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Céline 
di Andrea Gratton
06 Ottobre 2012
 

Parigi, inverno 1943

 

L’Uomo dei Gatti vive due piani sopra il nostro. È un medico e un antisemita dichiarato. Si dice sia anche un collaborazionista, e non scommetterei un solo franco sul contrario. Un bastardo filo-nazista di cui non ci si può fidare. O meglio, uno da cui si può star ben certi non uscirà fuori nulla di buono. Come dalle sue pagine, per altro. Perché sì, l’Uomo dei Gatti, oltre che medico, è anche scrittore. Di certo uno tra i più letti in questo schifo di Francia occupata. Uno dei più pubblicati. Non fosse così misantropo e attaccabrighe, sarebbe un presenzialista perfetto. Una specie di clone di quel Drieu La Rochelle con cui, per altro, si prende ben poco. Ma ciò non conta. L’Uomo dei Gatti è un antisemita e un collaborazionista vigliacco. Il fatto che sia un medico e uno scrittore è un evento accessorio. Un dato di fatto che non sposta di un millimetro gli equilibri del problema. Così come è accessorio il fatto stesso che anch’io sia uno scrittore. Come l’Uomo dei Gatti. E che, a differenza dell’Uomo dei Gatti, io sia uno scrittore Resistente, come sostiene Sartre. Uno di quelli che lotta per cacciare la feccia dalla Francia. E questo no, questo non è un dato di fatto da poco. Così come non lo è il dato di fatto di aver impiantato una cellula di Scrittori Resistenti esattamente due piani sotto l’Uomo dei Gatti, antisemita e collaborazionista. Infingardo e delatore per necessità. Delle due, l’una. O lui, o noi.

La soluzione mi sembra chiara: l’Uomo dei Gatti deve essere eliminato.

 

Io li chiamo le Formiche. O, a volte, i Topi. Li chiamo così a seconda se mi identifichi in me stesso o se lo faccia in uno dei miei gatti. Perché sì, fossi io a doverlo fare, li schiaccerei con queste scarpe sfondate. Con la melma della loro linfa di Formiche che mi insudicerebbe i calzini di lana grossa e la pianta del piede. Fossero i miei gatti, invece, giocherebbero coi Topi fino all’ultimo. Spingendoli all’esasperazione. A ogni tentativo di fuga si piazzerebbero davanti, arrestando il loro fugace ed effimero desiderio di libertà. Instillando in loro il timore. La paura. Dall’esaltazione della possibile fuga al brivido della fine incombente. Il sudore freddo, che si forma quando il corpo passa da uno stato d’eccitazione a uno di panico inarrestabile. Come quando il bisturi cala freddo sul corpo caldo, e la risata del paziente si trasforma da isterica a rabbiosa. Facendosi poi silenzio disperato. Perché è in quel momento che il corpo inizia a parlare. E lo fa attraverso il sangue. Attraverso il sudore freddo. Che puzza, dio mio quanto puzza. Ma tant’è. E le Formiche, o Topi che dir si voglia, sono ancora lì.

Sono troppo pigro per giocarci. Troppo annoiato per schiacciarli. Troppo lucido per non sapere che mi vogliono ammazzare. Allo stesso tempo, sono troppo impegnato per impedirglielo e, perché no, in qualità di medico, troppo fatalista per modificare il corso degli eventi. Volessi farlo, basterebbe una chiamata a quelle Teste di Teschio della Gestapo, che in quattro e quattr’otto sarebbero qui, mettendo fine alla vita delle Formiche. O dei Topi, che dir si voglia. Li piglierebbero come si pigliano i pesci nella rete. Semplicemente allungando le mani. Niente di più facile.

Ma no, non sono un delatore. E di queste Formiche mi curo ben poco. Ho altro a cui pensare. Di certo non a dei Topi come loro.

 

L’Uomo dei Gatti non esce quasi mai, almeno stando a quel che dice la portinaia. La portinaia dice anche che l’Uomo dei Gatti la guarda in un modo strano. Che la saluta con sufficienza. Quasi con sospetto. La portinaia è la nostra cassetta delle lettere. Ogni comunicazione diretta alla nostra cellula passa attraverso le sue mani, così come ogni avvenimento sospetto passa attraverso i suoi occhi. Che poi riferiscono a noi. In questi giorni, l’Uomo dei Gatti è in cima alla lista degli osservati speciali. Quindi è normale si parli spesso di lui. Anzi, quasi sempre. Ci siamo seduti decine e decine di volte allo stesso tavolo cercando di capire se fosse giusto o meno ammazzarlo. Se la morte di uno scrittore antisemita e collaborazionista avrebbe portato qualcosa di positivo al movimento. Un segnale di forza. Una rivendicazione di potenza. E, perché no, anche solo una tacca in meno tra le decine e decine di intellettuali vichysti che popolano questa città e che, come mosche al miele, sono corsi a dare la loro disponibilità alle camice nere della Gestapo, prima ancora che queste la chiedessero. Prima ancora che le croci uncinate iniziassero a sventolare sulla città. La cultura e il talento non sempre sono sintomo di intelligenza. Se sei uno stronzo antisemita e un vigliacco collaborazionista, lo sarai anche con in mano la tessera di direttore della Nouvelle Revue Française o con quel cazzo di premio Goncourt, che se vincessi questa sera stessa ci sputerei sopra, così come sputerei in faccia a tutti quegli scribacchini che continuano a imbrattare i giornali vhichysti di Parigi.

Così come sputerei in faccia all’Uomo dei Gatti, se lo incontrassi sulla tromba delle scale. Se non sapessi che lo devo far fuori. Io o chi per me. Anche se, più se ne parla, più il dubbio cresce. Sembra che io sia rimasto uno dei pochi a volerlo ammazzare. Che ironia: tra scrittori si dovrebbe essere solidali, vero? Col cazzo, politica o non politica, antisemitismo o non antisemitismo, ci scanneremmo tutti come porci! Se potesse, e se davvero sapesse che lo voglio scannare, l’Uomo dei Gatti scannerebbe me. Solo perché sono uno scrittore. Solo perché sono un rivale. Solo perché, nelle notti d’insonnia, non lo lascio mai dormire.

 

La portinaia mi guarda in modo strano. Ha un occhio che sembra un occhio di vetro, ma non lo è. Quindi è un occhio sospettoso. Di chi sa di non essere completamente al sicuro. Di chi sa di aver qualcosa da nascondere. Topi, Formiche con ogni probabilità. La portinaia è una di loro, ne sono certo. Potrei dire che è la galoppina dei Topi e delle Formiche, ma non sarebbe corretto. La portinaia non si muove mai dal suo minuscolo gabbiotto, se non per scopare fuori la polvere, ricevere la posta, chiacchierare con la fioraia del negozio accanto. Quella che fa il mercato nero, e che vende gli scarti di carne per i miei gatti. Che se le autorità e le Teste di Teschio sapessero dei ritagli di manzo o del rognone utilizzato per finalità feline, simpatizzante o meno, passerei comunque un brutto quarto d’ora. Che ironia tragica! Picasso e “compagnie chantant” a ingollare Champagne e ostriche al Catalan, e io qui, a far la drôle de guerre per un fottuto pezzo di carne. In fondo, starsene fuori dalle rogne è roba da ricchi, ed è per questo che i Topi e le Formiche sotto di me ci sono dentro fino al collo.

Quando facevo il medico a Montmartre ho capito che la prima malattia è la povertà. Il resto viene di conseguenza. Un po’ come la sifilide, o lo tisi. O lo scolo e tutte quelle stronzate che vengono dietro all’essere poveri in canna e vivere in un quartiere lercio di una lercia città. La guerra non può far altro che aumentare la dose di caos. Quanto meno al suo apice. Ogni tentativo di ricondurre la popolazione all’ordine è inutile. La disparità sociale non è una causa, bensì un dato di fatto che non può che acuirsi. È come una linea retta, con due estremità ben definite. Due concetti fondamentali: chi era ricco prima di questa guerra del cazzo ora è più ricco, mentre chi era povero ora è più povero. E in mezzo? In mezzo ci stanno solo due categorie. I Topi/Formiche che cercano di sopravvivere fedeli a chissà cosa, e i morti. A chi andrà meglio, dio solo lo sa.

 

Ieri sera, dopo l’ennesima discussione, ho sbattuto i pugni sul tavolo e ho urlato contro i miei compagni. Devo aver svegliato l’Uomo dei Gatti, perché ho sentito qualcuno bestemmiare nella notte. Una bestemmia sincera, cruda, artistica. Da scrittore infuriato, svegliato nel bel mezzo della notte dopo ore passate a cercar di sconfiggere l’insonnia. Non credo avrebbe mai potuto immaginare di essere lui la causa di tutto quel casino. E quindi, in definitiva, della sua stessa bestemmia e della, molto probabile, ennesima notte insonne. La questione è molto semplice: ammazzare l’Uomo dei Gatti comporterebbe due cose. La prima sarebbe l’immediata ritorsione della Gestapo su qualche disgraziato prigioniero politico. La seconda sarebbe lo smantellamento immediato della cellula, con tutto il suo armamentario di pubblicazioni, opuscoli, fascicoli e legami politici. In definitiva, stando ai miei compagni, troppe perdite per un bastardo antisemita in meno. Ho provato a spiegar loro che un simbolo resta sempre un simbolo, ma mi hanno risposto che l’Uomo dei Gatti è un simbolo da poco, e che se davvero volessi far fuori qualche scrittore collaborazionista la lista sarebbe piena. A partire da Drieu fino ad arrivare a Maurice Sachs, ebreo e omosessuale, eppure informatore smaliziato della Gestapo. Insomma, perché accanirsi con l’Uomo dei Gatti che a Montmartre, poi, giurano essere un pezzo d’uomo. Solo un po’ toccato. Solo un po’ assurdo. Anarchico di destra. Antisemita più per fissazione (dicono che un ebreo gli abbia rubato la donna della sua vita) che per reale tendenza.

A sentir quelle parole, però, non ci ho più visto. Come potevano sminuire la portata dell’Uomo dei Gatti? Il suo antisemitismo? Il suo essere un intellettuale collaborazionista della peggior specie. “Calmati, Roger!” mi dicevano. Calmo un cazzo, avevo risposto sbattendo i pugni sul tavolo. Dal terzo piano erano giunte le bestemmie dell’Uomo dei Gatti, che avevano interrotto quell’acceso scambio di idee rimandandolo a data da destinarsi. Quanto meno a livello intellettuale. Perché l’Uomo dei Gatti non è l’unico scrittore folle e anarchico di questo mondo. E, stando a quel che mi dicono, a differenza mia non viaggia con la rivoltella carica nella tasca del paletot. E non inizierà certo a farlo domani, a causa di una stupidissima notte insonne.

 

Una leggenda metropolitana che gira nei salotti buoni di quella testa vuota di Drieu La Rochelle vuole che, all’indomani dell’Operazione Barbarossa, un certo gruppo di intellettuali di sinistra si sia trovato in uno dei soliti bistrot da ricchi borghesi per festeggiare la fine della guerra. Ora, ogni buon francese sa che, da Napoleone in poi, addentrarsi in Russia non è mai una buona idea. Tanto più con l’idea di una guerra lampo, ché l’animo russo è quanto di più lontano possa esserci da una Blitzkrieg! Solo, mi stupisce che delle persone che la guerra non l’hanno mai vissuta (immersi tra caviale e Champagne e ricevimenti e feste varie) ne festeggino la fine. In fondo, si festeggia sempre ciò che si vuole. L’alcolizzato trova mille motivi al giorno per festeggiare. Così come l’oppiomane. Non mi stupisce che accada lo stesso per un borghese dell’Intellighenzia di sinistra. Chi vive del suo ego, del suo ego si nutre. Agli altri restano i ratti e gli scarafaggi.

I pochi soldi che ho fatto con i miei libri li ho nascosti bene. Di certo non in Francia, dove tutto è sulla bocca di tutti anche se la gente continua a illudersi del contrario. Vivo uno stile di vita sobrio. Inelegante. Approssimativo. Scopo quando voglio scopare, e lo faccio con discrezione, con ragazze che non rubo ad amici o sodali. E che difficilmente provocherebbero reazioni scandalistiche se venissero viste al mio fianco. Al massimo la gente direbbe “guarda quel vecchio con che pezzo di fica gira!”. Ma non durerebbe molto. Forse nemmeno mi muoverei dalla stanza da letto, ché se Lili si figurasse concretamente di vedermi scopare in giro, dubito la prenderebbe bene. E non si limiterebbe, come quella Formica di scrittore fallito che ho incontrato oggi sulla tromba delle scale, a farmi una faccia schifata, scostante, sdegnata. Mi piglierebbe a calci in culo fino a Londra, a baciare le chiappe di De Gaulle! E invece no, il Topo frustrato mi ha guardato negli occhi con odio, senza sapere che io sapevo. L’ho visto stringersi nel suo cappotto da fichetta. Infilare le mani nelle tasche. Inturgidirle in un modo quasi virile. Io gli ho ceduto il passo, come si fa con gli stronzi. Lui ha esitato, rigido nel suo paletot, che sfigurava al contrario con il mio cappotto liso e bisunto. Dopo di lei, ha detto. Io non ho insistito e sono salito in casa. La Formica, rigida nella sua aria scostante, si è mossa dopo di me, diretta verso le strade maleodoranti di Parigi.

 

Oggi ho incrociato l’Uomo dei Gatti. L’ho incrociato sulle scale, poco prima dell’androne. Stavo uscendo di corsa, con dei documenti importanti nascosti sotto la camicia. Lui stava salendo, molto probabilmente diretto verso il suo appartamento. Appena l’ho visto gli ho dedicato uno sguardo d’odio che lui ha colto, ne sono sicuro. Non sono riuscito a trattenermi, e forse avrei dovuto. La seconda reazione è stata infilare le mani nelle tasche. Con una a tastare la rivoltella. Con l’altra a stringere allo stomaco i documenti. L’Uomo dei Gatti mi ha ceduto il passo, non so se convinto dal mio sguardo o dalla foga con cui mi ha visto scendere. Io ho esitato un attimo. Lo hai in pugno, Roger, mi sono detto. Un colpo al cuore, uno solo. Il proiettile che gli fora il cappotto e tanti saluti. E poco importa il clamore, poco importa lo scandalo! La nostra cellula verrà smantellata comunque, prima o poi, tanto vale essere sempre in movimento. Sempre in attività. Un antisemita in meno è meglio di un silenzio di circostanza. Che non si sa mai fin dove si spinga a lambire la paura. A sfiorare la vigliaccheria.

Lo hai in pugno, Roger, mi sono detto. E ho stretto la rivoltella, che era fredda dell’inverno parigino. Rigida, gelida, pronta a dare la morte a un bastardo a pochi passi da me. L’esplosione sorda. Il sangue che si raggruma sulla tromba delle scale. La folla che arriva a singhiozzo, giusto il tempo di salire in casa, svuotarla di tutti i documenti compromettenti rimasti e scappare. Lo hai in pugno, Roger, mi sono detto. Un colpo al cuore, uno solo. E invece no, la mia bocca ha modulato solo un inutile “dopo di lei”. Un’inutile e banale cortesia per uno degli scrittori che più disprezzo a questo mondo. Che più odio. Lui non ha esitato ad accogliere l’invito, ed è salito in casa, senza dire una sola parola. In strada ho stretto di nuovo la rivoltella. Era calda e pulsante, ora, della mia mano destra, che l’aveva avvinghiata fino a pochi istanti prima. Lo avevi in pugno, Roger, mi sono detto. Lo avevi in pugno…

 

A volte mi chiedo cosa mi spetterà di tutto ciò. Voglio dire, che guadagno potrò ottenere dal mio non aver preso una posizione ufficiale nei confronti dei nazisti. Nel mio essermi rifiutato di farlo anche con i suddetti Topi e Formiche resistenti. È un pensiero che dura poco, però. L’attimo di una riflessione veloce. Poi un bicchiere di vino scaccia tutto, e torno a fregarmene altamente. C’è un errore di fondo, tanto nei Topi quanto nei collaborazionisti: io odio gli schemi, la praticità, le caselle! Siano esse derivanti da un’idea piuttosto che da un’altra. Ho visto un sacco di gente morire crivellata nella prima guerra mondiale. Il sangue gli usciva dalle pance come vino dagli otri. Zampillando a tratti e bagnando il terreno sottostante. Ci ho quasi perso un braccio, in quella guerra, mentre ci ho guadagnato un’insonnia cronica. Ecco perché le sento, le Formiche. Si muovono silenziose di notte, e non capiscono che il silenzio forzato è più rumoroso di qualsiasi urlo! Fossi uno delle Teste di Teschio li avrei beccati già da un bel po’, ma questa è un’altra storia.

Le pance crivellate! Quelle stesse pance che poi si gonfiavano di povertà e vermi, e finivano a Montmartre, o chissà dove, nei quartieri squallidi e sporchi, dove si andava al creatore per un nonnulla, tra sofferenza e degrado. È proprio da qui, da quest’esperienza di mani di medico ficcate nelle pance gonfie dei poveri (la pancia purulenta della società occidentale!), che nasce il mio rifiuto per l’ordine. Questa strana anarchia bastarda che è solo mia e di nessun altro. Non di Bakunin, non di Stirner o di chi più ne ha più ne metta. La mia anarchia si risolve in chiave ironica, disincantata. Che poi è la sola risposta che si può dare alla follia della vita. La sola cosa che conti in questa sciacquatura rivomitata all’infinito che chiamano Novecento. E che per me non è nient’altro che l’eterno ritorno del già visto. Del già vissuto. Del già annusato. I miei gatti fanno la spola tra il letto e la scodella del cibo tutto il giorno. Ecco, è quello il solo eterno ritorno che riesco ad apprezzare. L’eterno ritorno del felino al cibo e al riposo. Il resto sono solo cazzate. Che non meritano l’attenzione di nessuno. Che non competono a un medico-romanziere squattrinato. Piuttosto a un Drieu La Rochelle qualsiasi. O a un Topo romanziere, pronto a dar prosa della sua vita da Formica. E a vincerci, sai mai che non succeda, un Goncourt!

 

Robert apre di colpo la porta dell’appartamento, gettando a terra il tascapane. Con lui c’è ******, che si trascina barcollando. Inizialmente non siamo riusciti a capire cosa stava succedendo, poi Robert ha urlato di chiudere la porta e così è stato.

– La Gestapo ha beccato****** – dice Robert. – Lo hanno fermato e interrogato, ma non aveva nulla da dire o da consegnare. Così lo hanno massacrato di botte, tanto per divertirsi.

****** se ne sta a terra come un animale ferito. Perde sangue dalla mano e dal braccio, lacerati da chissà quale arnese. Ha il volto tumefatto. Gli zigomi e le orbite degli occhi gonfie e bluastre. Ha anche del sangue rappreso sui capelli, ma non sembra essere ferito alla testa. Deve essersi portato le mani insanguinate al capo, per proteggersi. Così il sangue si è impastato col cuoio capelluto, seccandosi poi al rigido freddo della sera parigina. Il risultato è una maschera macabra, con i capelli neri appiccicati al viso di ****** come ai volti delle statue africane che tanto ispirarono Picasso.

– Non possiamo portarlo in ospedale, – continua Robert in una specie di apnea nervosa – né lasciarlo in questo stato!

****** è a terra, perde sangue in maniera copiosa. Il sangue inzuppa il pavimento della stanza, tanto che qualcuno corre subito ad asciugare il tutto, ché non ci sarebbe nulla di cui stupirsi se iniziasse a filtrare e inzaccherare il mezzanino.

– Cosa facciamo? – prosegue Robert sempre più agitato, mentre ****** è lì lì per perdere i sensi. – Non conoscete nessun cazzo di medico qui vicino? – urla.

– Sì, – rispondo io – uno lo conosco, ed è anche a due passi da qui…

– E chi cazzo è? – sbotta Robert, quasi sollevato.

– L’Uomo dei Gatti – rispondo.

– L’Uomo dei Gatti?

Già, l’Uomo dei Gatti, quello che un paio di giorni fa avevo in pugno.

Quello che avrei ammazzato a sangue freddo, sulla tromba delle scale di questo stesso palazzo.

Quel bastardo antisemita e collaborazionista del dottor Destouches.

 

È stata la portinaia ad aprire l’ambasceria. Ha bussato alla mia porta con fare concitato e, allo stesso tempo, umile. Dei signori vogliono parlarle, ha detto. Non ho fatto in tempo a risponderle che tre Topi erano già dentro mentre lei, ovviamente, aveva chiuso la porta e si era dileguata. Uno dei tre era quella Formica incrociata sulla scale. Quello che mi aveva ceduto il passo, dopo che io lo avevo fatto a mia volta. Quello che mi aveva guardato con fare di sfida e superiorità, rigido come uno stoccafisso nel suo paletot da fichetta. L’altro Topo era un uomo pressappoco della mia età, nervoso, sudato, con la voce squillante e i modi decisi e diretti. Il terzo Topo, invece, sembrava messo male. Era inzuppato di sangue su tutta la parte destra del busto, con la mano e il braccio completamente coperti da quella pellicola rossa e appiccicosa che è il sangue rappreso da diverse decine di minuti. Aveva anche i capelli impiastricciati, tanto che mi sembrava un mimo, o un attore di cabaret. Non che ci fosse nulla da ridere, intendiamoci, ma il viso pallido e smunto, ai limiti dello svenimento, e il sangue rosso e brillante come zucchero davano davvero uno squilibrio cromatico notevole. Acuito, per giunta, dalla luce fioca dell’inverno e dalla candela da quattro soldi che illuminava l’ingresso dell’appartamento. Inutile dire che i miei gatti, infastiditi da tutto quel trambusto, avevano riparato in camera in men che non si dica. Portatelo nel mio studio! avevo detto, anche se più che uno studio è un vecchio sgabuzzino, ma tant’è. La Gestapo lo ha ridotto così, ci aiuti! aveva detto il Topo nervoso. Io lo avevo guardato con curiosità. È un medico, è un suo dovere farlo! aveva aggiunto la Formica da quattro soldi. Non ho mai pensato di comportarmi diversamente, avevo risposto.

Le Teste di Teschio non avevano fatto certamente un lavoro di cesello, ciò non toglie che il Topo che avevano massacrato non era messo poi così male come avevo sospettato in un primo momento. La mano e il braccio squarciati andavano disinfettati e puliti, magari qualche decina di punti di sutura per facilitare la cicatrizzazione. Roba da poco, più spavento che altro. Roba da buoni borghesi non abituati al sangue. A Montmartre avevo visto un uomo presentarsi a casa mia con le sue gambe, reggendo il braccio mozzato di netto da una carrucola di ferro. Era intriso di sangue dalla testa ai piedi. Come Sigfrido, quando si immerge nel sangue del drago. Mentre gli ricucivo la ferita come un calzino si era ficcato in bocca un pezzo di legno, per stringere i denti e non urlare dal dolore. Se lo toglieva solo di tanto in tanto, per gettarsi in gola acquavite da due soldi, che usavo anche per disinfettare il tutto. Se non il braccio, quanto meno ero riuscito a evitare la cancrena e a salvargli la vita.

Avevo detto alle due Formiche di portarmi qualche alcolico potente, per me e per il loro amico. A me serve per scaldarmi, avevo aggiunto. Al vostro amico per sentire meno il dolore. Avevano eseguito senza protestare troppo. In una ventina di minuti la Formica accartocciata dalle Teste di Teschio era bella che ristabilita, e con una sbronza eroica e amicale che, tra patriottismi di quart’ordine e canti della Marsigliese, l’aveva portato a chiamarmi “mon sauveur!” e cazzate simili. Con le Formiche ci eravamo salutati sulla soglia del mio appartamento. Non serve che le dica che questa cosa deve restare tra noi, aveva detto la fichetta del paletot prima di accomiatarsi. Vale ciò che le ho detto prima, avevo risposto, non ho mai pensato di comportarmi diversamente.

 

Parigi, inverno 1957

 

Di solito, quando si sale su un palco a ritirare un premio, le sensazioni sono duplici. Da una parte vi è la sorpresa nel riceverlo, lo stupore, l’eccitazione, il senso di smarrimento (perché sì, perché se si può essere anche intimamente certi di meritare un riconoscimento, quest’ultimo diviene tale solo nell’attimo della consegna!). Dall’altra la sensazione di finitezza, di percorso che giunge al termine, di conclusione di una stagione della propria esistenza. Ieri sera, nel ritirare il Premio Goncourt, non ho provato né l’una né l’altra. Sono salito sul palco senza essermi figurato mentalmente alcun discorso, ho stretto mani, incrociato sguardi, distribuito sorrisi a trentadue denti. Ho bevuto coppe di Champagne, conversato amabilmente con colleghi scrittori e accademici, scambiato battute con le loro mogli. Ho parlato del mio romanzo, mangiato qualche tartina, fumato alcune sigarette nel fumoir dell’Academie. Qualcosa, però, mi era rimasta conficcata tra la gola e la mente per tutto il corso della serata. Qualcosa a cui non ero stato capace di dare un nome. Quanto meno fino a oggi quando, sfogliando il mio vecchio diario parigino della Resistenza, ho capito di cosa si trattasse: l’Uomo dei Gatti, il medico Destouches. Per gli accademici del Goncourt, Louis-Ferdinand Céline.

È stata tutta “colpa” di un vecchio professore dell’Academie, un po’ brillo di Pernod, incrociato nel fumoir prima di salire a ritirare il premio. Mi si è avvicinato barcollante, brandendo sigaro e bicchiere a mo’ di scudo e spada. Dopo avermi riconosciuto, mi ha detto che per lui quella sera non c’era nulla da festeggiare, se non il fatto che era il venticinquesimo anniversario della non-consegna del Goncourt a Céline. Io l’ho guardato un po’ stupito, confuso da un’affermazione del genere.

– Venticinque anni fa, un quarto di secolo che sembra ormai più di una vita, usciva “Viaggio al Termine della Notte”! – aveva continuato. – Snobbato e bistrattato dall’Academie!

– La gente si è scordata ben presto di tutto ciò. Eppure a me continua a pesare come un macigno quella non-consegna. Quel premio negato a una delle più grandi opere della letteratura francese!

– Chissà che starà facendo, ora, Céline? – aveva detto l’accademico alticcio sbuffando fuori il fumo del suo sigaro. – Chissà come se la passa?

Il giorno dopo ho ripreso in mano il vecchio diario parigino della Resistenza e, in parallelo, “Viaggio al Termine della Notte”. Ho riletto alcuni passaggi dell’uno e dell’altro, ritrovando quelle discrepanze che mi era sempre parso di leggere tra la scrittura di Céline e le sue azioni. O meglio, tra la mia personale rilettura delle sue azioni come individuo. A un certo punto mi sono ritrovato di fronte il passaggio in cui io e Robert gli siamo capitati in casa con ****** sanguinante e semisvenuto. Ecco, forse è stato proprio in quel passaggio che Louis-Ferdinand Céline alias il dottor Destouches alias l’Uomo dei Gatti mi è sembrato esser balzato letteralmente fuori da un suo romanzo. E aver preso forma nella vita reale. L’ho riletto decine e decine di volte quel passaggio. La nostra concitazione, il sangue rappreso di ******, la faccia impassibile di Céline, la richiesta dell’acquavite, la disinfezione delle ferite, le suture. E poi ****** ubriaco che canta la Marsigliese e abbraccia Céline mentre lui, impassibile come prima, ci accompagna all’uscio per poter tornare a occuparsi di Lili e dei suoi gatti.

Prima di salire a ritirare il premio, nel fumoir accanto all’accademico brillo, avevo dato le ultime boccate alla sigaretta.

– Lo sa che quindici anni fa avrei potuto uccidere Céline? – ho detto. L’accademico era sbiancato, quasi soffocandosi con il Pernod.

– Esattamente sulla tromba delle scale di un palazzo parigino, nemmeno troppo distante da qui!

– Già, – avevo continuato gettando a terra la sigaretta e schiacciandola con il piede destro prima di salire sul palco – chissà come se la passa Céline?

 

Meudon, inverno 1958

 

Quando dei tuoi fan vengono a farti visita non è mai un bene. Vuole dire che sei lì lì per crepare e che i suddetti fan, soppesate le tue possibilità di sopravvivenza con quelle che te ne vada prima che loro possano parlarti o stringerti la mano o chiederti un cazzo di autografo, hanno capito che sono assai superiori le seconde. E così hanno deciso di farti visita. Quando ti bussano alla porta con quell’aria inebetita di bambocci che hanno appena visto un pezzo di fica, sono quasi convinti di tributarti degli onori degni di una star del cinema. In realtà ti stanno solo dicendo che stai per crepare. E tu, manco ne fossi all’oscuro, pensi: “cazzo, è ufficiale: sto per crepare!”. Ma tant’è.

Questi due sono americani, ma non ne hanno affatto l’aria. Il primo, quello un po’ più vecchio (comunque sempre un ragazzino in confronto a me!) ha girato mezzo mondo e parla un francese un po’ bastardo, ma comprensibile. Dice di essere uno scrittore e un oppiomane, non necessariamente in quest’ordine. Ha scritto alcuni “romanzi” (usa questa parola con sospetto, e ha ragione di farlo!) e sta lavorando a un nuovo libro che, mi confessa quasi con timidezza, sarà un inevitabile successo. Buon per lui, penso, il “successo” nel mio caso, mi ha solo regalato un paio di coperte in più sulle gambe e una casa senza riscaldamento. Il secondo, quello un po’ più giovane, dice di non essere mai uscito dagli Stati Uniti, eppure di aver girato un sacco. Come barbone, come viandante, come poeta ebreo, come checca sfranta e folle allucinato dalle droghe. E parte così in una specie di recitazione poetica improvvisata, con gli occhiali calati sul naso a trequarti, che gli incorniciano la bocca e la lingua, che entra ed esce dalle labbra come un sanguinaccio, sputacchiando e alzando la voce con un fare attoriale degno della miglior Arletty. Anche lui ha da poco pubblicato il suo primo libro. Dice che non sta vendendo molto, ma il fan un po’ più vecchio dice che sono tutte cazzate, e che il suo poema ha cambiato il modo di intendere la poesia novecentesca. Quello un po’ più giovane arrossisce e si blocca. Per fermare un artista, spesso, bastano i complimenti sinceri di un amico.

Sono strani, questi due. Mi fissano come se fossi una specie di cavia incrociata con una divinità polinesiana. Sì ragazzi miei, sono un vecchio decrepito, che si affida a puttane vecchie e decrepite e che vive in una casa vecchia e decrepita, con un riscaldamento inesistente e delle coperte insudiciate di peli e pisciate di gatto. Ché anche i miei gatti sono vecchi e decrepiti, perché tutto ciò che viene sfiorato dalla vecchiaia si fa vecchiaia a sua volta. Tranne, forse, le parole. Tranne, forse, la scrittura. Perché sì, perché scrivendo mi sento di nuovo un ragazzino che non sta schiattando, alla faccia vostra, spiritelli che mi dormite sornioni sulle spalle in attesa di portarmi via!

I due mi fanno una marea di domande. Mi chiedono di “Morte a Credito”, di “Viaggio al Termine della Notte” e di un sacco di altre cose che ho scritto. E che a stento ricordo. Ogni domanda porta con sé la riflessione non detta. La constatazione che fa male. “Se hai scritto dei capolavori del genere, vecchio Céline, come cazzo hai fatto a ridurti così?”. Cari miei, e che vi posso dire? Che la costruzione narrativa non dà grano? Che i bivi della vita sono bivi bastardi, e che tu inizi col fare il medico dei poveri, passi quindi a fare il malato, il sospetto collaborazionista, l’antisemita per anarchia sociale, lo scrittore di capolavori, l’esule in Danimarca. Finendo poi per trovarti in una cittadina dieci chilometri fuori Parigi, senza un soldo e con decine di animali per casa. E la sola consapevolezza che sì, che tutto è stato troppo veloce, e che quel vecchio viaggio al termine della notte del quale ora mi chiedete conto, dopotutto, è quasi giunto a compimento.

Manca poco, vecchio Céline!” sembrano dirmi questi due con i loro occhi puntati su di me. “Manca poco!”. Già manca davvero poco. Manca il tempo, cari miei. Manca il fiato della vita. Manca il calore. Mancano i soldi. Mancano i premi (ma di quelli me ne sbatto). Mancano i diritti d’autore. Mancano le scopate. E manca anche la Parigi del 1943. Quella Parigi strana, in una guerra strana, in quel vecchio, strano, appartamento. Manca poco, cari miei. Manca sempre meno. Quasi non manca nulla. Nulla più. Sempre meno.

E arriverà la notte.

E allora, davvero, non mancherà più nulla.


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