Qualche anno fa un noto cantautore italiano, Edoardo Bennato, cantava L’isola che non c’è. Ed ora è il momento di un inedito di Roberto Vecchioni: La scuola che non c’è. Questa volta non si tratta però di una canzone bensì di un video, quello che il Ministero dell’Istruzione ha lanciato sul suo portale web per spiegare il valore dell'istituzione della scuola pubblica attraverso il volto e la voce, per un intenso minuto fuori campo, di Roberto Vecchioni. Uno spot ben fatto e con uno slogan sicuramente accattivante: «Cerchiamo con tutte le forze di cambiare ciò che non va, ma non smettiamo mai di amare la nostra scuola». Anch’io, che ho sempre guardato con snobistica distanza a certa retorica magniloquente e alle frasi ad effetto, non mi sono potuta sottrarre al fascino di quelle immagini patinate, alla voce suadente e incantatrice di Roberto Vecchioni, a quel messaggio trasmesso da una faccia di rughe malinconiche e rassicuranti che su di noi, nostalgici eredi di una cultura umanistica, fa sempre un certo effetto. Il problema è che la scuola del collega Roberto Vecchioni non esiste: la sua, come l’isola di Edoardo Bennato, non c’è.
Il meraviglioso spot in cui appare la scuola pubblica che tutti vorremmo - con aule capienti e ipertecnologiche, trionfi di computer e i-pad, una bella biblioteca - sembra sia stato girato infatti alla Deutsche Schule Mailand, ovvero la scuola tedesca di Milano: una scuola privata. Non voglio unirmi al coro delle polemiche, addentrarmi in sterili dibattiti su pubblico e privato, né rimproverare scarsa coerenza al collega musicista. La scuola dello spot non c’è ma il ministero sembra che abbia un’ansia parossistica di regalare a noi insegnanti, sempre più vecchi e immalinconiti, l’illusione che la scuola sia prossima ad un nuovo rinascimento e che noi saremo gli autori di un umanesimo in grado di imprimere una svolta decisiva ad una struttura vetusta ma - come dice lo spot – “pur sempre da amare”. Peccato che la svolta radicale di cui saremmo inconsapevoli protagonisti passi attraverso l’innalzamento delle ore frontali di lezione degli insegnanti, per la precisione di un terzo in più, senza nessun tipo di aumento salariale. Del resto nell’opinione pubblica e, probabilmente anche in quella del ministro Profumo, la categoria degli insegnanti è fatta da fannulloni che godono di inconfessabili privilegi: primo tra tutti quello di lavorare 18 ore. Sì, perché per l’opinione pubblica l’insegnante esplica la sua azione solo in classe: in una classe - sempre secondo chi sapientemente ci governa - di futuri bamboccioni e ora - con un termine inglese ma che, a ben sentire, sembra tirato fuori dal vocabolario di un simpatico dialetto lombardo - di choosy. Fannulloni, bamboccioni, choosy… ecco il mondo variegato della scuola per chi non è mai entrato dentro ad un’aula, per chi guarda le carte: quelle carte che raccontano di 18 ore e “nascondono” tutte quelle altre che servono a far sì che quelle tanto criticate 18 ore diventino materia vibrante da condividere con una generazione che, come ci ricorda ne Il rosso e il blu il professor Marco Lodoli, «è talmente smarrita da aver perso lungo il cammino le strutture logiche e compositive del ragionamento, ma non i brividi, i palpiti, le intuizioni volanti, quel fermento dell’anima».
Qualche anno e qualche ministro fa, andava per la maggiore lo slogan delle tre “I”: Internet, Inglese, Impresa, una nuova trinità da venerare e tutta fissata sul presente, sull’utilitarismo, sul provincialismo. Sono cambiati i ministri ma questo provincialismo temporale è rimasto: la grande eredità civile, culturale e spirituale del passato è ignorata perché ben altre sono le questioni che premono, quelle appunto dell'efficienza, della logica di mercato e di consumo, della produttività. E la scuola non sfugge a questa logica malgrado lo spot pseudo sentimentale del ministero voglia raccontarci il contrario.
Non mi piace come ci stanno trattando ma non mi piace neanche vedermi riflessa nelle facce scontente, rabbiose e stanche dei colleghi. La nostra classe dirigente è così miope da non capire che la scuola è l’unico investimento sicuro in una società sempre più liquida, sempre più veloce e che corre il rischio di essere travolta da un futuro ormai impronunciabile perché impensabile per gran parte della popolazione italiana. Noi insegnanti possiamo e dobbiamo fare ancora tanto, non solo per noi ma per l’Italia e per quei giovani che così tanto amiamo, forti di quell’unico privilegio che nessun ministro potrà toglierci. Quel privilegio che sfugge, che non si fa imbrigliare, imprigionare nella logica utilitaristica del presente e del burocratese. Il professore ha la possibilità di avere davanti a sé uno spaccato della vita vera, «un’antologia vivente di narrazioni che s’aggiornano di continuo e che chiedono attenzione». Ha il privilegio, citando ancora Lodoli, di frequentare, grazie ai propri studenti, «due tempi diversi, forse addirittura opposti, perché ogni adolescente contiene fisiologicamente l’eternità, si confronta con le domande assolute […] ed è una spugna che si imbeve dell’acqua limpida o sudicia del presente». Forse in maniera del tutto inconsapevole, il patinato spot del ministero ci ricorda proprio questo: «un migliore futuro per tutti è scritto nel miglior presente che riusciamo a realizzare insieme». A volte anche le bugie servono.
Foligno, 24 ottobre 2012
Fabiana Cruciani,
musicista e docente di lettere nell’I.T.T. di Foligno