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Gianfranco Cercone. “Il comandante e la cicogna” di Silvio Soldini: un’intima corruzione
12 Novembre 2012
 

Ci sono film che raccontano il mondo come si vorrebbe che fosse (o almeno, come lo vorrebbe l’autore); e film che invece cercano di raccontare il mondo così come è. In effetti, sono due tendenze che coabitano in ogni film; ma di solito, una delle due prevale sull’altra.

Nel caso dell’ultimo film di Silvio Soldini – sebbene sia stato definito, anche plausibilmente, una “favola” – prevale nettamente la seconda tendenza: quella “realistica”. Malgrado l’apparente lieto fine, il film è in effetti un affresco sconsolato, forse perfino disperato, dell’Italia di oggi.

Il segno più chiaro di questa ambizione ad abbracciare un tema così ampio, è in una delle invenzioni più originali: la storia è ripetutamente vista e commentata da alcuni personaggi illustri della storia d’Italia, presenti, nella città in cui è ambientata – Torino – attraverso busti di marmo e monumenti. Si tratta di Giuseppe Verdi, di Giacomo Leopardi, di Leonardo; ma forse il più ricorrente è Giuseppe Garibaldi, che arriva ad affermare che meglio sarebbe stato lasciare l’Italia sotto il dominio degli Austriaci. Perché un giudizio così severo sull’Italia di oggi?

La risposta non è inedita: perché l’Italia è un paese corrotto, ma non in senso moralistico; nel senso che l’illegalità tende prevalere sulla legalità. E la corruzione che considera il film non riguarda soltanto e soprattutto la classe dirigente (a cui pure si fa riferimento attraverso la figura di un avvocato per “altolocati” coinvolti in vari scandali, che lui difende anche con mezzi chiaramente illegali); ma è la corruzione diffusa tra la gran massa della gente senza potere e senza ricchezze.

Il film ne offre tanti esempi, che a volte sono brevissime notazioni, altre volte si sviluppano in episodi più ampi. Si va dal vandalismo ai piccoli furti, al mancato rispetto delle norme igieniche nei bar, ai lavori precari che non vengono retribuiti, alla diffusione su Internet di video con le proprie prestazioni erotiche, una diffusione che avviene però senza il consenso della partner. Fino al successo che viene tributato ai disonesti, mentre, si ricorda, le minoranze che lottano per la verità e la giustizia sono spesso derise.

La somma di queste notizie è chiamata a produrre un gran concerto tutto dissonante; riesce a dare l’impressione di una frana quasi inarginabile, perché i due momenti che almeno nella vita privata dovrebbero portare a convivere con una qualche armonia le persone – la famiglia e la vita di coppia – si dimostrano spesso inefficaci, perché, data la mancanza di fiducia reciproca, causata anche dalla generale disonestà, viene meno la volontà di comprendersi e di comunicare.

Si capisce allora perché un adolescente introverso instauri un rapporto immaginario, ma per lui il più positivo, con una cicogna, a cui porta tutti i giorni da mangiare. E del resto anche a uomini fatti può capitare di preferire rapporti immaginari a rapporti reali.

Tutto ciò, naturalmente, può sembrarci vero; ma non necessariamente doveva fruttare un bel film. Se il risultato, a mio parere, è complessivamente buono, lo si deve alla finezza dell’autore, che scegliendo il registro della commedia, e a volte della farsa, riesce sempre o quasi sempre a mantenere personaggi e situazioni in proporzioni umane; a non farli degenerare in caricature grossolane.

Un limite è forse una certa mancanza di profondità. La corruzione è in fondo un mistero: perché si preferisce la disonestà all’onestà? E perché la disonestà si propagherebbe con tanta facilità? Le ragioni sono storiche, ma appartengono anche all’intimità degli individui.

Ecco: il film è abile a descrivere certi fenomeni di degenerazione sociale dell’Italia di oggi; li mette intelligentemente in correlazione fra loro. Ma gli manca un supplemento di indagine per tentare di risalire alle loro radici.

 

Gianfranco Cercone

(da Notizie Radicali, 5 novembre 2012)


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