In occasione della ricorrenza, la “Dante Alighieri” pubblica un’Antologia e promuove un Convegno per far conoscere la vita e l’attività letteraria di Caproni anche ai nuovi italiani.
Per presentare l’Antologia Giorgio Caproni e approfondire alcuni aspetti dell’opera di Caproni, il 29 novembre alle 16,30, la “Dante Alighieri” di Roma ha ospitato nella sua storica sede di Palazzo Firenze a Roma, nella splendida sala del Primaticcio, un Convegno Nazionale di Studi, coordinato dallo stesso professor De Nicola, dal titolo, desunto da una sua poesia, Caproni, vivo tra i vivi. Dopo un saluto del Presidente della “Dante”, l’Ambasciatore Bruno Bottai, i lavori sono stati aperti da un breve intervento del decano tra i critici letterari italiani, Leone Piccioni, per lasciar poi spazio alle relazioni dei tre noti docenti universitari Alfonso Belardinelli, Ermanno Paccagnini e Marcello Carlino, dedicate rispettivamente all’attualità della poesia di Caproni, alle sue prose e al tema del viaggio che è uno dei più frequenti nella sua opera. Quindi Maria Teresa Caprile ha spegato come alcune poesie di Caproni possano essere utilizzate per insegnare l’italiano agli stranieri, il giovane studioso Jacopo Ricciardi ha commentato la poesia Il gibbone, la grafologa Maria Teresa Morasso ha interpretato la personalità dello scrittore attraverso un esame della sua scrittura e il poeta Giuseppe D’Alessandro ha recato una testimonianza sull’amico Giorgio Caproni. Il programma è stato completato da letture di sue poesie eseguite dall’attrice Barbara Valmorin.
» La Società Dante Alighieri
Il Gibbone di Giorgio Caproni
di Jacopo Ricciardi
Il narrare è confortante, poiché mette in scena un viaggio e una serie di incontri – l’epica ne è la suprema realizzazione – verificati da un mondo culturale circostante che dona loro plausibilità. Ma nell’epoca moderna e contemporanea, in una realtà sociale frantumata, è proprio la narrazione a soffrire, a non poter proporre partenze e destinazioni, incontri di cose certe in luoghi verificabili. Ecco l’esattezza di Caproni, che viaggia in non-luoghi, e incontra ciò che non può incontrare e non ha mai incontrato. I viaggi interrotti di Caproni e i suoi incontri inesistenti, intercettano uno spazio e una realtà affrontati non nel mondo esterno ma tutti attraverso l’isolamento e la separazione della persona e il suo filtro. Una narrazione indecifrabile, scarnificata è quella che Caproni ci mostra. Egli ci fa scendere nella separatezza dell’individuo fino a viverlo, fino a percepirlo vivo in noi. Dante è Dante davanti al lettore, mentre Caproni è se stesso e anche un po’ noi stessi che leggiamo.
Centrare l’attenzione su sé è un’azione che fortifica l’ego, e però in Caproni quell’ego viene mostrato nella sua vera entità fragile, incompleta, caotica, evanescente, irreversibile. Si può dire che c’è una distruzione dell’ego in Caproni, e contemporaneamente di quello personale e quello culturale. Una distruzione che avviene sempre allo stadio di tentativo, di prova, ma che riesce a sfaldare pian piano quel corpo, anche se non ancora a sovvertirlo. Forse il dover ricreare un ego, e un ritorno al mondo esterno, con nuova e sincera semplicità, spetta alla poesia del XXI secolo; e certamente si può considerare Caproni come il luogo purificante di questa attesa, di questa lotta per la cultura e per la vita. È una purificazione che non trova ma nega, e negando lascia una libertà rivoluzionaria oltre di essa.
Nel Gibbone tutte le vie narrative sono murate: «No, non è questo il mio paese» «in chiesa dove non c’è Dio» «Nell’ossa ho un’altra città […] l’ho perduta». «Città cui nemmeno la morte mi ricondurrà».
Le parole del Gibbone sono dedicate a Rina, la moglie del poeta, ed è lei, la sua presenza discreta – in epigrafe –, a dominare quel coraggio necessario che serve a Caproni per ammettere, come davanti a lei in una confessione, chi sia veramente, anche a costo di creare un baratro invalicabile tra i due, uniti da un dolce inseparabile amore.
Qual è il tono in cui vengono dette queste parole sommesse, amorevoli e inesorabili? Si ne mescolano due: il primo ha un andamento lieve, sottovoce, da confessionale – c’è una docilità e sinuosità, un tempo fatto di tempi diluiti che si allargano e diminuiscono e che si alternano, che simulano l’andamento ondivago, variato di una voce parlante che sente il proprio divenire; e qui ci si potrebbe perdere e attardarsi, scivolare in un facile sentimentalismo, invece ecco che gli argomenti vengono espressi con una sobrietà definitiva, essenziale, quasi dura, sottilmente assertoria, che non concede divagazioni, né al lettore né allo scrittore: è creata una muraglia che stringe il silenzio di una condizione. Il secondo tono è quindi pregno di un’evidenza tutta esterna, data al poeta dalla condizione del mondo circostante – è un tono freddo, che dall’esterno chiude la voce, e dona al suo intimo quell’estrema sincerità che la cristallizza nel tempo, in un punto della biografia, in modo atemporale.
Caproni scrive questa poesia nel 1964, a cinquantadue anni. Ripensando a Dante, qui accade qualcosa in più rispetto al «mezzo della nostra vita», poiché qui viene toccata una maturità non più anagrafica ma biografica, non la maturità che viene dopo la giovinezza, non una narrazione immaginaria, ma una maturità del tempo trascorso, una narrazione scontratasi con la realtà. E questa narrazione di Caproni è già in tutti.
La prigionia che egli vive e il suo straniamento è di tutti. È ambigua la prigionia dell’individuo: separato dall’esterno – quasi tradito, orfano – ma libero internamente nel desiderio collettivo. Il mondo interno sostituzione dell’altro, ma irrisolto, incompleto, irriducibilmente. Il desiderio insoddisfatto di comunione e coesione con gli altri viventi è tanto vivo quanto muto, e salvo soltanto nel patto impalpabile di marito e moglie. La poesia è allora quella promessa che non in altro modo può sopravvivere, e, ciò che essa toglie con la sua cruda obbiettività, dà nell’esito misterioso di una reazione umana che cerca la vita e i vivi nonostante tutto. La poesia è importante tanto quanto la risposta che in noi da essa si genera. Caproni abita alla frontiera della narrazione nel momento in cui essa perde la sua immaginazione, e giunge fino a sfiorare una narrazione reale – ossia della realtà – senza entrarvi.
È lì, regredendo fino al gibbone, nella stupidità inutile della prigione di uno zoo, che Caproni ci fa fare un balzo in noi stessi, dal generico individuo al potenziale biografico in reazione di una persona. Nell’ultimo verso ci dice che l’ignoto della morte ci priva di tutta la vita, ma che nella vita al di là della morte esiste un potenziale di sopravvivenza che la porta – e noi con lei – a vivere ancora e ancora. Società e mondo naturale convivono in una strana evoluzione della materia che Caproni avverte e ci dona.