Nell'incerta luminosità di un pomeriggio d’inverno, simile a questo tardo meriggio di febbraio, Karim mi sta guardando assorto, segue un suo pensiero, un filo invisibile, una traccia che posso intuire appena attraverso i suoi occhi.
Karim è un ragazzo del Marocco, eternamente contestatore, fortemente integralista. È un soggetto che in ambiente scolastico si definirebbe cinestesico. È iperattivo, roso da un desiderio disperato di vita, ma schiacciato da un dolore sordo, interno, da un risentimento che come un’eco evoca, rimanda, a torti subiti, ad una profonda, radicale scontentezza che da sempre alimenta il progresso dell’umanità ed avvelena ogni attimo della nostra vita.
Karim raramente tace e anche quando è in silenzio, si avverte che qualcosa sta montando, sta crescendo dentro di lui. In questi casi bisogna solo aspettare.
Ad un certo momento mi parla del mare, della risacca e dei riflessi della luna scintillante.
Mi narra di una corsa lungo una spiaggia in Libia, con gli occhi chiusi ed il cuore in gola e la speranza che dalle altane non giungano i colpi delle guardie. Così inizio a rendermi conto che sta vuotando il sacco su un’esperienza atroce, importante, che ancora può raccontare unicamente in terza persona, quasi con un’artefatta leggerezza, come se fosse una storia che ha ascoltato distrattamente un po’ di tempo fa, che non lo ha coinvolto personalmente o particolarmente interessato.
– Sul barcone erano almeno una trentina di persone – dice. – Lo scafista, un tunisino, era un barcaiolo coscienzioso, ma privo di bussola.
Navigano per giorni, il cibo e l’acqua sono quasi finiti e tutti capiscono che qualcosa è andato storto. Finalmente vedono una motovedetta. Ma non è italiana, è greca.
Le guardie indicano a gesti la direzione per l’Italia; offrono alcune bottiglie di minerale e imperiosamente li spingono fuori dalle loro acque territoriali.
Così passano altri giorni, è finita l’acqua, è finito il cibo. Le notti sono terse, Karim sente piangere sommessamente e guarda rapito il cielo stellato brillare come non si vede nemmeno sulle spiagge di Aïn Diab, a Casablanca.
Nelle prime ore del mattino sbarcano a Lampedusa, vengono subito avvistati e catturati. Prima, però, riescono a distruggere tutti i documenti e, in un centro di accoglienza vengono interrogati a lungo dai carabinieri che cercano di appurare la loro identità e il nome dello scafista.
Tutto ciò che segue, viene raccontato come si può narrare la trama improbabile di un sogno un po’ surreale, ma è una storia che si svolge nel nostro civilissimo paese: il trasferimento ad Agrigento per il rimpatrio, un carabiniere che gli fa guadagnare 20 Euro mettendolo in fila con altri stranieri e facendogli gridare a mani alzate, ripreso con una telecamera, “Italia Uno!”. La fuga dal campo, la vita di espedienti alla Stazione ferroviaria di Palermo. Il viaggio su un camion con altri “fratelli africani”, il lavoro duro in un campo assolato, aspro e racchiuso da orizzonti che gli ricordano la propria terra.
Ora è tutto passato. Karim presta la sua opera di elettricista in un’impresa edile, non ha il permesso di soggiorno, ma si è abituato a scivolare inosservato tra la nostra gente, sulle nostre strade.
– Tutto è scritto – mi dice – io sapevo che Allah aveva deciso di non terminare i miei giorni sul mare.
Mi accorgo che finalmente è passato alla prima persona, ma i suoi occhi sono tornati duri, sospettosi.
È ricomparso il riserbo, ora, ma capisco che adesso qualcosa ci unisce, qualcosa che in qualche modo mi è giunto grazie al dono, umanissimo, della condivisione.
Un racconto trascritto il 23 Febbraio 2011 da Fabrizio Perret