Vengono spesso pubblicati libri eccellenti di poesia, frutto di ricerca letteraria e di dedizione ad una musa poco portata ai facili entusiasmi verso la versificazione mimetica, come ad esempio quello di Marco Furia, Impressi Stili; e sono questi libri, non sempre, non spesso, diciamo raramente recensiti con l’intelligenza critica di un Salari, ma poi questa traccia si affievolisce perché le collane di poesia sono poco diffuse, i lettori distratti e ricordare quando va oltre le normali classifiche accademiche anche in poesia è poco remunerativo sul piano dei contatti e scambi, a volte penosi, nella società letteraria, come nei premi estivi o tardo estivi ad esempio; e allora credo che qui Tellusfolio e la sua rubrica possano fare qualcosa di buono e di utile, riproporre il libro, il saggio critico, coinvolgere il poeta, in questo caso Marco Furia, dare visibilità anche al peritesto - e Tellusfolio lo fa con lettere o foto - e immergere nella Rete la parola poetica e la saggistica. E così quanto è libro di poesia degno di questo nome e recensione che apre sul laboratorio e la poetica del poeta avrà nuova stampa, elettronica stavolta, e luce non solo prodotta dal video del pc, e nuovi lettori. (Claudio Di Scalzo)
Genova, 8 settembre 2006
Caro Claudio,
ecco allegate le poesie di cui parla Tiziano (la prima, soprattutto) nella sua recensione al mio libro sulla rivista Bloc Notes.
Invidio molto vino e pappardelle con ragù... e la compagnia redazionale di Tellusfolio lì riunita.
Saluti mediterranei (ma ricordo che Gianni Brera diceva che Genova gode di un clima afro-alpino - soprattutto in certi giorni di neve...).
Ciao, a presto Marco
P.S. – I numeri (1, 2, 3) non sono nel testo, li ho indicati solo qui per comodità.
Tiziano Salari, nel suo saggio, si riferisce alla n. 1: ne ho aggiunto altre due, così, a scopo indicativo.
Marco
TIZIANO SALARI, LA RICERCA POETICA DI MARCO FURIA
Partiamo dal limine, dall’epigrafe di Dylan Thomas: Ciascuna immagine contiene in sé il germe della propria distruzione. Non è in contraddizione con lo stesso titolo dell’opera, Impressi stili, e cioè stili che lasciano un’impronta ben definita nella materia verbale, e quindi, nonostante questo, siano deperibili e possano essere cancellati. Dal punto di vista metrico si tratta di componimenti estremamente lineari: tredici endecasillabi, di cui dodici fluenti in un unico periodo e terminanti con i due punti di sospensione: l’ultimo verso staccato e concluso con il punto interrogativo. Riguardando trentadue pezzi tutti uguali nella struttura, il libro assume il profilo di una costruzione geometrica accuratamente studiata nella sua regolarità, quasi una collana di sonetti a cui, per non essere riconoscibili, siano state sottratte le rime e amputati del quattordicesimo verso. Siamo in presenza di uno dei pochi esempi di poesia astratta, nel senso per cui si parla di una pittura figurativa e di una pittura astratta, e qui in rapporto alla poesia figurativa, secondo modalità che sono in ogni caso da precisare e non concernono il rapporto significante/significato, o la rivendicazione poetica dell’autonomia del significante rispetto al significato. Qui significante e significato sono saldati l’uno all’altro come le macchie di colore rosso o verde sulla tela in rapporto ai colori rosso e verde, e le parole vanno infatti pensate come se fossero segni impressi su una tela.
Ma per rendere meglio l’idea analizziamo il primo componimento, che è tutto un erompere frontale, sulla superficie del quadro, dello stesso concetto in numerose variazioni, come se appunto si trattasse di diversi colori, o intrecci di linee, o di ombra e di luce. Di tempesta sorriso, cioè una violenta perturbazione atmosferica addolcita dal sorriso. Ma di chi si parla? Non certo di una figura umana, e neppure di un temporale, bensì di un movimento, di un’idea. Faglia, cioè una fenditura in una roccia, quindi una fenditura in un tessuto connettivo ideale. Scosso buio/ estemporaneo squarcio imposto. Qui bisognerebbe immaginare un colore nero agitato attraverso una gradazione dello stesso colore, e congiuntamente un’incrinatura improvvisa imposta. Ma da chi? Luce/ subitaneo segmento di ancestrale/ sconcerto fonte. I segni che precedono sono dunque il preludio di una luminosità più intensa, ma non da collocarsi in una successione del tempo, in quanto tutto accade simultaneamente. Preteso/ pur prorompente nunzio, lampo, grafo/ effimera saetta. Messaggera dunque (voluta? attesa? Prefigurata? pretesa?), questa improvvisa accensione che si frantuma in segmenti rettilinei uniti in un vertice, un lampo, un fulmine che appare e scompare in un soffio. Rotto schema sbalorditiva folgore. La regolarità (un ordine precedente) è stata frantumata. Fugace ermetico messaggio. La riproposizione martellante dell’irruzione qui sembra racchiudere un senso enigmatico che deve essere rivelato. Acuto grido/ crepitio, di baleno assorta lama/ sfavillante rimando,fragorosa/ quanto ovunque diffusa breve vita.
E sembrerebbe tutto il componimento approdare a una allegoria o a un simbolo della brevità della vita umana in rapporto all’eternità, o al Triumphum Temporis, così come viene declinato nell’ultimo verso interrogativo: come tempo, su istante, impresse effigie? Ma sono sulla strada giusta nell’essermi fatto trascinare dalle parole di Furia verso un’interpretazione tradizionale, del senso comune, intorno all’apparizione fugace della vita umana, simile a un tempestoso sorriso, a un lampo, a una faglia, a uno squarcio, a un grido che erompe e ricade nel buio del tempo, dell’eternità? E tutto questo elencato come una serie di segni, di graffiti sulla pagina da immaginarsi come la tela di un pittore astratto che ci propone enigmaticamente tracce di colore e di luce che vogliono significare per se stessi, per il loro gioco di proporzioni e di forme, e non in rapporto ad altro? Mi sono fermato così sull’ingresso del libro e per una convalida della mia ipotesi dovrei procedere a sviscerare il senso comune attorno cui ruotano i testi verso per verso per ognuno degli altri 31 componimenti. L’altro dato certo è che Furia segue una regola di composizione, si sottopone a un ordine, e credo che sia da valutare con attenzione la sua dichiarazione di attenersi, nella sua ricerca, alle indicazioni del secondo Wittgenstein, quello delle Ricerche filosofiche e di tendere quindi, sulla scorta del suo filosofo, a una terapia linguistica non della filosofia ma della stessa poesia. O della poesia posta sullo stesso piano della filosofia. Della poesia come conoscenza in atto. Ma, per restare in questo ambito, che cosa denomina ad esempio l’albagia cromatica (pag. 12) e cioè vanitosa o fantastica, che si protende per dodici endecasillabi a istituire un’equivalenza con se stessa, senza in ogni caso enuclearsi in un oggetto qualsiasi, e quindi non denominando proprio nulla, o piuttosto ruotando intorno a parti costitutive di qualcosa che non viene nominato? O forse Furia ci sottopone un rebus senza fornircene la soluzione e quindi anche la mia interpretazione iniziale (l’apposizione del cartello “vita umana” all’oggetto nascosto del primo componimento) è l’aver voluto ricorrere affrettatamente al più tradizionale e scontato dei sensi possibili?
È solo parzialmente vero. Se percorriamo i 32 pezzi del libro, a poco a poco capiamo di essere in presenza, appunto, di un gioco linguistico le cui caratteristiche sono la ricerca di «una rete complicata di somiglianze che si sovrappongono e s’incrociano a vicenda» (Wittgenstein, Ricerche filosofiche, 66) per approdare, dubitativamente, all’oggetto o al sentimento denominato. Se questo rimane poi imprecisato, lo si deve alla natura del gioco stesso che è soggettivo e pretende di avere una validità solo all’interno del proprio sistema di riferimento. In questo senso la poesia di Furia è tra le più rigorose esperienze di ricerca che siano mai state fatte di penetrare nell’essenza stessa del linguaggio, ma anche la distruzione di ogni concetto comune di poesia. Se al termine di ciascun brano al posto del punto interrogativo si apponesse un simbolo o il disegno di una cosa, di colpo il gioco s’illuminerebbe perdendo la sua specificità. Dice bene Carla De Bellis nella postfazione: «Gli endecasillabi finali, non il culmine né la soluzione del moto in cui si avvolgono le sequenze dei dodici versi, piuttosto ne sfiorano il bordo in aspetto tangenziale, obbedendo a un altra spinta cinetica». Wittgenstein assegnava alla filosofia la funzione terapeutica dalle sue incrostazioni metafisiche. Credo che anche Furia assegni alla poesia una consimile funzione, fino all’ossessione di perdersi nel labirinto della ripetizione di un gesto che solo attraverso il dispotismo delle regole che si è dato ci indica la via per un prosciugamento dell’emotività poetica e dei suoi contenuti immaginali tradizionali. O l’indicazione di una rivoluzione dell’arte poetica che riprenda la strada aperta e abbandonata dalle avanguardie d’inizio secolo di attraversare il velame fenomenico e di adeguare la poesia alle rivoluzioni dell’astrattismo nelle arti figurative e della dodecafonia nella musica. Che poi questa ricerca abbia un rapporto con le nostre forme di vita è un problema a cui non mi sento di rispondere se non additandola come un uso del tutto privato e solitario del linguaggio e quindi come accesso al poetico nel senso di rottura di ogni necessità logica ma all’interno di un meccanismo associativo la cui risonanza trova in noi profonde ripercussioni interiori.
Marco Furia, Impressi stili, Anterem Edizioni, 2005
Tiziano Salari
(Bloc Notes, 52, 2005)
Da Impressi stili di Marco Furia
1
Di tempesta sorriso, faglia, estrema
indomita irruenza, scosso buio
estemporaneo squarcio imposto, luce
subitaneo segmento di ancestrale
sconcerto fonte, fulgida, preteso
pur prorompente nunzio, lampo, grafo
effimera saetta, rotto schema
sbalorditiva folgore, fugace
ermetico messaggio, acuto grido
crepitìo, di baleno assorta lama
sfavillante rimando, fragorosa
quanto ovunque diffusa breve vita:
come tempo, su istante, impresse effigie ?
2
Pur riflessivo impulso intimo dono
repentino apparire, suggestiva
rilucente sembianza acquea, sospese
docili gocce, transitorio fregio
incantevole sagoma (stupita
insonne già pupilla, avida), muta
mirifica figura, sparse, vaghe
vibrazioni fugaci, tenui, fioche
percepibili, incerte, non sovrane
se di timore degne, alito solo
rarefatta sì brezza, iride ancòra
meraviglia mai labile, diadema:
somma di parti: lingua mostra uno ?
3
Diffusi, casti battiti impudichi
distinti, d’ aria squame truffaldine
quanto leali, esposta cupidigia
taciturna memoria, intatto ancòra
ribelle oblio, coerente stolto dire
di notturna sembianza debitrici
buie vivide immagini, precise
percorrenze dissimili, tenzone
dimenticata, ricomparsa stima
umido lusso solitario, stremo
avvertito, inudibile vibrare
misterioso ma noto, non avaro:
forse da goccia estrasse nume vita?