Il 2 novembre del 1972 fa si spegneva a Venezia Ezra Pound, l’uomo che aveva cercato di dare agli Stati Uniti un nuovo Rinascimento poetico con quel gigantesco poema plurilingue e carico di storia che sono i Cantos (di cui i primi trenta sono stati appena ritradotti per Guanda da Massimo Bacigalupo). In questi giorni sono diverse le iniziative che ricordano il quarantennale della scomparsa del poeta. Il proposito più efficace per ricordarlo può essere semplicemente leggere e rileggere i suoi 117 Canti.
Troppe ombre hanno deviato l’attenzione sul Pound “personaggio” piuttosto che sulla sua poesia, e lo studio della sua vastissima opera è stato postposto a favore degli scoop giornalistici o degli stereotipi (il miglior fabbro di Eliot), le sue scelte politiche nonché la “patente di matto” (un’espressione di Indro Montanelli del ’58, quando si scatenò il putiferio per il rientro del poeta in Italia).
Pound dovrebbe essere ri-studiato per aver cercato i sentieri dell’epica quando quasi tutti avevamo smesso di farlo. Del resto, viviamo in un tempo in cui non si scrivono più poesie, ma soltanto “appunti di poesie”, secondo la caustica (ma in parte veritiera), espressione del meritatissimo premio Nobel Derek Walcott). I Cantos sono un immane “atlante di conoscenze”, che riporta, secondo un celebre titolo di Stefan Zweig, “il mondo di ieri” e che contiene slanci profetici a suo tempo considerati eccentrici o del tutto improponibili. Basti pensare alle invettive contro il cancro dell’usura o lo strapotere incontrollato dei sistemi finanziari (cfr. l’altissimo Canto 45, anche se in realtà il tema economico è colonna vertebrale di tutto il suo epos).
A maggior ragione Pound andrebbe studiato in Italia (sta scomparendo dalle antologie) dove di epica si parla a fatica e con tanti distinguo, dato il tradizionale monopolio della linea petrarchesca su quella dantesca.
Ogni capitolo dei Cantos gronda di storia. Come un Ulisse del 900, Pound ha affrontato un periplum (termine a lui molto caro) con tappe diversissime: i grandi legislatori, i presidenti degli Stati Uniti, le dinastie cinesi, il sogno di un paradiso difficile da riempire (perché intorno a lui ogni cosa parlava di Apocalisse, come disse in una delle ultime interviste). Tutto in Pound è viaggio e non a caso il primo verso dei Cantos è un omerico “Poi scendemmo alla nave”.
Dialogando a tu per tu con la Storia, Pound incarnò quell’imprescindibile postulato della poesia secondo cui il poeta deve essere un altro, perché deve saper trasferire la propria esperienza personale all’universale. Esattamente come aveva teorizzato Arthur Rimbaud nella celebre lettera del 13 maggio 1871: «Voglio essere poeta, e lavoro a rendermi Veggente... io mi sono riconosciuto poeta. Non è affatto colpa mia. È falso dire: Io penso: si dovrebbe dire io sono pensato... Io è un altro»).
Pound è un unicum nel 900 e lo testimonia l’incredibile versatilità della sua scrittura. Basterebbe sfogliare l’introvabile Oscar Mondadori Per conoscere Pound per toccare i più disparati registri. Si passa dal timbro lirico e visionario della Litania notturna a Venezia (contenuta nelle Poesie giovanili) ai perfetti cammei orientali di Catai (il regista canadese Bernard Dew ne ha appena offerto una suggestiva interpretazione cinematografica). Si può respirare la quiete paradisiaca del Canto 49, detto dei Sette laghi che poi ritornerà in quegli straordinari frammenti che compongono le ultimissime poesie, quei Drafts & fragments scritti tra le bifore del castello tirolese di Brunnenburg. Come ci si può tuffare nel fango infernale delle trincee della Grande Guerra (lì Pound perse diversi amici, tra cui il giovane scultore Henri Gaudier-Brzeska).
L’intensità di un poeta si giudica anche dalla fiducia nella propria arte: Pound ebbe una grande fiducia nella poesia. A riguardo basterebbe citare due date simbolo: il 1945 e il 1958. Nell’estate e nell’autunno del ’58 Pound si concentrò sulla conclusione del suo grande affresco cercando di vincere il senso di isolamento dopo 12 anni di manicomio criminale, i tanti lutti tra gli amici, l’avanzare di una corrosiva depressione e il fatto di essere legalmente interdetto e affidato a un tutore (la moglie Dorothy).
E la forza della sua poesia non venne meno nel momento forse più difficile della sua esistenza: quando fu rinchiuso per tre settimane nella famosa gabbia del Dtc di Pisa: sotto la luce accecante dei riflettori, la notte, sotto la sferza del sole estivo, di giorno.
La tentazione di passare i polsi sul filo spinato del campo di concentramento fu forte («la solitudine della morte mi colse / alle 3 del pomeriggio per un istante», Canto 82), ma prevalse il sogno di scrivere. E iniziò i primi appunti del suo Canto 74 sulla carta igienica. La poesia è contemplazione: Pound scelse di raccontare la bellezza quando tutto intorno a lui sembrava votato alla rovina.
Nei Pisan Cantos si trova una struggente autobiografia del dolore. Il poeta si paragona a un altro recluso eccellente (anche lui poeta), san Giovanni della Croce, chiedendosi quando sarà lunga la prova: «È più buio? Più buio prima? Nux animae? / esiste buio più fondo o è come San Juan in travaglio / che scrive ai posteri / insomma, il peggio ha da venire o è questo fondo?» (Canto 74).
Pound trovò consolazione in dettagli della natura a prima vista insignificanti, come la comparsa di un grillo («La domenica portò un grillino verde / smeraldo più pallido / gli manca la zampina destra» (Canto 74) o di una formica («Quando la mente s’appiglia a un filo d’erba / la zampa d’una formica può salvarti / il trifoglio sa e odora come quando è in fiore», Canto 83). Eppure nel suo “inferno”, nella sua «fossa di polvere e luce accecante», con la compagnia delle massime di Confucio e della liturgia della Messa cattolica, Pound toccò come forse mai prima il centro del cuore dell’uomo. Diventato acronos, «come un cane bastonato sotto la grandine», e avendo «perso ormai il senso dei giorni», sapeva però che «La carità più profonda / si trova fra chi ha infranto / le regole (Canto 74).
Sarebbe così arrivato alla “confessione” del Canto 81 uno dei vertici della poesia del Novecento: «Ciò che sai amare rimane / il resto è scoria / Ciò che tu sai amare non sarà strappato da te / Ciò che sai amare è il tuo vero retaggio […] Ciò che tu sai amare non ti sarà strappato / la formica è centauro nel suo mondo di draghi. / Deponi la tua vanità, non è l’uomo / che ha fatto il coraggio, o l’ordine o la grazia, / Deponi la tua vanità, dico, deponila!» (nella splendida traduzione della figlia Mary de Rachewiltz).
Nella celebrazioni degli anniversari non si dovrebbe dimenticare la generosità di Pound per i giovani artisti: fu infatti un infaticabile “cacciatore di talenti”. Tra le testimonianze più accese c’è quella di Ernst Emingway che lo descrisse in modo memorabile a Parigi nel 1925: «Pound consacra un quinto del suo tempo alla poesia e il resto ad aiutare gli amici dal punto di vista materiale ed artistico. Li difende quando sono attaccati, fa pubblicare le loro opere e li fa uscire di prigione. Presta loro denaro, vende i loro quadri, organizza i loro concerti. Gli dedica degli articoli. Li presenta a donne ricche. Fa accettare i loro libri dagli editori. Resta con loro tutta la notte quando credono di essere in agonia, è testimone nelle loro ultime volontà. Li distoglie dal suicidio. In fin dei conti è uno che si astiene dal pugnalarli alle spalle alla prima occasione».
Ci sono molte opere che andrebbero tradotte Italia per addentarsi con più cognizione nel poliedrico universo poundiano. Ecco una provvisoria e del tutto incompleta griglia di partenza: la biografia di David Moody (è uscito il primo tomo: The Young Genius 1885-1920) per completare quella di Humphrey Carpenter ormai confinata ai remainders, le lettere dalla prigionia alla moglie Dorothy (Letters in Captivity, 1945-1946), quelle ai genitori (Ezra Pound to His Parents: Letters 1895-1929) e lo studio di Tim Redman (Ezra Pound and Italian Fascism). E naturalmente si aspetta da anni una tra le tante guide ai Cantos…
Alessandro Rivali
(da ilsussidiario.net, 16 novembre 2012)