«La bellezza è verità, la verità è bellezza: questo è tutto ciò che voi sapete in Terra e tutto ciò che vi occorre sapere». Questi versi conclusivi di una celebre poesia di John Keats (l’“Ode su un’urna greca”) dicono, fra l’altro, che non può esserci bellezza artistica senza verità. Naturalmente, la verità dell’arte è altra cosa rispetto alla verità del giornalismo o dei libri di Storia.
È una verità in primo luogo interiore, che riguarda i sentimenti: la cui presenza, il cui soffio, può rendere vivi, e dunque veri e belli, anche i personaggi immaginari di un film. Questa premessa, che ha certo il torto di trattare in termini spicci questioni complesse e controverse, è però opportuna a proposito di un film dove tutto, o quasi tutto, è falso, e ostentatamente falso: Django unchained di Quentin Tarantino.
Beninteso: il film è ambientato ai tempi dello schiavismo negli Stati dell’America del Sud, e lo schiavismo è una verità storica. Ma, guardando il film di Tarantino, più che alla Storia, viene da pensare al cinema; e cioè a come il cinema ha già trattato i temi e i personaggi del film (che abbonda del resto di citazioni cinematografiche). I primi film che vengono in mente sono i western, dal momento che i due protagonisti di Django sono cacciatori di taglie. E non soltanto i western americani, ma anche le loro più tarde imitazioni italiane (i cosiddetti: “spaghetti western”).
I western raccontavano la nascita di una nazione, trasfigurata in un mito. Le imitazioni italiane erano, per così dire, il mito di un mito. Il film di Tarantino, che arriva per ultimo in questa trafila, è il mito di un mito di un mito; o se preferite, un’imitazione di terzo grado. Dietro tanti schermi, si capisce come il senso della verità si sia quasi del tutto volatilizzato. E parlo appunto di verità artistica. Consideriamo i due protagonisti del film.
Il cacciatore di taglie bianco veste da gentiluomo; parla in modo quasi ridicolmente forbito; ma ha la rivoltella così rapida che può compiere un massacro a bruciapelo. Il suo alleato nero, Django appunto, è la maschera della vendetta. Ma sotto un’apparenza fredda e spietata, nasconde un cuore tenero: è capace di sottoporsi a prove pericolosissime e a sofferenze inaudite, pur di liberare dalla schiavitù la ragazza di cui è innamorato. Si tratta appunto di maschere, di clichés, di meccanismi elementari. Del resto Tarantino non pretende che crediamo alla loro verità, così come a quella dei comprimari; o delle tante stragi di cui i due sono autori, folgoranti come le gag di un film comico.
Django unchained è, in gran parte, l’accurato, appassionato rifacimento dei film di un certo filone; e allo stesso tempo è la loro parodia. Ma allora tutto è falso nel film di Tarantino? Questa sarebbe una conclusione frettolosa, perché a contrasto con la falsità dominante, sono incuneati nel film dei momenti di lancinante verità.
Ecco per esempio un flashback dove il volto di uno schiavo, ingabbiato da una museruola, con gli occhi disorientati dal terrore – è stato catturato dopo un tentativo di fuga – è di fronte al volto del suo padrone che, non senza compiacimento, gli illustra la punizione tremenda che gli sarà inflitta. Oppure: nel salotto di un giovane gentiluomo, tra il divano e il caminetto, si intravvedono dei bagliori di corpi nudi. Scopriamo presto che sono due lottatori neri avvinghiati tra loro, che per il gusto del padrone di casa e dei suoi ospiti sono fatti combattere fino al massacro più cruento dello sconfitto.
O si pensi alla tante schiene nude, di uomini ma anche di una giovane donna, sfregiate dai colpi di frusta (il cui sibilo è evocato in uno dei brani principali della colonna sonora). Un po’ come nei romanzi del marchese de Sade, dove gli ambienti sono avvolti da un’aura leggendaria o favolosa, nel film di Tarantino a essere veri, perché sadicamente “sentiti”, sono i dettagli più crudeli del racconto. Hanno tutto il fascino delle cose proibite. Ma è un fascino che si accompagna sempre al senso del Male.
Gianfranco Cercone
(da Notizie Radicali, 29 gennaio 2013)