Cimentarsi nel racconto della Shoah non è mai facile: si muove la cenere dei ricordi e di nuovo divampa quel fuoco distruttivo. E ciò può far male, molto male. Son sedimenti di angoscia, cortine di stordente nebbia, fagocitanti spesse tenebre. Il suicidio di Primo Levi è lì a ricordarcelo, dell'immenso Primo Levi. Se poi devi spiegare ai bambini la Shoah, qualcosa di comparabile all'orrore assoluto, se vuoi parlare all'infanzia innocente di quei delitti che sconvolsero la coscienza universale, l'impresa appare ancora più ardua e ostica.
Susanne Raweh è una fantastica signora di 74 anni che vive fra Italia e Israele. Ex docente universitaria, è stata anche psicoterapeuta della coppia e della famiglia ad Amcha, un centro israeliano per il supporto psico-sociale dei superstiti della Shoah e delle loro famiglie. Un duro compito, ma necessario. Susanne, laica e libera pensatrice, cacciatrice di sogni e di limerick, stupefacente poliglotta, un giorno ha pensato che doveva fare qualcosa di più: spiegare la Shoah ai bambini. È nata così La storia della nonna bambina (titolo originale Hasipur shel Savta Ialda), breve ma prezioso volume (con illustrazioni di Dafna Schonwald, edito da
Gilgamesh Edizioni ), nei modi e nelle forme di una poesia in prosa, una testimonianza in versi della tragedia del genocidio dei genocidi, così industrialmente e scientificamente pianificato, organizzato e contabilizzato, personificazione e quintessenza del Male.
È una vicenda individuale e collettiva, dolorosa, tanto dolorosa, ma, come detto, non ignorabile. Il 27 gennaio, il Giorno della Memoria, si avvicina e Susanne, come sempre, andrà a parlare a giovani e giovanissimi perché conoscano, perché l'orrore non si ripeta mai più. «Un campo di concentramento/ era un magazzino, un fienile,/ una stalla o un porcile./ Si dormiva su duri e freddi letti,/ oppure sulla paglia,/ umida e marcia./ E non bastava/ il cibo,/ e non bastava l'acqua,/ e durante l'inverno,/ fra le crepe dei muri,/ un vento freddo spirava./ Gli adulti sgobbavano,/ dalla mattina/ a notte inoltrata,/ per costruire le strade./ E intorno al campo/ solo guardie/ e filo spinato».
«Fu lì che vidi un uomo e una donna fare l'amore. Non rimasi turbata anche se ero una bambina. Capivo che quello stringersi era ricerca di calore affettivo, ricerca, nonostante la terribile situazione in cui erano imprigionati, di amore», ricorda a distanza di tanti decenni con il sorriso negli occhi.
«La nonna bambina, però,/ non cessava di ballare,/ di recitare,/ di far ridere chi stava intorno a lei.../ E tutta quella gente,/ che sulle strade lavorava con fatica,/ tutta quella gente, stanca e affamata,/ si distraeva per qualche istante/ e dimenticava la paura...», perché una bambina è tale anche ai margini della devastazione, nel deserto della paurosa ansia. La storia ci tramanda episodi di intellettuali che tenevano lezioni improvvisate ma piene e vere. L'esercizio della mente e dello spirito contro la disfatta della civiltà, per continuare a credere nell'uomo.
Altre traversie e vicissitudini si susseguirono prima dell'agognata salvezza: separazione e tristezza, un lecca-lecca a forma di galletto, il treno (un convoglio di vita, questa volta, contro i binari della morte che conducevano ad Auschwitz), il ricongiungimento coi genitori, la riconquista della vita. Una vita serena. Un cielo terso, quello di Susanne, da cui, sarebbe impossibile il contrario, non è bandita la memoria. Anzi questa costituisce un dovere.
Dalla magnifica, luminosa e illuminante prefazione di Deborah D'Auria: «Negli anni del secondo dopoguerra, dalle macerie della barbarie nazista, si esaminava il tragico bilancio di un fallimento epocale, una crisi radicale che investiva il pensiero e anche la narrazione, al punto che Adorno arriva a domandarsi: “È ancora possibile fare poesia dopo Auschwitz?”. E proprio quando la fatica della memoria stava cercando di sconfiggere la tentazione dell'oblio, autorevoli studiosi si sono chiesti se dopo il dramma della Shoah fossero ancora possibili la poesia e il pensiero, la fede e la speranza […] Edmond Jabès dice che “si deve scrivere a partire da una ferita continuamente aperta”: è quello che fa la Raweh con questo suo libro, non restando però imbrigliata e sotto lo scacco matto del dolore, ma offrendo la sua esperienza attraverso un narrare autentico». Autentico e toccante.
Alberto Figliolia