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Paola Polito. “Almanacco degli accidenti” di Ştefan Agopian
Stefan Agopian (per gentile concessione dello scrittore, foto ©Nicu Ilfoveanu)
Stefan Agopian (per gentile concessione dello scrittore, foto ©Nicu Ilfoveanu) 
24 Novembre 2012
 

Ştefan Agopian

Almanacco degli accidenti

trad. di Paola Polito

Felici Editore, Pisa 2012, pp. 126, € 12

 

Nato nel ’47 da padre di origine armena e madre del Banato, vissuto nell’infanzia tra Craiova (Oltenia), e Bucarest, in un ambiente multiculturale e plurilinguistico, studente di chimica poi dedito alla letteratura e al giornalismo in varie riviste letterarie e satiriche, Ştefan Agopian costituisce un vero caso letterario nel panorama romeno, a partire dagli anni ‘80, anni in cui si concentra la maggioranza dei suoi testi in prosa. Autore di 6 memorabili libri scritti in poco più di un decennio (cinque romanzi e una raccolta di racconti), con una scrittura divenuta più sporadica dopo la caduta del muro, Agopian è scrittore di punta della letteratura contemporanea romena, e di difficile catalogazione nel complesso sistema di gruppi e generazioni praticato dalla critica letteraria del suo paese.

Questa la bibliografia: Il giorno dell’ira 1979, Tache di velluto 1981, Tobit 1983, Almanacco degli accidenti 1984 (le cui prime pagine risalgono al lontanissimo 1972), Sara 1987, i racconti di Sodoma 1993, l’opera teatrale La repubblica sul patibolo 2000, il romanzo erotico Fric 2003 e nuove edizioni di suoi precedenti romanzi nel 2004, 2005 e 2006.

 

I libri di Agopian, di cui Almanacco degli accidenti è il primo tradotto in italiano, rappresentano, anche a detta dei critici suoi conterranei, una vittoria dell’immaginazione creatrice sullo sfondo di una prosa romena per lo più dominata, soprattutto sotto il regime, da resoconti e memorie, libri a tesi e reportages, e rimasta per lo più al di fuori dell’area della fiction vera e propria, per non dire del genere “fantastico” o del “realismo magico”. Assimilabile piuttosto a una corrente “antirealista”, basata sull’invenzione, sull’uso di una ardita architettura temporale, della parabola e dell’allusione, oltre che di una densa e maliziosa meta- e intertestualità, la sua opera segna una decisa emancipazione rispetto al dogmatismo del realismo socialista degli anni ’50, ma anche alle rigidezze del realismo canonico in generale.

Ştefan Agopian, con spirito corrosivo e un po’ nichilista, si affida alla voluttà del gioco, del burlesco, e a un sapiente impianto intertestuale che, come nel caso di Almanacco, farcisce i dialoghi di rinvii a opere accademiche, esoteriche, filosofiche, scientifiche, poetiche; ma lo scrittore soprattutto dà via libera alla fantasia creatrice, costruendo una irrealtà onirica e allucinata, a suo modo conseguente e plausibile, in quanto obbediente a leggi autonome. Ma la sua costruzione narrativa, che si impone e si fa gustare proprio per la gratuità artistica e l’evasione nel metafisico, riesce tuttavia ad adombrare il senso drammatico della realtà (non è difficile trovare riferimenti alla contemporaneità, se pur sotto la coltre di ambientazioni storiche inattuali, come nel caso della Romania fanariota di Almanacco).

Subito dopo la pubblicazione del romanzo Tobit (1983), Stefan Agopian sintetizzò i ritrovati stilistici dei suoi primi libri nelle poche decine di pagine incantevoli che costituiscono Manualul întâmplarilor (1984), titolo che la traduttrice, come spiega nella sua Nota sulla traduzione, ha deciso di rendere in italiano con Almanacco degli accidenti.

I sei racconti di cui è costituito il libro hanno come protagonisti Ioan Marin (detto anche Ioan il Geografo), un tempo maestro alla scuola del monastero bucurestino di Colzia, estimatore dell’Inghilterra (Anglia) che è la mèta cui si volge sogni e desideri, e Zadic l’Armeno, picaro dai mille mestieri, incluso quello di cane al servizio di un voivoda. Due barboni, ubriaconi, trasandati, sudici, che si trovano come per caso in luoghi inverosimili, dentro a botti, nei fossi, in lazzaretti, tra rane, mosche, resti puzzolenti di cibo, stracci unti e bisunti. I due trascinano un’esistenza vagabonda e inconcludente, rallentata entro i ritmi di un’insistita pigrizia orientale, balcanica, allucinati dall’alcol e dall’inedia, oltre che da un’atmosfera asfittica, rarefatta, astratta, progressivamente sempre più concentrazionaria e onirica. Tra improbabili incontri e azioni, incluso anche l’attacco guerresco a una locanda, e racconti di passate avventure, i due si risvegliano sempre da una sbornia, o in aperta campagna, in un fosso, o in una locanda, o nel Lazzaretto dell’ultimo capitolo, dove ormai sono pronti per l’ultima avventura, quella della morte – un impercettibile passaggio della stessa qualità onirica delle avventure precedenti – che li vede trasformarsi in smunti e patiti angeli svolazzanti, finalmente liberi, liberati dallo scatologico, dalla rinuncia, dalla deprivazione.

Capitolo dopo capitolo i due intrattengono una costante conversazione in una lingua erudita, con citazioni, menzioni e rinvii sapienti: la cultura del passato è evocata in Almanacco in modo eterogeneo ed episodico, con un effetto ilare, come se l’autore volesse dimostrare il carattere infruttuoso della cultura ridotta a erudizione, come se dai frammenti di un cosmo sapienziale saltato in aria risultasse l’impossibilità di riunificare la conoscenza e di rinvenire un qualche insegnamento utile ad affrontare positivamente la contingenza. Come se, scrivendo questo “manuale degli eventi”, un manuale volto ad aiutarci a interpretare e a fronteggiare gli imprevisti della vita, l’autore volesse mostrarne al contrario l’impossibilità.

Nelle scene in cui, presi di mira da mosche, cani famelici, topi e spie, i due chiacchierano e filosofeggiano eruditamente e anche scioccamente (con cadute dal sublime alla bêtise di flaubertiana memoria), appaiono altri personaggi, favolistici o mitici, in una galleria esilarante: tra gli altri, il cane Magog, partecipe sapiente alle loro dispute intellettuali, il grande e irrequieto uccello Ulisse, una querula stinfalide (uccello-donna della palude Stimfala), un Cacodemone e vari angeli (angeli-colombi, angeli-nani, l’angelo russatore sottufficiale Malfeior), e Clausevici, diavolo militare, che accompagna le armate russe d’occupazione. Prodotti dell’immaginazione, spettacolari quanto improbabili, si comportano tutti naturalmente e con un certo cameratismo affabile.

Ma, una volta che il lettore entra in un patto fiduciario con l’inaffidabile scrittore, tutto si fa naturale e, di conseguenza, niente può più meravigliare. Anzi tutto fa riflettere. Scrive un critico romeno (Eugen Negrici) che, in Almanacco, «La psicologia degli eroi assomiglia sorprendentemente con quella di ergastolani che seguano con una certa allegra curiosità l’assalto metodico dei pidocchi sul proprio corpo». Ecco: ergastolani. Questo romanzo antipsicologico, fatto di personaggi sottili come la carta, eppur spesso immersi in una dimensione scatologica grottesca e paradossale, caratteri di cui non sono indagate le ragioni e i sentimenti perché sembra non ci sia niente da indagare né da capire, niente da distinguere e differenziare, mette in scena una rappresentazione (e non è un caso che Agopian abbia curato di questo testo anche una versione drammaturgica) affidata alle parole scambiate e a situazioni assurde e sorprendenti. È qualcosa che ci fa riflettere. Si tratta di un mondo senza speranze né illusioni, dominato dall’insensatezza, dalla mancanza di libertà, dall’assenza di prospettive e di sviluppi, irretito nella lentezza e nella ripetizione, nell’indolenza e nella sospensione tra sogno e realtà, in una svogliata ed estenuata attesa senza oggetto.

In Almanacco pare che al narratore e ai personaggi sfugga il senso generale della rappresentazione, perché questo senso, semplicemente, non esiste: indifferenti e vani, gli accidenti subiti, raccontati e ascoltati paiono essere un “elemento di disturbo” che sottrae temporaneamente i personaggi dal loro stato strutturale, di base: ozioso, sognante, apatico e smemorato. Tutti loro, più che vivere la vita, la mimano. “L’assenza di finalità” (E. Negrici), la lentezza e la ripetitività dei gesti sono tratti fors’anche riconducibili alla condizione esistenziale sotto la dittatura.

Ecco così che non è possibile intendere l’operazione di scrittura condotta da Agopian senza pensarla anche, se pur non solo, come un apologo sul luogo più terribilmente caratteristico del ‘900: il lager (di qualunque forma e colore). Un apologo sul lager come grande metafora della condizione umana quando non è illuminata dalla luce della speranza.

 

Paola Polito


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