Cogliamo l’occasione delle celebrazioni ufficiali per il 70° anniversario della battaglia di Nikolajewka, per ricordare che la tragedia in Russia (1942-43) è stata l'ultima di una lunga serie di guerre volute dal fascismo, da Mussolini, da una casta di alti ufficiali e dalle forze economiche e industriali che appoggiarono la sua politica estera di aggressione e di conquista. Ricordare la Russia, in primo luogo significa allora condividere la verità storica su chi quel conflitto bellico scatenò: il nazismo e il fascismo, suo alleato e corresponsabile di tale immane tragedia. I milioni di morti che si contarono alla fine del 1945, vanno ascritti tutti alla loro responsabilità. Ventisei milioni di cittadini e cittadine dell'ex Unione Sovietica (“sotto specie umana” erano stati definiti i popoli slavi), furono aggrediti e sterminati non solo dai tedeschi ma anche dalle nostre truppe che furono impiegate sia per combattere sul campo di battaglia che in rastrellamenti, distruzione di villaggi e fucilazioni. Se le nostre unità, per il numero e la disposizione, ebbero un ruolo minore nelle operazioni belliche, esso non per questo fu meno criminale. Stavamo dalla parte sbagliata e facevamo una guerra, come in tutte le guerre, in cui si uccide o si viene uccisi perché “pietà l'è morta”. La guerra è sempre un delitto, comunque venga giustificata, contro popoli cosiddetti “nemici” e l'essere umano in sé, perché ne mette in risalto il suo lato peggiore.
Il 22 giugno 1941 iniziò l'offensiva tedesca che aveva l'obiettivo di occupare la Russia sino agli Urali. Agli oltre 3 milioni di soldati tedeschi, si aggiunsero circa 700 mila tra finlandesi, romeni, ungheresi, slovacchi e italiani. Berlino avvisò Roma ad attacco iniziato: il duce decise immediatamente di parteciparvi anche se Hitler tentò di evitarlo. Per Mussolini era una questione di prestigio politico e così, alla fine del '42, l'armata italiana in Russia poteva contare su 230 mila uomini. Tra dicembre e gennaio del '43, pur nella certezza che sarebbe stato dato l'ordine di ritirata, il comandante dell'ARMIR e del corpo alpino, non provvidero per nulla alla sua organizzazione: né mezzi di trasporto, né vestiario adeguato, né viveri, né alcun coordinamento. Le divisioni alpine (soprattutto la Julia e la Cuneense) andarono perdute per la mancanza di collegamenti e indicazioni che i comandi non seppero fornire. Il sacrificio di tanti alpini fu dovuto anche al fallimento dei loro comandi. Ma tale fatto non toglie nulla al riconoscimento dell'estrema coesione di gruppo e lealtà verso i compagni che permisero a molti soldati di sopravvivere e ritornare a casa. Alla fine, la “conquista” della Russia da parte italiana costò la vita a 75 mila uomini tra quelli caduti in battaglia e nei campi di prigionia. In sessant'anni di democrazia, non abbiamo mai ascoltato un capo di governo italiano, o della Repubblica, chiedere scusa per quello che il nostro “popolo in armi” aveva inflitto agli altri, così come hanno invece fatto le più alte autorità tedesche nei confronti di quello ebraico. Mai un sincero “perdonateci” ai libici, agli etiopi, agli spagnoli, agli albanesi, ai greci, agli jugoslavi, ai russi. Mai. Così come i russi non l'hanno fatto con gli afghani e i ceceni, gli inglesi e i francesi con gli ex sudditi delle loro colonie, o gli Stati Uniti con tutti i popoli che o direttamente o per interposto governo, hanno soggiogato costringendoli a subire terribili dittature. Ma se non si parte da una memoria condivisa, dal riconoscimento delle proprie responsabilità, dal debito contratto nei confronti delle vittime, non ci potrà mai essere spazio per alcune vera, profonda riconciliazione. La menzogna, la rimozione, l'uso propagandistico della storia porta a distorcere le coscienze, a non saper distinguere, a vedere eroi i criminali o i responsabili di immani tragedie, e colpevoli le vittime. La storia è maestra di vita solo se i discepoli sono attenti e interessati ad imparare. Ma visto le cose come vanno (guerre umanitarie, lotta al cosiddetto terrorismo internazionale, al fondamentalismo ecc.) pare che non sia ancora così.
Brescia, 24 gennaio 2013
Claudia Capra, Matilde Capra, Paolo Infantino,
Adriano Moratto, Roberto Cucchini
del Movimento Nonviolento di Brescia