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Massimo Campo. Il paradosso cubano: essere ignoranti per essere liberi
22 Ottobre 2012
 

Malgrado un fugace annuncio qualche mese prima, la notizia del 16 ottobre del 2012 è stata dirompente. Attraverso la pubblicazione nella Gaceta Oficial del medesimo giorno, il regime ha annunciato un Decreto Modificativo delle Legge num. 1312, “Ley de Imigracion”, del 20 settembre 1976.

I media di tutto il mondo hanno aperto con titoli in prima pagina, tutti ispirati al medesimo concetto: dal 13 Gennaio 2013 sarebbe finita a chiusura del Paese. Finalmente i cubani sarebbero stati affrancati dalla necessità di essere giudicati ogni volta che avessero richiesto il diritto di uscita dal Paese e spesso sottoposti al divieto, senza che la legge obbligasse le autorità a darne alcuna spiegazione.

Tutto cambia, si è scritto.

Non sarà più necessario il Visto e cosa più fastidiosa la Lettera di Invito (ossia un documento in cui si certificano alcune responsabilità da parte di chi “ospita” il cubano fuori dal Paese). Cadeva uno dei più odiosi, e infatti detestati dai cubani, vincoli alla libertà personale. Finalmente Cuba guarda al futuro si è scritto, ancora. Una ottimistica ondata di felicità ha invaso il Paese e tutti coloro, anche fuori da Cuba, che credono che il diritto di viaggiare sia un valore fondamentale della persona e della dignità umana ne hanno gioito.

Era davvero così importante quel decreto legge? Oggettivamente sì, lo era. Anche i dissidenti più famosi, Yoani Sánchez su tutti, erano stati colpiti ripetutamente dal divieto ingiustificabile legalmente ed eticamente di lasciare il Paese.

Solo dopo alcune ore da quei titoli roboanti gli osservatori più attenti hanno manifestato le prime perplessità. Queste erano motivate da alcune parole contenute nel Decreto.

«L'attuazione delle nuove regole migratorie dovrà tenere conto del diritto dello Stato rivoluzionario di difendersi dai piani sovversivi del governo nordamericano e di limitare le ingerenze degli Stati Uniti e dei suoi alleati. Per tale motivo saranno mantenute misure volte a preservare il capitale umano creato dalla Rivoluzione, per scongiurare il furto di talenti messo in atto dalle potenti nazioni capitaliste».

Questo concetto, intriso di forte retorica ideologica stile anni '70, sembra sposarsi in maniera pessima con una sincera voglia di attivare processi di cambiamento e riforma sociale. Al contrario sembra porsi nella tradizione del regime cubano, che anche quando propone dei cambiamenti non perde occasione per identificare sin da subito uno strumento adatto allo scopo di intercettare, annullandole, le stesse novità appena proposte.

Quindi lo Stato cubano ha il diritto di impedire viaggi all'estero a dottori, intellettuali, ingegneri, filosofi?

Invece li consentirà normalmente a contadini e operai?

Sembra delinearsi un approccio se non razziale almeno classista, una sorta di “discriminazione selettiva” francamente insopportabile.

José Martí, l'intellettuale patriota del XIX secolo incessantemente saccheggiato dalla retorica castrista, affermò: «Ser culto para ser libre».

Occorre essere colti per essere davvero liberi.

Con la nuova legge di migrazione sembra delinearsi una folle possibilità per i cubani: occorre essere ignoranti per essere davvero liberi.

L'affermazione contenuta nel decreto, «Difendersi dai piani sovversivi del governo nordamericano», consentirà di negare ancora nel 2013 l'uscita dal Paese ai dissidenti politici?

Ci muoviamo ulteriormente nel campo dell'ambiguità, ambiguità legislativa e di riflesso etica.

Il cittadino cubano è e resta discriminabile per legge.

Questa sembra essere l'unica certezza di una riforma che mostrerà il suo valore, e la sua sincerità, solo a partire dal 13 gennaio 2013.

 

Massimo Campo

(da NuovaCuba, 22 ottobre 2012)


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