Laura Caputo
Il castello di San Michele
Leucotea, 2012, pagg. 164, € 11,90
A p. 8, l’Autrice scrive espressamente nell’avvertenza che sebbene i personaggi e i luoghi del presente romanzo siano ispirati a località ed a vicende accadute, sono parto della sua fantasia. Questo ci dice, de facto, che è un’inchiesta nel vero senso del termine sebbene romanzata con originalità. La nota alla fine del lungo racconto ci conferma quanto detto sopra. La trama è lineare. La narratrice vuol capire che sia veramente la cosiddetta criminalità campana di persona, non per sentito dire. Settimiano è il luogo in cui si apre il romanzo e dove iniziano le sue avventure e disavventure, incontrando la Camorra e incorrendo in minacce di ogni sorta che lasciamo al lettore immergervisi. A differenza del reportage classico, qui si avverte la compartecipazione più che della giornalista (Laura lo è), della scrittrice “realista”, mi si conceda il termine usato in senso lato. L’uso di espressioni dialettali, del vernacolo (lo hanno sparato invece di lo hanno ucciso, etc.), la dettagliata descrizione (quelle viuzze con i panni stesi a sciorinare o all’inizio, digià, come la terra nera «polverosa e spenta come i detriti di fonderia»), quasi minuziosa, ci fanno addentrare nel milieu che la circonda, fatto anche di odori quasi avvolgendo il lettore sensorialmente, oltreché di uomini, i tipi più disparati molti quasi pungolati da una strana complicità e connivenza con le donne di camorra.
Tornano in mente due libri. Uno di Sciascia, Il giorno della civetta, per aver trattato il problema mafioso, l’altro di Carlo Levi, Cristo si è fermato ad Eboli, anche se non parla di mafie. Forse quest’ultimo ci pare più atto: è un Sud lasciato a sé dove lo Stato è sempre stato latitante e tale assenza è divenuta complicità di fatto. A chi si rivolge il cittadino se manca lo Stato? Per il lavoro, per le mancate, seppure da sempre promesse, riforme radicali e strutturali tipiche di una società che si voglia chiamare civile? Non è una giustificazione delle società criminali le quali si basano sullo sfruttamento della prostituzione, del gioco d’azzardo, di riciclo di materiali tossici, di droghe ed armi e di sangue anche di cittadini inermi, innocenti... Quel sapore mellifluo e dolciastro di sangue umano che aleggia nell’aria… è il sangue di migliaia di vite comprese quelle di Peppino Impastato o del giornalista de Il Mattino di Napoli, Giancarlo Siani, per non citare che nomi rimasti impressi nella memoria collettiva. Perché la loro morte? Per non aver taciuto in un clima omertoso, di silenzio costellato di paure e di connivenze. E come fa a restare in piedi, a non esser sgominata qualsiasi associazione a delinquere se non legata alla politica?
E sebbene le forze dell’ordine, con i mezzi non sufficienti a loro disposizione, si diano da fare assieme alla magistratura sana, cambierà forse qualcosa se non si colpisce più radicalmente chi spalleggia le mafie? Perché il boss, di cui parla Laura Caputo, rifiuta di “pentirsi”? Dov’è quella giustizia che la gente normale s’aspetta da enti legali?
Sono solo alcune riflessioni che saltano alla mente, leggendo con attenzione questo snello ed ottimo libro. -Un sentito ad Majora a Laura-
Enrico Marco Cipollini