una piega del tutto differente. La prima cosa che ci siamo detti con Celia è stata quella di mandare a quel paese ogni cosa che potesse ricondurre il nostro lavoro a una tempistica precisa o a una data sequenza delle interviste o degli eventi. Ogni cosa doveva snodarsi a ruota libera. E ogni parola doveva essere frutto della più totale e non arbitraria volontà di dare voce a chi, in qualsiasi tipo di maniera, aveva incrociato la sua vita con quella dell'uomo nella foto. Saremmo potuti andare da una miriade di critici e studiosi, così da creare un documentario tecnico sull'uomo in questione. Un'opera agiografica che si sarebbe ben venduta a pochi mesi dalla sua morte. Eppure non era questo ciò di cui eravamo in cerca. Ciò che volevamo riprodurre era quel piccolo microcosmo di personaggi inaspettati che gravitava attorno a questo scrittore dalla doppia vita. Un uomo che è riuscito a vivere due vite letterarie, ottenendo ben due premi Goncourt. Uno, in gioventù, per il suo rigore e per la sua serietà narrativa. Uno, in età avanzata, per la sua freschezza e originalità.

Siamo stati dei detective, non lo nascondo. Trovare certe persone è stato più difficile e complesso del previsto. Altre, invece, sono saltate fuori come dei coups de théâtre, dei colpi di teatro cui non eravamo minimamente pronti o attrezzati. C'era, però, in ognuno di questi personaggi una specie di comune denominatore. Ovvero che, per citare un famoso drammaturgo italiano, erano tutti dei personaggi in cerca d'autore. Cioè delle persone che, relativamente alla vita dell'uomo della foto, erano tutte in attesa di dire la loro. E questo mi ha stupito incredibilmente. Può uno scrittore dalla doppia vita fare della sua stessa vita un'opera narrativa? Anche i personaggi più “istituzionali”, in fondo, ci hanno dato delle risposte inaspettate. Era come se, entrando in contatto con quell'uomo, si fossero accorte che vi era una specie di passaggio mancante. E aspettassero quindi qualcuno che desse loro la possibilità, una volta compreso quale fosse questo passaggio, di concludere il cerchio.

Abbiamo raccolto molte voci. Voci che andavano a braccio, stimolate semplicemente da una visione fotografica. Da un'istantanea di quest'uomo che è stato poi la voce cardine di tutte le altre voci e che, in maniera quasi paradossale, non ha mai parlato. Ora che il percorso è compiuto, mi rendo conto di essere uscito da questo viaggio con molte più domande di quelle che avevo in mente in quella notte in cui la vita dell'uomo nella foto mi si è piantata in testa come un chiodo fisso. Ho molte più domande perché ho scoperto molti più personaggi! Perché ho raccolto le voci e le istantanee di molte più persone! In un certo modo, io e Celia volevamo soltanto fare chiarezza. Convinti in maniera quasi fanciullesca che anche l'accumulazione potesse essere una forma di sottrazione irrazionale. Da un certo punto di vista, credo che ciò si sia verificato. Da un altro, però, credo ci sia stato anche una specie di buco nell'acqua. Volevamo restituire l'alter ego narrativo dell'uomo nella foto, e invece ci siamo ritrovati in un mare magnum di alter ego non–narrativi. Ovvero di persone in carne e ossa pronte a riversare su di noi il romanzo delle loro vite. Non nascondo che, negli ultimi mesi, a stento riuscivo a dormire. Schiacciato quasi dal peso di tutte queste vite. Oppresso dalle loro verità. Dai loro modi di esprimersi. Dai loro racconti e dalle loro bugie. Vite che diventavano immagini (così come avevo preventivato) e che nel corso delle notti venivano a trovarmi per chiedermi semplicemente di raccontare la loro storia. Di dare loro voce. Come fantasmi inchiodati involontariamente alla vita, in attesa di essere scoperti e accettati dalla vita stessa.

Forse è stata proprio questa presa di coscienza a ridarmi la serenità. La certezza di non aver piluccato nella vita di un uomo che aveva scelto di porre fine alla sua esistenza, bensì di aver dato voce a persone che di quelle stesse briciole si erano nutrite e alimentate. La verità è che avrei voluto portarle tutte alla presentazione del documentario, queste persone. E farle camminare davanti agli sguardi dei fotografi, dei giornalisti e dei curiosi. E spiegare al mondo intero che sono loro i protagonisti di questo documentario, e non l'uomo nella foto. Perché è stato il sangue vivo e pulsante delle loro vite (così vicino a quella vestaglia rossa che tanto poco è stata considerata) a tratteggiare il contorno della sua esistenza. E lo ha fatto con dolcezza e semplicità. A tinte tenui, così come (ne sono sicuro) sarebbe stato nelle sue volontà.

Ora, però, è arrivato anche per me il tempo dei saluti. Credo di essere stato più logorroico che timido, e me ne scuso. Vado a godermi la prima proiezione del lavoro mio e di Celia, convinto che certi fantasmi si saranno liberati dalle catene, e che potranno tornare a passeggiare con serenità nel luogo che compete loro. Quello dei sogni e delle storie, appunto. E poco importa se siano a cattivo o a lieto fine. Perché quando un personaggio nasce è in cerca di una cosa sola, ovvero di un autore. Il quale, a sua volta, non può fare a meno di cercare all'infinito i suoi personaggi. Che poi per dar loro vita sia costretto a farsi personaggio narrativo a sua volta, beh, questo è solo l'ennesimo corto circuito ossimorico di quel monto chiamato Letteratura!

 

Testimonianza scritta di Roman Kacew, scrittore. Parigi, Rue du Bac, VII arrondissement, 2 dicembre 1980.

 

È il D-Day.

Nessun rapporto con Jean Seberg. Gli appassionati dei cuori infranti sono invitati ad andare altrove. Si potrebbe mettere tutto ciò in conto a un esaurimento nervoso. Ma allora dovrei ammettere che dura da quando ho raggiunto l'età adulta e che mi ha permesso di portare a compimento la mia opera letteraria. Allora perché? Forse la risposta andrebbe cercata nel titolo della mia autobiografia: “La notte è calma”. E nelle ultime parole del mio ultimo romanzo: “perché non lo sapremmo dire meglio”.

Finalmente sono riuscito a esprimermi con pienezza.

 

 

Terza Parte – F I N E

© Le Vite Davanti a Sé di Andrea Gratton


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