Vecchie idee fresche di stampa. «La rivendicazione dell'unità europea esprime oggi l'aspirazione molto diffusa per un ordine tra le nazioni europee che sia veramente atto a garantire la pace, la libertà, la giustizia. I socialisti devono diventare, par varie ragioni capitali, i sostenitori più tenaci e perseveranti di questa rivendicazione». (Eugenio Colorni, su L'Avvenire dei lavoratori, 11/02/1944)
Novemila giovani dai 18 ai 29 anni hanno partecipato a un’indagine demoscopica dalla quale emerge che l’istituzione su cui essi ripongono maggior fiducia è, a sorpresa, l’Unione Europea. «L'Europa, come progetto anche se disatteso, per una generazione multiculturale e sempre connessa è un punto di riferimento», ha commentato lo studioso Alessandro Rosina.
E però, nonostante l’alto tasso di affidamento, in molti potrebbero essersi chiesti, alla notizia del Nobel per la pace conferito all'UE, qual senso abbia un premio da Oslo mentre infuria nel continente il conflitto politico-finanziario che sappiamo. «Sembra quasi che faccia dell'ironia, anche se difficilmente immaginiamo una giuria ironica», ha scritto Barbara Spinelli: un premio che – secondo l'autorevole commentatrice di Repubblica – non suggella alcun progresso reale, ma segnala piuttosto la crisi in cui ci dibattiamo.
«In tempo di crisi la ragione va in soffitta», le fa eco Lucio Caracciolo, esperto di politica internazionale e direttore di Limes, sintetizzando come segue lo stato dell’arte: «Le questioni vengono poste assertivamente e risolte a fil di spada – oggi una metafora, ieri meno e quanto al domani incrociamo le dita... Nord contro Sud, Sud contro Nord. Bianco e nero, nero e bianco. Di qui al razzismo il passo è breve». E cita un diplomatico tedesco (nella lingua di Bismarck ein Gesandter, aber kein Geschikter), il quale diplomatico spiega così il fallimento dell’Europa: «Abbiamo cercato di nordificare i mediterranei... A quanto pare è stata un’illusione».
Resta da chiedersi: illusione di chi? Chi guidava le danze? Chi, illudendo sé e altri, ci ha guadagnato più di tutti?
Apice del furbismo europeo è il sembrare onesti: uno sport in voga nella mia generazione di figli di papà stagionati, generazione di retori arraffoni rottamatori rottamanti rottamandi. E mai, ma proprio mai, che la colpa sia anche nostra, almeno un po', e non sempre tutta altrui.
Torniamo alla domanda iniziale: se ciascun europeo appartiene “ancora una volta per la prima volta” alla stirpe semidivina oppure a quella subumana, l’un contro l’altra armate, non si comprende bene il senso qui di un Nobel per la pace.
Questione ineludibile. Tentiamo una nostra risposta, rievocando la figura di Eugenio Colorni, un filosofo e un leader del PSI morto tanto tempo fa: «I socialisti italiani vogliono che dalla pace che seguirà alla presente guerra siano poste le basi solide di un ordinamento che tenda a creare una Federazione libera degli Stati Europei», così Colorni nell’inverno del 1943, mentre progettava una massiccia campagna europeista tra i lavoratori del nostro paese, giacché «il Partito Socialista Italiano ritiene che proprio l’atteggiamento delle masse possa avere un’azione decisiva» in vista degli Stati Uniti d'Europa.
A Ignazio Silone, nel rileggere «queste parole scritte appena tre anni fa», sembrò di ricordare il «sogno di un’alba di primavera». Il partigiano Colorni era caduto. E l'esule Nenni, rientrato in Italia, guardava ora a Togliatti e a Stalin, e non certo ai castelli in aria dell'europeismo, ritenendo che senza il contrafforte dell’URSS la democrazia italiana si sarebbe vista ben presto revocare in un nostalgico rigurgito clerico-fascista.
La realpolitik nenniana e i timori a essa connessi non erano privi di concretezza storica, come indirettamente confermano a tutt'oggi anche taluni opinionisti del Corriere, l’ultraliberista Piero Ostellino in testa, per il quale non l’UE «burocratica e improduttiva» ha preservato la pace nel nostro Continente, ma «la divisione del mondo in blocchi armati e contrapposti». Questa tesi, che oggi forse nemmeno Breznev e Jaruzelski ardirebbero asserire con tanta perentorietà, non spiega però come sia stata tutto sommato possibile, dopo la fine della guerra fredda, una pax europaea. E soprattutto non sa dire in che modo procedere per il futuro.
Tutt'altrimenti Silone, che fin dagli anni dell’esilio antifascista aveva diagnosticato l’intrinseca debolezza sovietica del “dio che è fallito”. La strategia da perseguire rimaneva quella tracciata da Colorni. Silone si oppose al neo-frontismo. Ne nacque una gigantomachia per l’egemonia a sinistra. Prima fu riconquistato il PSI di Nenni. Poi anche il PCI di Berlinguer si convertì all'europeismo.
Oggi i giovani guardano speranzosi all'UE, e lo stesso vale per il popolo di sinistra. Oggi non possiamo non dirci europeisti. Ma nei primi anni del secondo dopoguerra l’appoggio delle masse alla prospettiva degli Stati Uniti d’Europa era ancora tutto da conquistare. E qualcuno lo doveva fare. Perché solo in quel modo si sarebbe potuto porre fine al plurisecolare stato di guerra in cui versava il Vecchio continente. Bisognava assolutamente sottrarre il movimento operaio italiano all’influenza dell’ortodossia sovietica, conquistando le lavoratrici e i lavoratori al federalismo europeo.
«Per finire, ho da dirvi solo questo: se non faremo l’Europa, la nostra generazione potrà considerarsi fallita» – così Silone chiudeva il suo discorso sulla Missione europea del socialismo. Il testo del discorso apparve poi in L’Europa federata con introduzione di Ernesto Rossi che, insieme ad Altiero Spinelli, aveva condiviso con Colorni il confino a Ventotene e la redazione del celebre Manifesto.
A Eugenio Colorni «ucciso dai nazi-fascisti qui a Roma, pochi giorni prima della Liberazione» lo scrittore abruzzese dedicò le sue considerazioni europeiste. E denunciò con vigore «il regresso da noi subito – se non altro nell’impostazione dei problemi – in questi soli due anni trascorsi dalla fine della guerra».
Era l’ottobre del 1947. Poco meno di dieci anni dopo, il 25 marzo del 1957, sul Campidoglio, a poco più di mille passi dal teatro romano nel quale Silone aveva pronunciato l’importante discorso, venivano firmati i Trattati di Roma.
E ora questo Nobel che, voi capirete, non possiamo non reindirizzare alla memoria di Colorni, Rossi e Spinelli perché è agli europeisti della loro generazione che andrebbe consegnato il premio di Oslo, chiunque sarà materialmente incaricato di riceverlo a nome dell’Unione. Perché in realtà noi non siamo degni del Nobel. Ma loro sì.
In realtà, come scrive Barbara Spinelli, «l'ideale sarebbe se l'Europa non andasse a prendere il premio, e comunicasse al Comitato Nobel che i propri cittadini… verranno a ritirarlo quando l'opera sarà davvero voluta e di conseguenza compiuta».
Per intanto il nostro pensiero va anche a Ignazio Silone che indicò alla sinistra italiana l’uscita dalla psicosi bolscevica, in una battaglia politica di lunga durata e di amplissimo respiro culturale che l’autore di Fontamara intraprese, partendo proprio da queste colonne, e poi ovunque, insieme a personalità come Albert Camus, Jacques Maritain e Thomas Mann. Anche a questi straordinari intellettuali europei sentiamo di dover indirizzare un grato ricordo.
Andrea Ermano
(da L'Avvenire dei lavoratori, newsletter 17 ottobre 2012)
Nell'immagine in allegato
L'Avvenire dei lavoratori dell'11/02/1944, direttore Ignazio Silone, apre con il programma colorniano 'Per gli Stati Uniti d'Europa'