Avevo sei anni quando per la prima volta mi lanciarono i coltelli. Portavo un vestitino luccicante e sugli occhi una benda nera.
Non avevo avuto paura, io c’ero nata tra il lancio dei coltelli e non pensavo fosse pericoloso: era un gioco, e potevo vincere solo stando immobile e trattenendo il fiato.
Sentivo il coltello arrivare e piantarsi sulla tavola di legno, mentre io facevo il conto alla rovescia come mi era stato insegnato.
Durava poco il nostro numero, ed eravamo applauditi a lungo.
Ci spostavamo con il nostro carrozzone in tutti i paesi, dove c’erano feste e fiere e spazio per montare il circo. Mi piaceva vivere così, facendo da bersaglio e preparandomi a diventare da grande lanciatrice di coltelli. Coltelli veri, taglienti e lucidi.
Io ero orfana come tanti altri bambini del nostro piccolo circo, che vantava tanti numeri pericolosi. Le disgrazie capitavano spesso ma lo spettacolo non s’interrompeva mai: era la prima lezione che ci veniva impartita, e tanti di noi la imparavano troppo presto. Io l’avevo imparata così presto, con la perdita dei miei genitori, che nemmeno mi ricordavo di loro.
Il circo, diceva sempre il padrone, è come una grande famiglia dove nessuno si sente solo e i bambini sono di tutti. Noi bambini eravamo in tanti e altri continuamente ne arrivavano e subito erano messi al lavoro.
Il padrone si lamentava del nostro appetito, diceva che spendeva troppo e ci metteva a dieta per non farci ingrassare. Diceva che nel nostro lavoro, il grasso era il primo pericolo da evitare.
Lui però era grasso e mangiava sempre da solo, ma non dormiva mai da solo nella sua tenda; voleva compagnia perché diceva che aveva paura di soffocare nel sonno.
E cosa ne sarebbe stato di noi se lui fosse morto? ci ripeteva ogni giorno. E ogni sera sceglieva uno di noi per vegliare sul suo sonno agitato.
Io la notte correvo spesso a rifugiarmi da Gelsomina, la donna tuttofare che dormiva in cucina e si diceva che fosse stata una formidabile lanciatrice di coltelli. – Impara a lanciare i coltelli e vedrai che il padrone la finirà di smaniare la notte – lei mi diceva, facendomi posto nella sua cuccetta.
Divenni presto grande, e abilissima nel mio lavoro.
Quando arrivò il mio momento, baciai i coltelli prima di lanciarli e non mancai un colpo. Sulla tavola c’era Arianna, con un vestitino luccicante e una benda nera sugli occhi. Non mi ero accorta che piangeva. Lo capii alla fine del numero, in mezzo agli applausi, quando andai a riprendere i miei coltelli e vidi le lacrime scendere sulla faccetta bianca del mio bersaglio.
– Perché piangi? – le chiesi stupita, ricordando come io fossi stata contenta e senza paura quando per la prima volta mi ero trovata al suo posto.
Arianna, appena liberata dalle lame con cui avevo incorniciato il suo corpo, corse via senza ringraziare il pubblico, ma ad aspettarla dietro il tendone c’era il padrone che con una manata la rimandò in pedana, e lei graziosamente s’inchinò più volte, bevendo lacrime mentre sorrideva.
Io più forte stringevo i coltelli, erano fuoco tra le mie mani, mentre lanciavo il mio sguardo gelido al padrone che cominciò a indietreggiare mentre io avanzavo, vestita di lustrini e con una bandana nera che mi stringeva le tempie pulsanti fra scoppi rossi. E mentre andavo verso di lui sentivo nelle vene il ghiaccio di tutti i lanciatori di coltelli la cui mano non può tremare, e tutta l’angoscia dei bersagli umani che su quella tavola di legno restavano inchiodati dal terrore.
E pensai che adesso sarei stata io a tenere sotto tiro il padrone: la vecchia Gelsomina mi aveva passato la mano.