La Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo ha aperto i battenti con la grande mostra evento aperta fino al 19 maggio, a Padova nella sede di Palazzo del Monte di Pietà in Piazza Duomo con il titolo di “Pietro Bembo e l’invenzione del Rinascimento”, a cura di Guido Beltramini, Davide Gasparotto e Adolfo Tura (catalogo Marsilio). L’evento ha creato la possibilità di riportare a Padova, dopo cinque secoli i capolavori della collezione che l’intellettuale veneto aveva riunito nella propria casa, ancora esistente nell’attuale via Altinate.
Pietro Bembo (Venezia, 20 maggio 1470 – Roma 18 gennaio 1547) è stato un cardinale, scrittore, grammatico e umanista italiano. Regolò per primo in modo sicuro e coerente la lingua italiana fondandola sull’uso dei massimi scrittori toscani trecenteschi. Contribuì potentemente alla diffusione in Italia e all’estero del modello poetico petrarchista. Le sue idee furono inoltre decisive nella formazione musicale dello stile madrigale nel XVI secolo. La sua collezione, in parte ereditata dal padre, e in seguito integrata da lui stesso, raccoglieva dipinti di prima grandezza, opere antiche, bronzi, gemme, monete, vetri, manoscritti, strumenti scientifici.
Il San Sebastiano di Mantegna oggi alla Ca’ d’Oro, per esempio, che era rimasto nella bottega dopo la morte del pittore e pervenne nelle mani di Pietro forse per il tramite dei Gonzaga. Accanto a esso il Raffaello commissionato da Bembo che raffigura due suoi carissimi amici, Nagavero e Beazzano ritratti seduti a un tavolo, per dare l’illusione di una civile conversazione fra amici lontani. E ancora un dittico di Memling, smembrato e conservato a Washington e a Monaco, riunito per la prima volta in Italia. Insieme ai dipinti in mostra si riuniscono le statue antiche, le teste di Antinoo, di Caracalla, di Bruto e Domiziano, accanto ai bronzetti, alla famosa corniola incisa di Dioscoride, le iscrizioni antiche e le monete romane. Ma la raccolta non era generata da un gusto, per quanto squisito. Il Bembo studioso riuniva oggetti che gli servivano per conoscere la realtà intorno a sé e analizzarne i segreti del mondo antico. Una collezione di vero e proprio studio e penetrazione della storia.
Più di una volta una moneta romana gli aveva fornito la prova per la corretta dizione di un termine latino, in quanto fonte primaria proveniente direttamente dal mondo romano e non mediata dal Medioevo. Ma ancor di più il mondo antico era indagato con pezzi come la Mensa isiaca, una lastra di altare in bronzo e argento con rappresentati geroglifici del culto di Iside, un pezzo rarissimo, uno dei pochi che proveniva dal mondo egizio in una collezione rinascimentale. Una raccolta che era per lui, soprattutto nel settore «archeologico» e nella ricchissima biblioteca, un fondamentale strumento di lavoro, insomma perché era lo «Studio» di Pietro Bembo, il baricentro della vita del più influente uomo di lettere d’Italia della prima metà del Cinquecento.
Pietro Bembo si laureò all’Università di Padova e fece ulteriori studi (1497-1499) alla corte di Ferrara, che allora i D’Este avevano trasformato in un importante centro letterario e musicale. Lì incontrò Ludovico Ariosto e iniziò ad elaborare Gli Asolani.
Lo stesso Ariosto si recò più volte a visitare la sua prestigiosa collezione e per fargli conoscere la propria revisione dell’Orlando Furioso in vista della terza edizione del poema. In questo modo la casa divenne il tempio sacro a Minerva, la casa delle muse, antesignana di quello che sarebbe stato il museo moderno. I poeti che lo ispirarono sempre nella sua poesia furono il Boccaccio e il Petrarca. Amava far accompagnare le sue opere poetiche da fanciulle che suonavano il liuto, e in una circostanza, nella corte di Mantova, ebbe occasione di avere come accompagnamento Isabella d’Este, cui poi regalò una copia de Gli Isolani. Tornò a Ferrara nel 1502, dove conobbe Lucrezia Borgia, all’epoca moglie di Alfonso d’Este, con la quale ebbe una relazione. In quel tempo Ferrara era in guerra con Venezia per il controllo del Polesine, di Rovigo e del mercato del sale (“guerra del sale”). Bembo fuggì nel 1505 quando la peste decimò la popolazione della città.
La mostra ha ritrovato e riunito dai musei europei e americani la collezione che rese celebre il “museo” Bembo a Padova. Ma ha anche l’ambizione di raccontare una storia più vasta, vale a dire le relazioni fra un grande letterato, un influente critico letterario e non solo, e il mondo dell’arte. L’esposizione mette in scena diverse di queste storie a partire dal rapporto strettissimo e fecondo con il geniale editore veneziano Aldo Manuzio. Presenta inoltre un dipinto che in Italia non si vedeva da cinquantotto anni, dai tempi della leggendaria mostra di Giorgione a Palazzo ducale: si tratta di un dipinto di Giorgione che rappresenta un giovane con in mano un libro verde. Non si tratta solamente di un quadro affascinante, ma è la testimonianza della diffusione di una moda tra le élite della penisola a partire dal 1501, Aldo Manuzio insieme a Bembo concepisce un nuovo tipo di libro a stampa, completamente diverso dai grandi libri che si leggevano, ad alta voce, nelle aule universitarie: pur trattandosi di autori classici, il libro sarà privo di commento, stampato per la prima volta in carattere corsivo, e soprattutto sarà così piccolo da poter stare in una mano, da divenire portatile.
La grande stagione romana, durante la quale Bembo è segretario di papa Leone X, è raccontata in mostra con uno dei grandi arazzi di Raffaello per la Cappella Sistina. La mostra si chiude con il ritratto di Tiziano di Bembo cardinale, successivo alla nomina del 1539, negli anni in cui Pietro si avvicina all’ambiente spirituale di Vittoria Colonna, evocata in mostra dal manoscritto di poesie che ella donò a Michelangelo.
Maria Paola Forlani