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Le Vite Davanti a Sé # 2 
di Andrea Gratton
23 Febbraio 2013
 

Seconda Parte

Il Marmo e la Carne

(Celia, Gregor, Julie, René)

 

 

Testimonianza di Celia Lamartine, giornalista. Parigi, Cimitero del Père-Lachaise, XX arrondissement, 3 marzo 1981.

 

Non ti saprei spiegare perché ho deciso di farla qui, quest’intervista introduttiva al nostro documentario. In termini prettamente biografici (per quanto riguarda la biografia dell’uomo in questione, intendo, non di certo la mia) potrei risponderti che qui è stato cremato il suo cadavere, poco prima di essere sparso nel Mar Mediterraneo. Quindi, a rigor di logica, forse sarebbe stato più interessante intervistare l’addetto ai servizi cimiteriali che ha bruciato il suo corpo ma, dato che qualcosa dobbiamo pur spiegare, eccoci qui. In termini umani, invece, posso dire di aver scelto il Père-Lachaise perché è un luogo silenzioso e confuso. Silenzioso perché, a parte i soliti turisti chiassosi che fanno la spola tra le tombe di Jim Morrison e Oscar Wilde, vi sono decine e decine di sezioni nelle quali si può passeggiare senza essere disturbati da anima viva. Confuso perché le tombe e le cappelle votive si affastellano le une sulle altre in maniera così continuativa, da dare l’idea di una specie di caos artistico. Come se, pur non essendoci stata alcuna logica all’origine della disposizione cimiteriale, il risultato raggiunto ne tradisse una.

Ecco, io credo che queste due anime rispecchino ciò che vogliamo cercare di fare con questa nostra raccolta di testimonianze sulla vita di uno dei più grandi scrittori francesi di questo secolo. Il silenzio che dedichiamo a ogni interlocutore si fonde infatti con la confusione scollegata delle interviste. Le quali, però, hanno un filo conduttore molto sottile che, dall’amalgama di voci discrepanti, vorrebbe portare a una presa di coscienza in sé. Al dato di fatto della vita e della scelta finale di quest’uomo. Quest’uomo che vogliamo ricordare e che, per stimolare la memoria di chi lo ha conosciuto, ci limitiamo a esibire in foto. Senza porre alcuna domanda.

Immagino che tutta questa spiegazione sia alquanto noiosa e didascalica. Eppure, l’idea dalla quale siamo partiti e il modo stesso di svolgere le interviste non lo sono affatto! Potrei snocciolare in questo preciso istante tutti i dati, le ricerche, la raccolta di materiali che hanno portato a scegliere proprio le persone che hanno poi dato voce alla vita di quest’uomo. Non credo, però, che sia qualcosa di così importante. Per molti ha giocato a favore un’ovvia aderenza biografica e letteraria. Per molti altri, invece, si è trattato dell’aspetto umano della vicenda. Per altri ancora, pochissimi forse, del caso. La fortuna di averli incontrati e di averli messi nella condizione di aprirsi. Di parlare di qualcosa che non fosse solo l’uomo della foto, bensì che andasse più in là. In spazi che, all’inizio di questo lavoro, nessuno di noi avrebbe neanche minimamente ipotizzato.

Già, bella domanda, perché ci siamo dati così poco spazio? Perché non abbiamo mosso le redini del nostro lavoro in maniera rigorosa, quanto meno a livello filologico; limitandoci, piuttosto, a dare voce senza contraddittorio? Io credo che tutto ciò sia dovuto all’uomo in questione. Ovvero alle sue molteplici anime. Alle sue più diverse e contrastanti nature che si esplicitavano poi nei nome de plume che utilizzava per scrivere. E, perché no, per nascondersi al mondo intero. Vivendo, però, nei suoi mondi sommersi. Abbiamo cercato di scovarli, questi mondi sommersi, e di dare loro voce, portandoli a galla senza alcun tipo di restauro. Semplicemente lasciando che fosse la voce delle persone a eliminare i depositi sedimentati, dando così visibilità e lucidità ad aspetti mai indagati prima. A piccoli particolari che devono essere accolti nella loro in-completezza per poter svelare qualcosa. Anche solo una breve illuminazione. Anche solo un ricordo accessorio capace di dirci qualcosa di più su di lui e sulla sua vita.

Mio padre era un grande appassionato di letteratura francese. Quando ero ancora una bambina mi portava spesso al ère-per mostrarmi le tombe dei grandi autori che vi riposano. Oggi un educatore troverebbe questa pratica tanto assurda quanto macabra. In realtà ricordo benissimo che, ai tempi, vivevo la visita al Père-con uno spirito di avventura e curiosità capace di lasciarmi, al ritorno, una sensazione di felicità e appagamento. Mio padre camminava lentamente tra una tomba e l’altra mentre io leggevo i nomi incisi sulle lapidi o appiccicati con caratteri bronzei. Immaginando dalla forma della tomba, dalle date o dai nomi che vi erano impressi, la storia che si celava dietro alle vite di tutti quegli uomini. Immaginavo fossero loro a parlarmi, ognuno con il proprio vestito (di certo un defunto del 1834 non poteva abbigliarsi come uno del 1929!), ognuno con la propria voce, ognuno con la propria storia. E si affacciavano a me, raccontandomi le avventure più impensabili. Così che io dovevo soltanto accogliere quelle storie per poi dare loro forma. E alla sera raccontavo ai miei genitori la storia di Bertrand Gabrich, o di Elodie Kowalczyk, declinando per filo e per segno tutte le date salienti della loro vita. Il loro tono di voce, il carattere, l'albero genealogico e addirittura i vestiti con i quali li avevo ritratti e immaginati.

Credo sia questo ciò che è sempre stato alla base del nostro progetto: la ricerca di una verità che si basasse sul racconto e sul ricordo (e, perché no, sulla fantasia), e non sull'analisi. Perché, se davvero le opere d'arte sono il risultato e la negazione della loro possibilità di non essere state, anche la vita di uno scrittore non è troppo diversa. Ed è il risultato della sua possibilità di non essere stato compreso. Possibilità che diviene tanto più infinitesimale quanto più ci si avvicina a chi, in maniera concreta, ci ha avuto a che fare. E che, parlando anche di sé, può spiegare a tutti i lettori ciò che si sono “persi”. Ovvero ciò di cui si sono dovuti accontentare. Immaginandolo dalle pagine e non da quella finzione perfetta che è la vita stessa di un grande autore.

 

Testimonianza di Gregor Glovacki, disoccupato. Sedan, 19 dicembre 1980.

 

Me l'hanno chiesto in tanti di parlare di zio Roman (io lo chiamo “zio”, anche se il nostro rapporto di parentela, dio solo sa in che grado si risolve!) e, in fin dei conti, ho detto sempre le stesse cose. Quindi era meglio per voi andare in qualche biblioteca, a cercare le dichiarazioni passate, piuttosto che venir fin quassù sperando di cavar fuori qualcosa di nuovo. Intendiamoci, non lo dico certo per essere scortese, piuttosto perché davvero tutto ciò che ho detto è ciò che so. E non c'è nient'altro da aggiungere, se non che zio Roman è morto, e la pacchia (se pacchia si può chiamare) è finita.

Avete idea di cosa voglia dire essere uno scrittore senza scrittura? Sì, lo ribadisco, uno scrittore senza scrittura! Cioè un'immagine, una figura. La carnalità più pratica che va in avanscoperta. Lasciando inevitabilmente dietro le linee di difesa lo scrittore in sé. Ovvero quello che ti fornisce le munizioni per andare all'attacco. Quello che ti alimenta di parole, di frasi, di racconti, di romanzi che poi dovrai sbandierare in faccia alle linee nemiche. Come fossero vessilli di guerra da impugnare con violenza. Perché sì, perché una cosa va detta: anche se sono stato uno scrittore senza scrittura, l'ho ben visto il mondo dell'editoria. Ed è un campo di battaglia, cristo santo! Una campo di battaglia dove tutti sono in guerra con tutti. E non mi stupisce che zio Roman (lui, che la guerra l'aveva vissuta sul serio, in prima linea al fianco di De Gaulle) a un certo punto abbia deciso di spostarsi nelle retrovie. Ferito, mutilato, sconfitto dalle mitragliatrici dei palloni gonfiati dell'Académie o di chissà quale altra istituzione culturale del cazzo. E, una volta giunto nelle retrovie (ancora sanguinante), abbia deciso di mandare me al massacro. Ché io pensavo di avere le spalle larghe e che fossero tutte rose e fiori. E invece no, perché le cose vanno capite sulla distanza, e non di primo acchito. Non alla prima carica, quando sembra quasi che il nemico ti apra il suo ventre molle, accogliendoti bonario tra le sue fila. Quasi a dirti “prego, vieni, non c'è pericolo!”. Salvo poi circondarti e assalirti, facendo di te scempio e devastazione. Perché, ribadisco, io ero uno scrittore senza scrittura. Mandato all'assalto da zio Roman.

Ricordo ancora quando parlammo per la prima volta di questa cosa. «Gregor», disse zio Roman, «ho bisogno di un favore. Un favore grande». «Dimmi, zio Roman», dissi io. «Quel che vuoi, se serve ad aiutarti!». «Gregor», disse zio Roman, «devi essere me. Devi essere me pur essendo un'altra persona, capisci?». «No, zio Roman», dissi io, «non c'ho capito nulla! Essere te senza essere te?». «Sì», disse zio Roman, «sarai me, e farai tutto ciò che io ho già fatto. Solo lo farai con un altro nome, Gregor. Solo, dovrai imparare a essere ciò che io sono stato. Ma diverso, più giovane. Non devi essere il vecchio me stesso, semplicemente uno diverso. Devi essere me stesso, non essendolo, capisci Gregor?». «No, zio Roman, non ho capito niente, ma tant'è, e per te, questo e altro!».

Quindi zio Roman scriveva (ma dov'era la novità? da quando lo conoscevo, non aveva fatto nient'altro che scrivere!), e io andavo in pasto ai giornalisti e ai lettori. Firmavo autografi, ritiravo premi, rilasciavo interviste e parlavo di libri. Libri che dovevano essere miei, e invece erano di zio Roman, che li scriveva sotto falso nome. Perché, diciamocelo schiettamente, il suo nome era finito. E se anche avesse scritto una nuova Recherche o chissà quale altro capolavoro, beh, i critici non se lo sarebbero filato di striscio! Ve l'ho detto, amici miei che tenete in mano la foto di zio Roman, l'editoria è un campo di battaglia! E zio Roman, persa la prima guerra (dopo indubbi successi, però!), aveva deciso di combattere la seconda dalle retrovie. Io me ne stavo in trincea, a prendere tanto il fuoco nemico quanto gli onori delle cronache letterarie. Perché sì, perché zio Roman ce l'aveva fatta a vincere il secondo tempo! E io me la ridevo sotto i baffi nel vedere questi stupidi osannare me a lettere cubitali e sbeffeggiare zio Roman negli articoletti di corredo alle pagine letterarie dei loro giornaloni! «Ah», dicevano, «altro che quel vecchio bacucco (il “vecchio bacucco” era zio Roman, ovviamente...): ecco qui un autore fresco! Un autore giovane e attento alla Francia che cambia!». Nelle loro testoline piccole e bacate non passava nemmeno per l'anticamera del cervello che quell'autore che tanto osannavano (cioè io) potesse essere zio Roman (cioè lui)! E sì che ne avevano visti di casi del genere! E sì che gli indizi c'erano tutti. E invece no, perché l'ottusità di certa gente è pari solo alla loro boria, ché se fosse capitato a me di stroncare zio Roman per due decenni, e di premiare il suo nome de plume, mi sarei nascosto sotto un ponte. E avrei abbandonato l'editoria e la critica letteraria.

Ma tant'è, e io me ne sto qui nelle Ardenne, coi pochi soldi che mi ha lasciato zio Roman. Soldi che finiranno presto se non mi trovo un lavoro serio, ché non posso più essere l'alter ego di zio Roman se zio Roman non c'è più. Dicevo, io me ne sto qui nelle Ardenne, a bere birra e a far passare il tempo, mentre loro continuano a scrivere e pubblicare, facendosi pugnette (si può dire pugnette, o è più corretto “seghe”?) gli uni con gli altri su questo o quell'altro autore. Perché il prezzo degli errori lo pagano sempre gli stessi. Cioè quelli che ci mettono la faccia e la scrittura, facendosi massacrare corpo e anima quasi fossero in guerra. E che finiscono con il viso fracassato dai colpi di pistola. Perché le ferite sono tante e le cicatrici, anche se non in vista, molte di più. E alla sera tormentano come carne viva cosparsa di sale. Mentre loro, e sapete bene chi intendo, hanno sempre nuove resurrezioni, senza però aver bisogno di alter ego. Perché al massacro ci mandano quelli come zio Roman. E di carne fresca han sempre bisogno. E di carne fresca ne trovano a mucchi. Perché (e questo l'ho capito da solo, senza che fosse zio Roman a spiegarmelo) di gente pronta a farsi massacrare per la scrittura ce n'è un esercito intero.

E la lista dei riservisti non smette mai di aggiornarsi.

 

Testimonianza di Julie N'Diaye, prostituta. Aulnay-sous-Bois, 2 gennaio 1981.

 

Poi finisce che si diventa come me. Un gran puzzle. Un gran intrico. Una pianta con le radici tanto confuse e avvolgenti, quanto forti e radicate. Finisce che si è francese per la legge, ma senegalese per la tradizione. Che si hanno due genitori senegalesi (africain tout court), ma che ti viene appiccicato addosso un nome francese (Julie!) dalla a alla z. Finisce che non si è né carne né pesce, e che si nasce in una città fuori dalla città. In una specie di immenso dormitorio a cielo aperto, che di abitanti ne conta già quasi ottantamila e che, di qui a due decenni, non mi stupirei se arrivasse al centello. Finisce, appunto, che si sta in questa specie di limbo: lo spazio che passa tra due stazioni della linea veloce. Finisce che si è vissuta una vita intera a due passi da Parigi ma che, in realtà, non si è mai stati parigini. Un po' come essere francesi, no? Sono nata in questo paese una quarantina d'anni fa (anno più, anno meno, che importa!). Ne conosco la lingua, la storia, le tradizioni. Ne conosco difetti e vizi (soprattutto questi ultimi), eppure per chiunque mi squadri a passeggio per strada, resto una banlieusard africana. O meglio, senegalese. Ché le mie radici sono come quelle del cielo. Troppo esposte dalla terra per non essere notate.

Così quando passeggio per le vie di Parigi la gente mi fissa con quegli occhi che additano più del movimento di un indice. E che sembrano dire “lo sappiamo bene cosa stai facendo, amichetta bella!”, e si girano quasi dalla parte opposta, perché sono abbracciati alle loro mogli e compagne. Salvo poi vederli su da me, in quella stanzetta pidocchiosa che Madame Jean mi affitta per pura carità. Ché nemmeno lei vuole rogne con la gendarmerie, ma bisogna pur tirare a campare in questa vita. E che credete? Che lo faccio per passione? Per divertimento? Per vocazione da chienne? Non credete, forse, che se avessi di che vivere me ne andrei da un'altra parte? E fanculo la mia Francia. Fanculo Parigi. Fanculo Aulnay-sous-Bois, dove mi avete scovato. E dio solo sa come avete fatto, ché ci sarà pur il passaparola sulle mie prestazioni (e i signorotti bianchicci con le compagne al seguito lo sanno bene, dato che prima indicano, poi mangiano con gli occhi), ma non pensavo minimamente di valere un biglietto di treno da Parigi a Aulnay. Né di venir ripresa con una telecamera, manco fossi Fanny Ardant o Catherine Deneuve!

Detto questo, lo ricordo benissimo l'uomo della foto. Mi aveva detto di chiamarsi Émile, e io così lo chiamavo. Anzi, Papà Émile, ché con quel suo abito nero lungo e distinto, i capelli bianchi e radi, il volto secco e scavato, mi dava una sensazione di protezione paterna. Di fiducia istintiva e, allo stesso tempo, di tristezza. Di nostalgia per qualcosa a cui nemmeno lui sapeva più dare nome o dimensione. E così la cercava in me, in questo mio corpo nero e flessuoso come l'ebano. Saliva su, nella stanzetta di Madame Jean, e pagava in anticipo. Si sedeva accanto a me, che ero già nuda su quel letto che dio solo sa quanti uomini ha ospitato, e mi sfiorava le cosce e i fianchi. Poi passava ai capelli, scendendo giù dolce fino al contorno del viso. «Quanto sei bella, Julie!» diceva quasi con un filo di voce, scuotendo la testa a destra e sinistra, come chi ha di fronte qualcosa di intangibile. Un premio che sa già di non poter afferrare. Allora gli prendevo la mano, e me la mettevo sul seno, o in mezzo alle gambe, e gli dicevo «Papà Émile sono qui, non scappare!». E lui abbandonava la mano come fosse un bambino, facendosi guidare in quelle azioni che, compiute da lui, perdevano quasi la freddezza meccanica che trovavo in centinaia di altri clienti. Perché sì, perché Papà Émile era un bambino, dopotutto. E come tale voleva essere trattato. O forse no, forse era stato costretto a tornare a quella dimensione, e ora ci si abbandonava con rassegnazione, piuttosto che con fatica.

Era un cliente abituale. Eppure non lo abbiamo mai fatto. Neppure una volta. Si limitava a toccarmi e scuotere la testa, ripetendo «quanto sei bella, Julie!» e cose del genere. Lo so che può sembrare assurdo, ma questo non è affatto un “lavoro” semplice. Non è uno di quei lavori dove il corpo può essere ignorato così beatamente. Un lavoro dove le sensibilità (tutte le sensibilità) vanno, mi si passi il termine, a farsi fottere. Certo, ci sono decine e decine di clienti che vogliono solo svuotarsi di tutto lo schifo che hanno dentro (che, spesso, è più umano che fisiologico e si nasconde dietro le cravatte e i doppio petti, e non dietro un maglioncino da poco), però ci sono anche persone che cercano qualcosa di diverso. E allora tu devi capire cosa, cercando di dare loro quella parte di te che possa aiutarli a riempire quel vuoto. È una situazione strana, paradossale quasi, ma è una situazione che va risolta. E non ci si può limitare a fare come le ragazzine di adesso (le nuove leve della professione!), ovvero un tanto a scopata e chi si è visto si è visto. Fuori uno, avanti un altro, manco fossimo al supermercato. No, bisogna capire, parlare, stimolare. E Papà Émile era uno dei clienti che più aveva bisogno di questa operazione. Che più necessitava di qualcuno che parlasse con lui e che, come un bambino, lo guidasse là dove il suo corpo (chissà da quanto) si rifiutava di portarlo.

Non so perché vi sto raccontando tutto questo. In fondo, nemmeno vi conosco. Né so perché mi state riprendendo, o cosa vorrete fare di queste mie parole. Vi dico, però, che se su quella foto ci fosse stato un qualsiasi altro cliente e non Papà Émile, vi avrei mandati a quel paese. Ché sarò anche una puttana dalle radici confuse, ma non sono di certo una chiacchierona. Lui, però, era diverso. E credo che vorrebbe sapere queste cose che ho detto a voi. E che non ho mai avuto la forza di dirgli in faccia, quando gli prendevo la mano e me l'appoggiavo addosso. Guidandolo come alla scoperta di qualcosa di magico. Vi lascio queste parole, insomma, così che voi possiate portarle a lui, dato che non lo vedo da quasi un mese. Ma, si sa, un uomo distinto come Papà Émile avrà di certo qualcuno che lo avrà reclamato in questo Natale. Tornerà a farsi vivo in primavera, quando la voglia cresce con il calore e la nostalgia, e si resta soli proprio perché sono le voglie comuni a moltiplicar le mancanze singolari.

Allora si bussa silenziosamente alla porta di Madame Jean. E si salgono le scale che portano al mio letto. E lì ci si lascia guidare, come se si fosse tornati bambini di colpo (e un po' bambini lo si è tornati davvero). Come se non esistessero la vecchiaia, la città, la banlieu, la Francia, e tutti quei concetti del cavolo che non fanno nient'altro che allontanarci l'un l'altro. E si torna a essere corpo. Corpo solo. Scoprendosi passo dopo passo. Senza scuotere la testa. E limitandosi a dire, in un silenzio religioso e puro, «quanto sei bella, Julie! Quanto sei bella!».

 

Testimonianza di René Templin, critico letterario. Parigi, XIV arrondissement, 20 dicembre 1980.

 

Ecco, vedete, prendete questi due libri. Sfogliateli, e cercate due pagine a caso. Leggetele qui, qui davanti a me. A voce alta, così che vi possiate sentire l'un l'altra. Ecco, fatto? Bene, ditemi ora se uno solo di voi due potrebbe mai ipotizzare che l'autore di queste due pagine sia la stessa persona. E lo dico di certo non per mettere le mani avanti, ma per sviscerare subito un dato di fatto. Non c'era nulla in comune tra i due autori in questione. Se non il fatto di essere la stessa persona. Se non il fatto di essere lo stesso scrittore.

Un critico è un critico, e su questo non ci piove. All'interno delle redazioni dei giornali dovrebbero scrivere quello che scrivevano nei saloon del vecchio west a proposito dei pianisti: “non tirate sui critici letterari”. Non lo dico per difendere la categoria, questo è poco ma sicuro, piuttosto perché la nostra figura è una figura sommamente necessaria nell'ecosistema letterario. Ovviamente nel male, piuttosto che nel bene. Ciò non toglie, però, che necessaria lo sia! E che molte polemiche, o diatribe, o rotture o narrative avanguardiste siano nate proprio a partire dalle stroncature e dalle cattive interpretazioni dei critici letterari. Finendo così, sommo paradosso, per dare luce, fama, successo alle opere stesse degli autori che i critici andavano stroncando come fossero Khmer Rossi intenti ad avanzare nella giungla della letteratura a colpi di machete.

Quello dell'uomo nella foto (scegliete pure voi il nome, tra i suoi due alter ego), però, è stato un caso completamente diverso. Che nulla ha a che fare con stroncature o critiche negative. Semplicemente, l'uomo in questione ha scelto di essere un altro. Di giocare il suo secondo tempo narrativo con la fisicità di un nuovo scrittore. E, detto tra noi, non credo che lo abbia fatto perché i critici (e qui mi ci metto dentro anch'io) avessero stroncato i suoi ultimi lavori. Piuttosto, credo lo abbia fatto per il suo pubblico e, in ultima analisi, per se stesso. Personalmente ci siamo incontrati solo un paio di volte, e sempre in occasioni formali. Una volta quando era all'apice del successo, e un'altra quando stava nel limbo nero degli scrittori arrivati a fine corsa (almeno questo era quello che l'intera RFL, la Repubblica Francese delle Lettere, pensava).

Ricordo con piacere quest'ultimo incontro e, ripensandoci ora alla luce di tutto ciò che si è scoperto, lo ricordo con curiosità. Era la presentazione dell'ennesimo libro del suo alter ego. Il luogo, una piccola libreria parigina. Il libro era uscito già da un bel po', e gli incontri si erano fatti via via più radi. Così era normale che, per quell'ennesima presentazione, la partecipazione fosse ridotta ma, non per questo, meno attenta e curiosa. Lui se ne stava in ultima fila, seduto su una seggiola di plastica, con quel suo abito nero e il viso stretto e magro. Ascoltava ciò che il suo alter ego stava dicendo al pubblico in una specie di stato di trance. Lo sguardo impallato, il corpo irrigidito, la bocca immobile. Io mi ero seduto accanto a lui, stupito quasi di vederlo in una simile occasione (da decenni lo si vedeva sempre più di rado, e mai a eventi letterari). Così gli avevo chiesto se aveva qualche nuovo progetto in ballo, e a cosa stesse lavorando in quel periodo. Lui mi rispose che non aveva niente in ballo, e che in quel periodo si limitava ad ascoltare e capire gli altri. Lì per lì pensai si stesse riferendo allo scrittore che stava parlando all'uditorio, e me lo figurai intento a prendere appunti, per cercare di carpire qualcosa dallo stile e dalla freschezza di quel nuovo narratore che da poco aveva vinto il suo primo premio Goncourt. Ricordo di aver anche provato a scrivere un articolo satirico su quell'incontro. Qualcosa sulla tristezza di un vecchio scrittore fallito che si appiccica alla ruota del nuovo che avanza per cercare di succhiargli la volata finale. Non ne era uscito nulla, e forse è stato meglio così.

Anzi, certamente è stato meglio così perché, alla luce di quello che si è scoperto, ho capito cosa significava quella frase. Lui non era lì per ascoltare o capire il suo alter ego (e ci mancherebbe, sarebbe stato paradossale!), bensì per ascoltare e capire il suo stesso pubblico. Per essere partecipe delle reazioni che quelle persone manifestavano nell'avere a che fare con un segreto che lui solo conosceva. Ovvero che quell'opera era la sua opera. Che quello stile era il suo stile. Capite? L'uomo che mi mostrate in questa foto, e sui cui state realizzando il vostro documentario, era riuscito a essere da entrambe le parti della barricata! Prima come produttore di un'opera letteraria, e poi come compilatore dei commenti del pubblico alla stessa. Aveva completamente bypassato la funzione stessa dei critici o delle presentazioni in prima persona, dove la gente si mette addosso la faccia più falsa per dire ciò che più gli conviene, e non ciò che pensa realmente. Lui produceva e poteva anche verificare l'impatto della sua produzione. Ecco perché si trovava in quel luogo ad ascoltare e capire. E lo faceva con la precisa consapevolezza che il mondo se la stesse ridendo di lui. Che lo compatisse. Che lo additasse come uno scrittore finito da almeno un decennio. Lui sapeva ogni cosa, eppure non dava a vedere nulla, finendo poi col recitare entrambe le parti! Solo, in due palcoscenici diversi. La parte dello scrittore finito sul palcoscenico pubblico, dove è solo l'apparenza che conta. E quella della nuova narrativa che avanza sul palcoscenico della letteratura. Dove sono solo le idee e lo stile a fare la differenza, e poco importa l'età o il passato o il corpo che si fa vecchio e decrepito. Conta solo la scrittura. La scrittura in sé.

E allora torniamo alle pagine che avete letto, e ditemi voi cosa hanno in comune se non il fatto di essere state fisicamente scritte dalla stessa persona! Perché no, perché nessuno ci avrebbe mai scommesso un soldo. Perché gli stili sono troppo diversi. Così come le tematiche, il linguaggio, la sintassi, l'uso dei verbi, la punteggiatura! Perché, se voi foste stati al mio fianco (e al suo, che mi stava accanto) in quella piccola libreria parigina, non ci avreste scommesso un franco bucato che quel vecchio era l'autore del libro che un prestanome scelto ad arte stava presentando a pochi metri da lui. E anche voi lo avreste fissato con compassione e nostalgia, abbandonandovi alla dittatura dell'impressione, che dalla notte dei tempi è la più difficile da eludere.

E qui, cari miei, non c'è critico letterario che tenga. Perché la superficialità e i pregiudizi sono a prova di qualsiasi stroncatura.

 

 

Seconda Parte – segue Sabato prossimo

© Le Vite Davanti a Sé di Andrea Gratton


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