Un simbolo, come è noto, si ha quando a un oggetto concreto sono associati dei significati astratti. Già da questa definizione da vocabolario, si può intuire perché il cinema faccia volentieri uso di simboli.
Le immagini che compongono un film non possono che mostrare oggetti concreti. Ma se il film ha l’ambizione di affrontare discorsi generali o universali, deve trovare un ponte tra le cose concrete e i concetti astratti. E il simbolo è uno di questi ponti possibili.
La bicicletta verde è il film di una regista araba. Si chiama Haifaa Al Mansour, viene presentata dalla stampa come la prima regista donna dell’Arabia Saudita. Ed è un film che non soltanto ruota intorno a un simbolo – che è la bicicletta del titolo. Ma trattandosi di un film per certi versi “primigenio”, in cui si sente l’entusiasmo di raccontare la società araba attraverso il cinema come se fosse la prima volta – racconta allo stesso tempo la nascita di un simbolo: cioè come si forma nella mente di un personaggio quell’associazione di un’idea a una cosa, che è il simbolo stesso.
L’episodio avviene sulle strade di Riyad. All’uscita della scuola, un bambino strappa dalle mani di una bambina l’involto che contiene la sua merenda. Questa bambina non soltanto è molto sveglia, ma, contrariamente a come la vorrebbe la tradizione, non è remissiva. Così insegue il bambino e si riprende la sua merenda. Ma l’episodio non si conclude così. Mentre, mangiando il suo panino, cammina verso casa, rispunta il bambino. Questa volta non è a piedi, è in bicicletta. E al modo di uno scippatore, le strappa di nuovo la merenda dalle mani: e la bambina non può raggiungerlo. Non è un caso che sia a piedi: l’uso della bicicletta infatti nel suo paese è interdetto alle ragazze.
Ecco allora che la bicicletta ai suoi occhi diventa il simbolo della disuguaglianza di diritti tra uomini e donne.
In effetti, nel corso del film, la bicicletta si precisa come un simbolo più complesso: arriva a significare una cultura laica contrapposta alla cultura islamica tradizionalista. Ma per comprendere questo passaggio, bisognerebbe conoscere la storia del film. Dirò soltanto che essere ruota intorno ai tentativi della bambina di raggranellare i soldi per comprarsi anche lei una bicicletta: che la famiglia, almeno in un primo tempo, non vuole regalarle.
Per chi conosce almeno un po’ la storia del cinema, quando si parla di una bicicletta come perno di un film, non può non venire in mente quel capolavoro del cinema italiano che è stato Ladri di biciclette di Vittorio De Sica, un film del 1945: raccontava la storia di un attacchino romano che cercava di ritrovare la bicicletta che gli era stata rubata. Ma questo semplice movente lo trascinava in tanti ambienti romani ed era l’occasione per tracciare un affresco dell’Italia dell’epoca.
Non so se la regista della “Bicicletta verde” abbia tenuto presente questo alto modello. In ogni caso, anche il suo film, che è pieno come un uovo di cose urgenti da dire, delinea un quadro particolareggiato dell’ambiente in cui vive la bambina, in particolare la famiglia e la scuola; e attraverso questi ambienti, della società intorno a lei, soffermandosi in particolare sulle discriminazioni ai danni delle donne che a quanto pare ancora vigono in Arabia Saudita, e che a noi non possono non sembrare assurde e grottesche.
Si va dal divieto per le ragazze di toccare a mani nude il Corano quando hanno le mestruazioni; al divieto di servire i pasti in sala da pranzo quando il marito conduce con sé altri ospiti uomini; all’obbligo del velo; all’ossessione per la verginità; al senso onnipresente del demonio; la libertà per gli uomini di prendere una seconda moglie, con le sofferenze che questo può comportare per la prima, e così via.
Ma questi elementi, in fondo risaputi, non restano nel film aride informazioni. Il film riesce a renderle vivi, cioè a mostrare come in concreto si innestino nella vita quotidiana, e formino comportamenti e anche fisionomie. Per esempio, restano nella memoria i volti delle maestre della scuola della bambina: volti che esprimono il biasimo nei confronti delle bambine riottose alle regole, insieme a un’antica rassegnazione a sottomettersi a quelle regole stesse o a ricorrere a dei sotterfugi per aggirarle.
Nelle bambine, si vede come l’uso del velo o una compunta ritrosia davanti agli uomini, siano le forme che assume una ingenua, nascente civetteria.
Il film ruota intorno a un simbolo ed è simbolico anche il finale: la bambina che ottiene insperatamente la sua bicicletta, pedala verso una grande strada dove sfrecciano le macchine.
La sua è stata una prima vittoria, ma una vittoria insidiata da tanti pericoli, perché la sua guerra – che, si sottintende, è la guerra delle donne arabe – è ancora tutta da combattere.
Gianfranco Cercone
(da Notizie Radicali, 27 dicembre 2012)