Non sapeva più quanti anni aveva e non le importava saperlo.
Viveva nella casa dov’era nata e dove era nata sua madre e la madre di sua madre. Più indietro non andava con il conto delle generazioni.
Si chiamava Amina, ma tutti la conoscevano come Minuccia.
Quando era nata – raccontavano gli anziani – era spuntato un nuovo fiore tra le tombe preistoriche scavate nella roccia. E quel fiore, di un colore incerto fra l’azzurro e il viola, così somigliante al colore degli occhi di Minuccia, si propagò nell’isola e ne cambiò l’aspetto.
Minuccia da bambina tante volte si era persa nel dedalo di grotti e tunnel che attraversavano l’isola e – si diceva – custodivano tesori nascosti dai pirati al tempo delle invasioni. Si diceva anche che nella grotta della Vergine e del Leone fosse sepolto, chiuso dentro una scatola di ferro, il seme di una pianta ingorda che, se interrato senza prima averne spaccato il cuore, sarebbe fiorito in una notte e avrebbe ingoiato ogni altro tipo di vegetazione nel giro di una rotazione lunare.
Tante cose si dicevano sull’isola e tutte erano vere ma non verificabili. Una maledizione era stata lanciata dall’ultimo monaco, mentre ardeva tra le rovine dell’abbazia presa d’assalto e distrutta da un’orda di barbari di cui non si seppe mai la provenienza. Gridò, l’abate incatenato alla colonna centrale del convento, mentre le fiamme gli avvolgevano la testa bianca e la barba fluente, le parole che corsero nell’aria e gravarono per sempre nell’animo degli isolani: “La verità muore con me, dispersa con le mie ceneri”.
Il giorno del rogo tirava un vento dolce che smuoveva appena la rada vegetazione spinosa che copriva la scogliera e scivolava verso la Tana del Coniglio, all’estremo limite dell’isola, prima dello strapiombo. E la più vecchia donna del paese – si diceva che avesse aiutato a nascere tutti gli isolani degli ultimi cento anni –, che per misteriose vie aveva ereditato la visione di quel tragico evento e appreso il segreto della maledizione dell’abate, fu proprio nella direzione in cui in quel giorno infausto il vento tirava che scavò la prima tomba per sotterrarvi il feto di una femmina che non era riuscita a trarre viva dalle carni della madre.
In quel luogo vennero d’allora sepolti tutti gli abitanti che lasciavano questa vita, trasportati a spalle dai giovani lungo la viuzza che nel tempo si era venuta a creare fra la sterpaglia.
Quando la vegliarda sentì arrivare la sua ora, fece chiamare Minuccia per passarle l’eredità di veggente e tutto quello che possedeva: uno scialle di lana grezza filata con fili d’argento, una sottana bianca di pizzo, una scatola piena di pietruzze luccicanti e una treccia di capelli neri.
Erano sole, mentre si scambiavano le ultime parole. Ma si narra che tra loro passò, come un volo di tortore, ciò che è frutto del tempo ma non assoggettato al suo scorrere.
Minuccia, nella sua lunga vita, tante donne aiutò nel travaglio e vide partorire, ma lei non ebbe mai figli né mai conobbe l’abbraccio di un uomo, vivendo tuttavia in pienezza il suo grande sentimento d’amore. Curava la vita in tutte le sue manifestazioni e con particolare dedizione ne curava l’ultimo atto, il compimento. Era lei che si occupava del campo ai bordi dello strapiombo, dove per ogni nuovo ospite spargeva semi e conficcava radici, fidando in fioriture sempre più ibridate e rigogliose.
Lì, dove il vento aveva depositato quel giorno lontano del rogo le ceneri dell’abate, Minuccia aspettava di conoscere la Verità, ma senza troppo cercarla. E mentre il campo diventava un giardino incantevole, attirando la scarsa fauna dell’isola, Minuccia lentamente apprendeva il linguaggio dell’Oltre. Una strana lingua, scaturita dalla commistione di tutti i linguaggi – conosciuti e oscuri – che passano per la bocca del Tempo.
Lo scialle di lana si disfece sulle spalle di Minuccia, la sottana di pizzo si logorò fino a sfilacciarsi, la treccia di capelli neri si sfarinava come erba secca, e solo i sassi lucenti rimanevano indenni dentro la scatola di ferro. Minuccia comprese allora che non avrebbe trovato quel che cercava coltivando il giardino della Morte, ma nella Memoria insita in tutte le cose.
Nella casa che era stata di sua madre e della madre di sua madre – e prima ancora di chissà quante altre madri e altre figlie – Minuccia ebbe un’ispirazione.
Era sola, in quel mattino pieno di vento rabbioso che tirava verso il campo fiorito.
Minuccia si tolse lo scialle, si sfilò la camicia e scivolò nell’acqua della tinozza per lasciarvi tutta la sua stanchezza e liberare la pelle da ogni impurità. Chiuse gli occhi, Minuccia, e non contò più i battiti del tempo né quelli delle sue vene. Quando il vento si calmò uscì dalla tinozza, indossò una veste nuova e si mise al lavoro.
Non pensava di potercela fare, spostare tante cose con le sue poche forze, ma riuscì infine a sistemare la stanza più luminosa della casa proprio come desiderava. E capì di aver sfatato la maledizione dell’abate: la Verità non muore e non si disperde come cenere.
Intanto si era fatto notte e Amina scacciò il buio accendendo tutte le candele che le erano rimaste.
Si guardava intorno, nella luce calda e vibrante, e trovava ovunque la Verità:
nei volti degli antenati che la guardavano dalle pareti
nel quadrifoglio dentro il libro ingiallito
nelle Sacre Scritture alla pagina dei Profeti Stupidi
nella tovaglietta ricamata a punto croce
nella testiera di ferro smaltato
nella corona di madreperla
nelle scarpette di un bimbo mai diventato adulto
nella ciotola con le spighe di lavanda
nella brocca di terracotta
nella collana di ossi di pesca
negli scarponi di un uomo di cui altro non resta
nel cuscino in cui nessuna testa ha mai affondato
nel legno tarlato del comò
nel Cristo col manto rosso benedicente
nel forziere di legno marino con le borchie arrugginite
nella teiera ammaccata di alluminio
nei disegni infantili e nei magistrali dipinti
nelle ruvide mura vocianti
nel fresco respiro delle tende.
“Che cosa manca ancora?” si chiese Minuccia, sentendo una specie di vuoto nelle ossa. E sorrise conoscendo la risposta. Fu allora che si addormentò, mentre il vento dolcemente lambiva la casa e dal campo fiorito sullo strapiombo giungeva il profumo di terra smossa.
Maria Lanciotti