Sono nata settimina e pesavo nove etti. Fui avvolta nella bambagia e nutrita con il latte di capra, e intanto mamma pregava Dio perché mi togliesse dalle tribolazioni di questo mondo, che avevo avuto troppa fretta di conoscere. Una mattina, mentre mamma mi faceva il bagnetto dentro una scodella, sfuggii alla sua presa e andai a rotolare sotto il comò, e ci volle la scopa per tirarmi fuori, ma avevo battuto la testa e non facevo che ridere.
Ero la settima figlia, arrivata al mondo per sbaglio e di prepotenza ma decisa a restarci nonostante le avversità.
Quando fui un po’ cresciuta, mamma mi affidò alle Suore Trinitarie in via della Rocca, che si occupavano dei bambini di famiglie disagiate un po’ per misericordia e un po’ per provvidenziali compensi e lasciti, e iniziò così la mia vocazione alla vita monastica.
Mi piacevano gli abiti delle suore lunghi e scuri, il velo svolazzante, la cintola di cuoio, il crocefisso e l’anello d’oro; mi piaceva il loro odore di fiori e di cera e di minestra di cavolo.
Io con le suore mi trovavo bene, anche se erano molto severe. Ma era per il nostro bene che ci impartivano tante lezioni dolorose, per farci crescere nel Timor di Dio aspirando alla santità. Questo ci spiegavano, mentre ci asciugavano le lacrime.
Io da grande volevo farmi Suora Trinitaria, e quando lo dissi a mia madre, un giorno che era venuta a trovarmi, la vidi così contenta che mi rammaricai di non averglielo detto prima: ma prima quando, se non avevo ancora sei anni?
– Lo sapevo che ti saresti fatta sposa monaca! – disse mamma, tutta illuminata. – Ho pregato tanto perché si facesse la volontà di Dio!
Quelle due parole – ‘sposa monaca’ – mi si ficcarono nella testa come un ritornello che non riuscii più a scacciare e mi stava sempre sulle labbra.
Un giorno madre Luisa, che si occupava dell’orto e della cucina e raramente si vedeva in giro, mi prese da una parte e mi chiese:
– Maria Addolorata, che vai borbottando?
Ecco, io mi chiamo Maria Addolorata. Con questo nome sono stata battezzata, appena nata e già data per spacciata.
– L’ha detto mamma, che Dio mi vuole sposa monaca!
Madre Luisa mi strinse al petto, il suo crocefisso mi s’infilò tra le costole e mi prese un languore strano.
– Madre, che vuol dire sposa monaca? – le chiesi tremando, e lei cominciò a raccontare:
– Mi vestirono tutta di bianco, mi misero in testa una coroncina di fiori e tra le mani un lumino rosso. Mio padre mi accompagnò all’altare, dove c’erano le suore che mi avevano cresciuto. Mi fecero inginocchiare davanti alla Madre Superiora e iniziò la cerimonia della mia vestizione religiosa. Il suono dell’organo riempiva la chiesa, e l’odore dei gigli faceva girare la testa. Mi fecero stendere a terra a pancia sotto, mi tolsero il vestito bianco e la coroncina di fiori e mi fecero indossare i panni che non mi sarei più tolta. E così mi presenterò al mio Gesù, com’ero vestita nel giorno che divenni sua sposa per l’eternità.
Saltai dalle sue ginocchia e scappai via. Scavalcai il cancello e mi buttai tra i campi, in cerca di un nascondiglio sicuro.
Quando mi trovarono, dopo tante ricerche, urlai:
– Non è vero che Dio mi vuole sposa monaca, me l’ha detto stanotte la Madonna!
Non l’avessi mai detto.
– Maria Addolorata, che tu sii benedetta! La Madonna ti ha parlato! – disse mamma come attraversata da un raggio di sole, cadendo in ginocchio. – Lo sapevo io, che non eri fatta per questa terra!
E da quel momento fui custodita come una reliquia vivente.
Ogni tanto penso alla fuga, ma diventa un pensiero sempre più appannato, ed io mi sento sempre più stordita dall’odore d’incenso e di cera di cui anche le mie carni si sono impregnate.
Mi hanno appena detto che presto inizierò il difficile percorso per diventare sposa monaca. Ed io prendo a ridere, a ridere, a ridere, come quando appena nata andai a rotolare sotto il comò battendo la testa, troppo piccola forse per essere stretta dalle mani di mia madre.