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Renata Adamo. “L’Iliade o il poema della forza” di Simone Weil
17 Febbraio 2013
 

La forza trasforma chiunque da essa venga toccato

 

 

Simone Weil

L’Iliade o il poema della forza

Asterios Editore, 2012, pagg. 112, € 9,00

Introduzione di Alessandro Di Grazia

(Titolo originale: L’Iliade ou le poéme de la force,

Cahiers du Sud, 1943)

 

Simone Weil scrisse quest’opera tra il 1936 e il 1939 e tra il 1940 e il 1941. Uscì sui Chaiers du Sud a Marsiglia e fu uno dei pochi testi pubblicati mentre l’autrice era ancora in vita. Le date hanno importanza per inquadrare il periodo storico nel quale sviluppò queste riflessioni che sorprendono per l’analisi lucida e originalissima.

La recensione che mi accingo a scrivere si limita a cogliere alcuni aspetti dell’opera e a dare risposta ad alcuni quesiti a mio avviso fondamentali. Innanzitutto perché L’Iliade e perché “poema della forza”. Poesia e forza hanno forse qualcosa in comune? E ancora, che genere di poema è L’Iliade?

Riporto fedelmente le parole dell’autrice: “La scelta di parlare di poesia e di forza ricade sull’Iliade perché essa è pervasa dalla virtù dell’equità. Non altrettanto si può dire dell’Odissea che sembra essere solo un’ottima imitazione ora dell’Iliade, ora dei poemi orientali e neppure della Chanson de Roland, in quanto la morte del nemico non è sentita dall’autore e dal lettore allo stesso modo della morte di Rolando”. (ib. Pag.81).

In assenza della virtù dell’equità, ovvero della giusta distanza nel posare lo sguardo sul vinto e sul vincitore, non è possibile astenersi da una lettura unilaterale della storia. Al contrario, nell’Iliade, non si comprende neppure se Omero sia greco o troiano.

Nell’Iliade, vincitori e vinti sono posti su un piano di geometrica corrispondenza perché la forza contagia e corrompe allo stesso tempo, nell’istante in cui si compie, sia il vincitore sia il vinto. Questa considerazione conduce ad un elemento essenziale dell’opera, ovvero alla visione della forza come movimento ciclico, fenomeno storicamente ricorrente che i Greci chiamarono nemesi e gli orientali karma. Al di fuori dei Greci, nel pensiero occidentale non si rileva nulla di equivalente a nemesi e tanto meno a karma.

La virtù dell’equità inoltre fa in modo che il Poema non canti tanto l’eroismo nella battaglia o le fantastiche ingerenze degli dei nei casi umani. L’Iliade è piuttosto il poema della forza e del potere che essa ha da una parte di portare alla rovina chi la esercita e dall’altra di pietrificare e ridurre a cosa chi la subisce.

La forza ha il potere di trasformare un uomo in cosa. “Egli è vivo, ha un’anima e tuttavia è una cosa. Un essere ben strano: una cosa che ha un’anima. Un compromesso tra uomo e cadavere”. (Ib. P.42).

Non penso che Simone Weil avesse consapevolezza, nel momento in cui scriveva, dell’esistenza dei campi di sterminio. Rimane il fatto che raramente è stata data una definizione così puntuale della condizione di estrema sventura nella quale caddero coloro che vissero quell’esperienza.

E se è vero che esiste un carico di sventura equamente distribuito per chi la forza esercita e per chi la subisce, se è vero che alla nemesi o al karma non si sfugge, mi domando quale sia e in quale divenire si collochi il destino dei carnefici, anche di coloro che pretesero di giustificarsi con l’ignoranza dei fatti che quell’orrore causarono.

Tornando allo scritto di Simone Weil penso che lei, al tempo, si riferisse piuttosto alla figura dello schiavo, dell’operaio alla pressa, del vinto. Soprattutto indicava con precisione e nella cruda luce che le compete, cosa fosse realmente l’alienazione. Termine quest’ultimo fin troppo abusato al punto di averne smarrito il significato originario. Significato che si ravviva in tutta la sua sconvolgente violenza nella definizione che lei ne dà: un uomo che non è né persona né cadavere ma un compromesso tra l’una e l’altra cosa.


Il problema della guerra, di qualsiasi guerra, non è tanto vincere”, scrive ancora l’autrice, “quanto portare a nullità il movimento dell’altro. Una stasi carica di angoscia che elimina nello sventurato ogni possibilità di considerarsi portatore di alcun diritto e della stessa qualità di esseri umani…”.(v. Introduzione di A. Di Grazia, p.28).

Le considerazioni della Weil rifuggono da ogni astrattezza, si fondano sull’esperienza diretta prima come operaia alla Alsthom, poi alla Renault:

“… Tutte le ragioni esteriori (che prima avevo creduto interiori), sulle quali, a mio giudizio si fondavano il sentimento della mia dignità e il rispetto di me stessa, sono state frantumante radicalmente in due, tre settimane sotto i colpi di una costrizione brutale e quotidiana. Ne è conseguita non una rivolta ma una docilità da bestia da soma…”.

Nessuna trascendenza consolatoria, solo il senso del tragico e della finitezza dell’uomo.

La non consapevolezza del limite, della giusta misura, ha come radice il non riconoscimento dell’altro. Non solo lo schiavo o il vinto non hanno consapevolezza dell’altro al punto che ogni gesto di grazia del carnefice è percepito con gratitudine ma anche il vincitore e il carnefice non hanno questa consapevolezza.

Chi possiede la forza procede in un ambiente privo di resistenze, senza che nulla, nella materia umana che lo circonda, possa suscitare tra l’impulso (di uccidere) e l’atto, quel breve intervallo in cui abita il pensiero. Gli uomini che non impongono ai loro atti quel tempo di sospensione, da cui solamente procede il rispetto verso i nostri simili, concludono che il destino ha dato loro ogni licenza e ai loro inferiori nessuna” (p. 75, ib.).

Ettore che in un primo momento riesce a respingere l’assalto degli Achei acquista non la consapevolezza del limite oltre il quale occorre fermarsi, pena la distruzione di Ilio, ma l’ebbrezza della vittoria. In questo modo cade nella trappola della forza che permette al nemico di rovesciare le sorti della battaglia.

Il punto di rottura del meccanismo della nemesi o del rovesciamento dei contrari sta dunque, secondo Weil, nel pensiero, nel tempo di sospensione che si introduce nella dialettica servo padrone. Il pensiero, la sospensione che spezza il ciclo della forza non si traduce in esultanza o in composizione finale degli opposti. L’individuo che spezza la nemesi è al contrario pervaso da un’amarezza prossima alla disperazione. Il pensiero che si inserisce in quell’angusto spazio è ciò su cui si gioca la possibilità di umanizzare la forza, disobbedendole. Gettare lo sguardo nell’intimo del suo meccanismo senza pensare di fermarlo. La pausa in cui il pensiero si insinua, allora, non è un semplice pensiero bensì la controforza, il destino umanizzato, il superamento della legge del taglione.

Avevo posto all’inizio di questa recensione la domanda seguente: perché un poema come l’Iliade può narrare la forza? Nulla stride di più dell’accostamento tra poesia e forza. E infatti, il vincitore non ama una narrazione poetica come l’Iliade perché in essa è assente l’esultanza della vittoria. La virtù dell’equità è intollerabile per il vincitore perché riduce in cenere il suo prestigio.

Espressioni come eroismo, patria, sacrificio, esaltazione nazionalistica, perdono senso sotto la cruda luce dell’equità. La forza allora diviene sinonimo di sventura per entrambe le parti in gioco. Ne consegue, sotto questo punto di vista, che libri e libri di storia potrebbero serenamente finire al macero essendo nient’altro che retorica, esaltazione servile del vincitore, partigiana visione dei fatti.

 

Renata Adamo

 

 

Simone Weil nasce nel 1909, il 3 febbraio, a Parigi. Matematica e filosofa, nella sua breve vita – morirà nel 1943 – lavorò incessantemente anche grazie ad esperienze dirette, ai temi del totalitarismo, dell’alienazione, della forza, del potere. Fondamentali, per una conoscenza di questa originalissima figura di filosofa, sono i Quaderni pubblicati tutti da Adelphi, per la cura di Giancarlo Gaeta. Altrettanto importanti sono le sue riflessioni sul Cristianesimo al quale si avvicinò appassionandosi alla figura del Redentore e al Vangelo. Altri scritti di particolare rilievo sono: Sulla Germania totalitaria e Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale pubblicati in Italia sempre da Adelphi.


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