La notizia era nell’aria già da fine dicembre, ma all’inizio dell’anno ho avuto la conferma – da fonti pluri-incrociate e attendibilissime – che il Pd non mi inserirà nelle liste dei candidati al Parlamento per la prossima legislatura. Sarei stato una presenza abbastanza scomoda, certamente troppo montiano per la linea del partito e di un nuovo gruppo parlamentare più spostato a sinistra, ma credo di poter dire con sincerità che avrei comunque combattuto le mie battaglie (per i diritti umani, l’immigrazione, la trasparenza) con lo stesso spirito di sempre. Non credo abbia molto senso recriminare a oltranza, perché sono cose che nella vita succedono: è successo pure a quel fenomeno di Andrea Pirlo, che si è trovato senza contratto perché non rientrava più nei piani del Milan, figuriamoci a un mezzo scarparo come Andrea Sarubbi. Ma con l’onestà di sempre vorrei spiegare perché è successo.
Sul perché io non mi sia candidato alle primarie ho già scritto più volte: qualcuno me lo ha contestato, moltissimi lo hanno capito, io credo – con quelle regole – di aver fatto la scelta giusta. Avrei partecipato se, accanto al voto locale, ce ne fosse stato uno anche per i candidati “nazionali”, sui temi, magari online o con un’altra scheda, anziché delegare la loro scelta al famoso listino delle competenze. Che va benissimo per alcuni nomi-annuncio provenienti dalla società civile, come ero stato io nel 2008, e che Bersani sta scegliendo con cura: una come Rosaria Capacchione, per dire, alle primarie sarebbe stata bocciata ancora (come lo fu del resto alle ultime Europee nella circoscrizione Sud), ma è giusto che la sua voce simbolo della lotta alla camorra trovi spazio in Parlamento; uno come Pietro Grasso avrebbe preso un quarto dei voti di Francantonio Genovese, il deputato Pd più votato alle primarie in tutto il territorio nazionale, del quale pure fatico a ricordare interventi in Aula di un certo rilievo. Il problema sono gli altri, ossia i parlamentari uscenti che – nei loro 5, 10, 12, a volte 17 o 20 anni di lavoro – si sono distinti per competenze specifiche in un certo argomento: la loro scelta sta avvenendo per appartenenze, ossia per correnti, con quote fisse assegnate ai singoli leader. Il discorso della ditta, tanto caro a Bersani, stavolta vale poco: se mai, l’immagine è quella di una holding con varie società, ognuna con un proprio bilancio. A Letta toccano 5 deputati nel listino? Bene. A Fioroni ne toccano altri 5? Benissimo. A Renzi ne toccano 17? Perfetto. Ognuno decida nel suo, chi resta fuori è fuori, le competenze c’entrano molto meno delle appartenenze. Nel mio caso, ad esempio, è andata così: la massima responsabile del Pd per l’immigrazione, donna retta e generosa che risponde al nome di Livia Turco, ha insistito molto sulla mia candidatura, perché riteneva appunto che le mie competenze sull’argomento potessero essere preziose; la risposta ricevuta da più parti è stata che, se anche fossi stato un fenomeno, in ogni caso di me avrebbe dovuto farsi carico il mio capocorrente. E siccome alle primarie ho sostenuto Renzi, da uomo libero e senza nulla a pretendere, scopro che il mio destino dipende da come si sveglia alla mattina il sindaco di Firenze: i “suoi” 17 li sceglie lui, la holding non ci mette bocca. Così, quando l’artefice unico e sommo del mio destino decide che non ricandiderà parlamentari uscenti, il Pd ne prende atto e Sarubbi è fuori. Me la devo prendere con Matteo, sul quale avrei così tanto da dire che poi dovrei andarmi a confessare seduta stante? Me la devo prendere con un partito che ragiona in base a criteri che farebbero fallire qualsiasi azienda? Me la devo prendere con me stesso, perché ho passato cinque anni a occuparmi dei temi senza mai pre-occuparmi del mio destino personale? Siamo sinceri: un po’ tutte e tre le cose. Shit happens, la mia storia di parlamentare Pd (molto sui generis, lo ammetto, stravagante, rompiscatole e dissidente) pare finita qui. Dicono che noi ci stiamo buttando via, ma siam bravi a raccoglierci.
Andrea Sarubbi
(dal suo blog, 5 gennaio 2013)