Il teatrino è finito, pare. García Ginarte può stare tranquillo, anche Fernando Rojas e Bloguero Cubano possono tornare a cullare sogni rivoluzionari, possono continuare a scrivere che la rivoluzione è sempre più solida e forte, che gli imperialisti non passeranno e che questa strada è di Raúl. Insomma, le cazzate di sempre. Il teatrino è finito. Non quello che voleva montare Yoani, lo show mediatico temuto dal regime, la rappresentazione della follia, per un paese come il nostro, il giornalismo indipendente che vuole raccontare un processo con sguardo obiettivo. Il loro teatrino è finito. Non si sono neppure resi conto di aver scatenato un putiferio incredibile, una cosa epocale di cui ha parlato il mondo intero. Mancava che si scandalizzasse la Birmania, guarda. Intelligenza e valutazioni di opportunità sono fattori trascurabili per un regime sempre più stordito dalla piega che prendono gli eventi. Gli inquieti ragazzi della Sicurezza non fanno in tempo a inventare una balla che subito ne devono imbastire una nuova. Sembrano marinai a bordo d’una nave che cola a picco, tirano fuori acqua a più non posso, ma la falla è grande, irreparabile.
Yohandry Fontana è un altro giornalista del governo, uno che gli passano le veline e lui scrive, una sorta di Randy Alonso del web. Redige con cura la cronaca dell’arresto di due pericolosi criminali, Yoani e Reinaldo, catturati davanti all’ingresso di un tribunale dove - secondo il Granma - avrebbe dovuto svolgersi un pubblico processo. Cosa vuol dire pubblico in questo paese? Interpretazione autentica desunta dal blog della Sicurezza di Stato: si può seguire il processo da una stanza attigua, tramite schermo, non è possibile registrare, né fare riprese con telefonini o telecamere, sono ammessi solo giornalisti di provata fede rivoluzionaria. Mica lo sapevo. Mi sa che anche Yoani e Reinaldo non se l’aspettavano, altrimenti si sarebbero organizzati. Insomma, adesso li hanno rimandati a casa, senza la loro auto, sequestrata perché dicono non fosse in regola, dopo un lungo viaggio in compagnia di poliziotti, tra buche nel selciato e preoccupazione, in attesa di rivedere gli amici.
Ángel Carromero sarà condannato, il pubblico ministero ha chiesto sette anni, ma lo rimanderanno in Spagna, la morte di Payá sarà dichiarata un omicidio colposo da incidente stradale. Magari è pure vero, magari Carromero viaggiava troppo veloce, non si è accorto delle deformazioni della carreggiata e ha perso il controllo dell’auto. Magari è stata soltanto una maledetta disgrazia quella che ha privato Cuba di uno dei suoi uomini migliori. Magari. Ma allora perché tutto questo segreto? Perché la famiglia di Payá non può assistere al processo? Perché arrestano Yoani e Reinaldo e li rispediscono all’Avana? Domande senza risposta, cadute sulle lacrime della figlia Rosa, che - caso strano - non si è costituita parte civile contro Ángel Carromero, ma da tempo chiede con forza un’inchiesta internazionale per far luce sulla morte del padre.
Il teatrino è finito, compagni Ginarte, Rojas e Fontana. Resta il dramma, purtroppo. Niente a che vedere con Piñera ed Electra Garrigó. Questo è il dramma della nostra vita, dal 1959 a oggi, passando per Fuori dal gioco, Prima che sia notte e il Confesso di avere paura, molta paura d’un povero poeta solitario. Siete voi gli sceneggiatori del dramma, ma il soggetto è ripetitivo, pieno di luoghi comuni, scritto dagli stessi autori di sempre, interpretato da attori alla frutta. Come dice Varela, tutti vogliono vivere nel telegiornale, perché lì non manca niente, perché lì non serve denaro. E allora capita che questa maledetta circostanza delle acque che ci circondano da ogni parte mi faccia sedere a tavola, bere un caffè, tentare di scrivere un articolo per raccontare una vita di cui non comprendo più il senso. Ma devo viverla. Perché è la mia vita. E il mio posto non è fuori da Cuba ma in un’altra Cuba. Compagni poliziotti, dovete ancora vederne delle belle. Credetemi.
Alejandro Torreguitart Ruiz
L’Avana, 6 ottobre 2012
Traduzione di Gordiano Lupi