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Andrea Nascimbeni. “Vivere nello sguardo” 
Echi di Romano Guardini nel pensiero e nell’opera di Don Franco Patruno
06 Dicembre 2012
 

Accade – parlando di Don Franco Patruno con atteggiamento veritiero, lungi dalla commemorazione lapidaria (distante anni luce dal suo modo di sentire), dalla falsa pietas, tanto aborrita e con armi sottili implacabilmente smascherata – che non si possa procedere senza essersi prima “misurati” sì, con la sua ricchezza intellettuale, con la sua sovrabbondanza culturale, con la sua vitalità spirituale, ma non solo: l’affetto, la simpatia che suscitava, l’amicizia disinteressata, che offriva generosamente senza, in cambio, nulla pretendere, il dono di sé, in altre parole, orientano l’asse del ricordo verso un tutto in cui la bellezza della persona ricomprende ogni aspetto. La critica d’arte – ma sarebbe più giusto parlare di “lettura critica, storica, spirituale, dell’arte” – una sorta di militanza scelta e praticata sul campo sino all’ultimo respiro, rende ragione della scelta di Patruno per una disciplina solenne e complessa, volta a far comprendere come l’eccesso del godimento artistico sia tanto vicino al facile estetismo quanto ci allontani dal traguardo nella strada della conoscenza. Ma, detto ciò, si rimane ugualmente disorientati, seppure mirabilmente affascinati dai suoi percorsi, data la colluvie di sollecitazioni, di stimoli: un caleidoscopio di forme e di colori, di idee e di progetti. Don Franco, mirabile funambolo della parola e del concetto, rapsodo delle immagini, non cessa di suscitare stupore e costringe oggidì il lettore – come a suo tempo l’ascoltatore – ad una continua ridefinizione del campo di indagine. Abbiamo scelto, come filo conduttore in questo modesto ricordo un pensatore da lui tanto amato, Romano Guardini (1885-1968), che non ha certamente bisogno di presentazione tanto è noto. Costante – anche se non esclusiva, perché i suoi scritti spaziano dall’ambito teorico-filosofico a quello teologico, da quello scritturistico a quello liturgico, letterario, psicologico – è stata la sua attenzione per l’opera d’arte nella sua valenza storico-metafisica. Oltre agli studi su Dante, Dostoewskij, Hölderlin, Rilke, Guardini è autore di un breve saggio sull’opera d’arte in cui delinea i fondamenti della sua estetica: il costituirsi della forma artistica, le immagini, il senso, il nesso tra etica e bellezza, il rapporto con la realtà.

 

Quanto, di Romano Guardini, c’è in Don Franco Patruno?

Domanda non da poco, che qualcuno si è posto, ben prima della sua scomparsa, in tempi non sospetti, lungi dal volerne validare il pensiero, ricollegandolo ad uno dei maestri della filosofia del 900.

La risposta non tarda a venire: molto di più di quanto si pensi. Vuoi per la distanza dal formalismo della scolastica neotomista, quanto per il riferimento fondamentale ad Agostino, autore incredibilmente moderno, capace di captare la sensibilità contemporanea, che accomuna entrambi. Si sta attuando – fortunatamente ma, al tempo stesso, faticosamente, ad opera di amici ed estimatori (senz’altro più ad extra che ad intra) – un lavoro prezioso e difficile, bello e arduo, di raccolta, di edizione critica degli scritti di Don Franco: il “velo è stato squarciato” con la silloge Equivalenze. O dello scrivere l’arte, edita a quattro anni dalla scomparsa dell’autore.

Ma ci si accorgerà ben presto che gli echi guardiniani sostanziano in modo non casuale il pensiero e l’opera artistica di Don Franco, ne permeano profondamente l’impianto, sino a costituire quasi una filigrana: e l’occhio attento non può non scorgervi l’impronta del filosofo di Isola Vicentina. Patruno – si sa – era uomo dalle mille letture, dalla cultura insondabile, dagli sconfinati orizzonti, al quale non si poteva certo applicare il proverbio latino «Timeo hominem unius libri»: nel caso di Romano Guardini, però, ci si deve arrestare di fronte ad una sorta di fil rouge che attraversa il suo pensiero, la sua opera, in altre parole, la sua vita.

In una serie di lezioni magistrali tenute tra gli anni ’80 e ’90, Don Franco Patruno delineava la figura di Romano Guardini a partire dal celeberrimo Mondo e persona, integrandolo con copiose citazioni tratte da Etica, che approfondiva i temi della prima opera e ne sviluppava i contenuti.

Affascinante era la “lettura” che Patruno faceva dell’incontro tra un Io e un Tu: incontro nella parola e grazie alla parola, anche se non necessariamente, in quanto «pure il silenzio può essere un che di assolutamente pregnante sul piano dialogico. Solo alimentandosi di silenzio, infatti» sosteneva Guardini «la parola non decade a chiacchiera e, solo sfociando nella parola, il silenzio non diventa mutismo. Grazie a quella parola appellante e a quella di risposta, sorge fra l’Io e il Tu la comunione nel sentire, si crea una comunanza di rapporti, si determina un “vitale spazio di senso” tra chi parla e chi ascolta: anzi, tale “spazio di senso” sorge solo in virtù di questo reciproco parlare e ascoltare. Nel rapporto che si può instaurare tra due persone, il tacere insieme è una tra le cose più belle. Quindi non soltanto il fatto che i due non si disturbano l’un l’altro con la parola, ma proprio che i due entrino insieme nel silenzio. Il fatto che possano farlo, dice molto sulla loro appartenenza costitutiva...». (Etica, ed. it. A cura di M. Nicoletti e S. Zucal, Morcelliana, Brescia, 2001, p. 244).

Di questa dialettica tra parola e silenzio, troviamo echi nell’ultima recensione di Don Franco sull’Osservatore Romano del 29/04/2006 e dedicata al film di Philip Gröning Die grosse Stille (Il Grande silenzio): «Il silenzio non è solo pausa tra due parole. Se così fosse, sarebbe solo la sospensione del suono di lemmi che può diventare rumore. È inevitabilmente questo, in quanto diagramma degli effetti acustici della discorsività dialogica, ma se scelto come interiorizzazione di quanto si sta dicendo, acquista il significato della parola quieta, esistenziale, personale». (F. Patruno, Equivalenze. O dello scrivere l’arte, Edisai, Ferrara, 2011, p. 211). Ora, se con la parola autentica, in quanto dialogica, la persona si rivela all’altra, in altre parole, incontra l’altra persona, con tale parlare dialogico diventerà imago Trinitatis, ombra imperfetta ma certa del dialogo intratrinitario: «Lo stesso carattere di persona di Dio, si compie nella forma di un eterno dialogo tra il Padre e il Figlio, nell’energia creatrice di fecondità e unità dello Spirito». (Etica, cit., p. 243). Non a caso Hans Urs von Balthasar ha colto come in Romano Guardini – e solo in lui – «venga alla luce una traccia della reale immagine trinitaria della persona». (Hans Urs von Balthasar, Homo creatus est, Brescia, 1991, p. 108). Sembra di stare davanti all’Icona della Trinità di Andrei Rublev che Don Franco ha “letto” numerose volte in altrettante omelie, pronunciate sommessamente nella Cappella di Casa Cini – la non misura dell’incommensurabile – e nelle quali riecheggiavano le pagine di Evdokimov: «Le tre persone sono in conversazione e il soggetto della conversazione potrebbe essere il passo di Giovanni (3, 16) “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio Unigenito”. Ora la Parola di Dio è sempre atto: essa prende la figura sacrificale della coppa. [Quest’ultima] irradia nel candore splendente della Parola che rifrange tutti i colori della Verità: è l’irradiamento del cuore divino, il dono reciproco delle Persone divine». (P. N. Evdokimov, Teologia della bellezza. L’arte dell’icona, Cinisello Balsamo, 1990, pp. 234, 243).

«Connesso al fenomeno della persona» è ancora Guardini che parla «se ne fa chiaro un altro che è della massima importanza per la comprensione dell’esistenza umana, e cioè l’incontro» (Etica, cit., p. 245). «L’incontro» scrive in Der Mensch «non è una necessità derivabile da altro ma un factum. [Questo] però crea immediatamente un senso di legame, in cui io permango e che coincide con il senso del destino. L’incontro poteva non accadere ma, dopo che è accaduto, è irrevocabile». Ancora: «Se l’incontro è completo ecco che si verifica l’incontro tra due volti, uno sguardo trapassa nell’altro» (Etica, cit., p. 250). Mai ottenuto per diritto – o peggio – estorto con la forza, «ogni genuino incontro desta anche una sensazione di qualcosa di immeritato, un sentimento di riconoscenza o almeno di stupore nella considerazione del modo in cui esso si sia combinato tanto singolarmente o tanto bene» (Ivi, p. 252). Nell’evento dell’incontro – dunque – tutta l’esistenza ne viene coinvolta. Ma non solo: anche il mistero, che chiede stupore, scossa interiore, e un distacco, un abbandono di sé. Una sorta di ék-stasis, una fuoruscita da sé, uno star fuori da sé [...] Le relazioni instaurate e gli incontri potranno essere di volta in volta diversi, ma essi avvengono sempre grazie a questa capacità della persona di trascendere se stessa, divenendo solo grazie a ciò pienamente persona. (cfr. Etica, cit., p. 256).

Quell’incontro tra due volti, cui fa accenno Romano Guardini, costituisce uno dei nodi fondamentali del pensiero e dell’opera di Don Patruno: una interlocuzione che passa obbligatoriamente attraverso il riconoscimento del nostro volto per arrivare al Mistero. Partire da noi stessi, esperire le potenzialità della nostra natura, in questa ricerca del Volto di Dio che non ha sembianze, corpo, forma: cerchiamo il volto di un Dio nascosto, di cui noi, pur essendo fatti a Sua immagine, ignoriamo i contorni: «Gli occhi miei ti hanno cercato: il tuo volto cercherò io, o Signore!» (Ps. 26). Ma, paradossalmente, questo volto che non può avere tratti umani, mi giunge nella trasfigurazione, nel mio lasciarmi andare all’indefinibile Volto che mi trascende. «...Quel volto che conta davanti a Dio, l’uomo non lo possiede ancora da solo ma esso gli viene da Lui. Solo quando io parlo a Lui, io divento una persona, proprio quella che Egli ha pensato quando mi creò e mi redense. Solo nella preghiera si forma, si spiega e si rinsalda nei suoi lineamenti quel volto» (Vorschule des Bretens, Mathias Gruneswald Verlag, Mainz, 1986, trad it. di Maria Luisa Rossi e Maria Maraschini, Introduzione alla preghiera, Morcelliana, Brescia, 1994, p. 33). Ecco dunque – a livello figurativo, pittorico – la ricerca iconografica, del e sul “Volto” – la maiuscola è d’obbligo – che assume i toni ricorrenti, insistenti, di itinerari, tragitti, “percorsi” appunto: essa, seppur iniziata negli anni ’70 del ’900 in una mostra a Cento con Pietro Lenzini e Maria Paola Forlani, riappare in tutta la sua cogenza, ripetutamente, sino a giungere a celebrazione nell’omonima Mostra al Palazzo Massari dal 2 giugno al 25 luglio 2006. Uno studio – quello del volto – che si nutre della lettura di Totalità e Infinito di Emmanuel Levinas laddove «noi chiamiamo volto il modo in cui si presenta l’Altro. Questo modo non consiste nel mostrarsi come un insieme di qualità che formano un’immagine. Il volto d’altri distrugge ad ogni istante e oltrepassa l’immagine plastica che mi lascia».

Anche a livello di scritti, riaffiora l’interesse, mai sopito o dismesso, ma sempre vivo e pulsante per questo tema, in un articolo sull’Osservatore Romano del 23 ottobre 1999, “Quel volto che si china su di noi”, dove la «falsa pietas smascherata da Gesù apre all’inedito di un altro recepito come volto unico, irripetibile e non confondibile. In quest’atmosfera primariamente teologica ed antropologica, la lezione di Romano Guardini, in felice incontro e scambio con la filosofia del dialogo di Martin Buber, ci avverte del rischio di tale prossimità: accettare il volto come rivelazione della persona espone ad una sorta di benefico vuoto, quando, cioè, la nostra libertà è in gioco con quella dell’altro» (Equivalenze, cit., p. 115). Recensendo Nazarin di Buñuel, Patruno – nonostante il grande regista spagnolo si definisca “ateo per grazia di Dio” – gli riconosce l’intuizione di svelare «un Volto che ancora non si può percepire se non negli occhi del Figlio e dei fratelli nei quali Egli “si nasconde”. Lo stupore viene dall’alto: è rivelazione non conquistata da umani sforzi e pur consapevoli ricerche. Ma anche il Volto del Figlio, presente a i primi discepoli, non è più storicamente ripresentabile; così pure i gesti della sua tenerezza, non sono più raggiungibili e “toccabili”» (Equivalenze, cit., p. 117-118). Eppure i testimoni ci assicurano che li hanno percepiti, “toccati”. Siamo al centro di una delle problematiche scritturistiche, teologiche, dottrinali, i cui risvolti nei differenti linguaggi artistici, le cui complessità stilistiche, non fanno che rimandare alla vexata quaestio: come può un pittore interpretare e rappresentare un mistero che sfugge ai dati di una logica terrena? Nel caso della Resurrezione, come dar forma e distinguere la figura di Gesù dopo l’itinerario che conduce al Golgota? Solo le esemplificazioni – dice Patruno – «ci aiuteranno in un campo quanto mai vasto, in cui lo scopo non è quello di rinvenire uniformità, semmai sfumature, differenze, come esito di intuizioni teologiche diverse. [La Cena di Emmaus di Caravaggio “dialoga” con Cristo ad Emmaus di Rembrandt] Quella di Caravaggio è un assoluto dominio dell’ombra. Già nei Quesiti caravaggeschi (1928-29), Roberto Longhi annotava come “[...] il dirompersi delle tenebre rileva l’accaduto e nient’altro che l’accaduto”. Il termine longhiano, ha, ben oltre le sue intenzioni specificamente religiose, rilevanza e coincidenza con la teologia di matrice tedesca: ciò che “accade” non è una parvenza, ma evento temporalmente e spazialmente definibile, anche se, con linguaggio vicino a Guardini, inserito in un mondo di relazioni concretamente valutabile come accadimento “umano”» (Equivalenze, cit., p. 105).

Se la luce è presente anche nel dipinto del grande Rembrandt, l’atmosfera è completamente diversa. Da finissimo conoscitore della tecnica artistica, don Franco “smaschera” l’originale destinazione per la stampa, per l’incisione e non per il dipinto: l’effetto è una suggestione che oggi si direbbe “cinematografica” per il gioco di controluce, che non poteva non suggerire il rimando a Carl Theodor Dreyer in Ordet. Quella luce che s’accende come “roveto notturno”, con intelligente copertura del corpo di Cristo – è la lettura di Don Franco – produce la sensazione nettissima di un percorso dello sguardo che dalla figura femminile a sinistra ci conduce “ad inquadratura fissa” su Gesù. Lontana dal realismo di Caravaggio, dalla pietas che promana dalla spiritualità del Seicento italiano, è la mistica fiamminga che ispira e infiamma la tavolozza di Rembrandt: se nel pittore italiano, l’evento “dall’alto” è tutto giocato nella quotidianità dei gesti e nella forte conoscenza messianica del volto di Gesù – il ricordo della Parola udita per strada e lo spezzare il pane aprono il cuore alla percezione visiva del loro Signore – per il pittore olandese lo stupore non è causato dalla memoria sacramentale dell’azione ma dal miracolo di una luce divina non preventivata. «Due modi diversi di interiorizzare l’evento evangelico entrambi risolti nella luce. (...) Quasi un realistico sogno notturno quello di Rembrandt, una delle più oniriche visioni che popolano la quotidiana lettura della Bibbia tanto cara alla spiritualità del protestantesimo nordico» (Equivalenze, cit., p. 108).

Ma, quella che può chiamarsi “l’estetica del Volto”, si declina anche nel commento sull’Osservatore nello “speciale Pasqua 2003”, che Don Franco dedica al tema della Passione di Cristo, “trattata” da Georges Rouault secondo gli stilemi dell’immagine del 1946. Siamo lontani dalla poetica dell’icona, perché nel velo della Veronica, lo splendore «è interno all’immagine, quasi fosse possibile lo sguardo d’amore di chi, crocifisso, già sperimenta il Corpo Risorto. Gli occhi dell’artista si fanno quelli di Giovanni che contempla la contemporaneità dell’ultimo grido e il totale abbandono già al Padre... né virtuale né illusorio. L’epifania del Volto si rivolge, viene incontro, è esposta dopo l’apparente sconfitta. [...] Eppure la cronaca permane nelle terre racchiuse dallo sguardo... Quel Volto è la nostra storia. [...] è di vero uomo, non ‘nonostante’ fosse Dio, ma perché lo era nel mistero nascosto nei secoli. Ed ora rivelato» (Equivalenze, cit., pp. 146 – 147).

 

La splendida mostra fiorentina del 2004 dedicata a Botticelli e Filippino a Palazzo Strozzi è per Don Franco motivo di considerazioni importanti sulla teologia dell’arte e occasione di rivisitazione di luoghi comuni. «Ancora oggi persistono alcune precomprensioni che, in nome di un antropocentrismo che svuoterebbe il Cristianesimo della dimensione trascendente, fanno risalire a quel secolo [1400, ndr] la nascita di un umanesimo che progressivamente perderebbe il senso di Dio». Mentre studi storici più recenti, come quello Dominique Rigaux nel suo ampio La fioritura delle arti nell’Occidente cristiano (settimo volume della Storia del Cristianesimo, Roma, ed. Borla-Città Nuova, 2000), ne ribaltano la portata religiosa e permettono a Patruno queste considerazioni: «Gli storici dell’arte, soprattutto dalla scuola di Aby Warburg sino ad Argan, Brandi, Calvesi e alle ricerche in ambito anglosassone, hanno colto il limite, per non dire la prevenzione percettiva, di uno studio a forte componente dialettica, quasi a salvare il valore delle opere nonostante la loro componente religiosa. La teologia, d’altro canto, ha sempre considerato “a lato” l’opera d’arte e, se si fa esclusione di Romano Guardini, Von Balthasar ed altre personalità isolate, non ha mai trovato il proprio punto di partenza dalle opere stesse (teologia dell’arte) ma da un valore sicuramente riconosciuto solo in linea di principio» (Equivalenze, cit., pp. 179-180). Don Franco si riferiva sicuramente al testo di Guardini Über das wesen des Kunstwerks (Tubinga, 1948; tr. it. L’opera d’arte, Milano, 1964) dove il filosofo di Isola Vicentina parla di un’estetica che proprio nel riconoscimento dell’autonomia ontologica dell’opera d’arte «ha sì un senso ma non uno scopo [...] Non mira a nulla, ma significa; non vuole nulla, ma è – ne disvela il coté teologico: quel carattere religioso insito nella struttura dell’opera d’arte in quanto tale; nel suo rinvio al futuro, a quel futuro puro e semplice che non può più essere fondato a partire dal mondo. Ogni autentica opera d’arte è essenzialmente escatologica e proietta il mondo al di là, verso qualcosa che verrà» (L’opera d’arte, cit., pp. 353-354).

Un istante di ineffabile bellezza, una contemplazione estatica come quella che Guardini provò nel Duomo di Monreale a Pasqua del 1929 e che raccontò fedelmente nel suo Reise nach Sizilien: «Oro su tutte le pareti. Figure sopra figure, in tutte le volte e in tutte le arcate. Fuoriuscivano dallo sfondo aureo come da un cosmo. Dall’oro irrompevano ovunque colori che hanno in sé qualcosa di radioso. Tuttavia la luce era attutita – la giornata era piovosa –. L’oro dormiva, e tutti i colori dormivano. Si vedeva che c’erano e attendevano. E quali sarebbero se rifulgesse il loro splendore! Solo qui o là un bordo luccicava, e un’aura chiaroscura si spalmava sul mantello blu della figura del Cristo nell’abside. Quando portarono gli olii sacri dalla sagrestia, mentre la processione, accompagnata dall’insistente melodia dell’antico inno [“O Redemptor sume carmen”, ndr], si snodava attraverso quella folla di figure del duomo, questo si rianimò. Le sue forme si mossero. Entrando in relazione con le persone che avanzavano con solennità, nello sfiorarsi delle vesti e dei colori alle pareti e nelle arcate, gli spazi si misero in movimento. Gli spazi vennero incontro alle orecchie tese in ascolto e agli occhi in contemplazione. La folla stava seduta e guardava. Le donne portavano il velo. Nei loro vestiti e nei loro panni i colori aspettavano il sole per potere risplendere. I volti marcati degli uomini erano belli. Quasi nessuno leggeva. Tutti vivevano nello sguardo, tutti erano protesi a contemplare».

 

Andrea Nascimbeni

(da Arte senza confini, 3 settembre 2012)


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