segue dalla puntata precedente...
Ma non diede alla cosa eccessiva importanza e, spenta la luce, si addormentò ancora felice per aver trascorso una bella serata assieme a i suoi amici più cari.
Passarono due settimane e Mirco non aveva più visto e nemmeno sentito Federico da quella serata. Era stato a bere il caffè da Sandra soltanto due volte. In quelle occasioni lo rassicurò che tra lei e il suo amico tutto procedeva per il meglio e che continuavano a frequentarsi felicemente, senza alcun problema in vista all’orizzonte.
Tuttavia, non le avevo creduto, forse per una specie di sesto senso, ma più probabilmente perché i suoi occhi erano sempre più bui e antichi, remoti, lontani.
E la sua cordialità e disponibilità a parlare di quel rapporto gli era sembrata troppo eccessiva, per una persona scontrosa come Sandra che si ritrova davanti un tipo irascibile come Mirco.
Prese quindi la decisione di chiamare Federico e si accordarono per incontrarsi quello stesso pomeriggio al bar dove andarono la prima volta che si conobbero.
Mirco si sentiva agitato, spaventato. E purtroppo i suoi timori furono confermati non appena vide arrivare l’amico che si sedette davanti a lui.
I suoi occhi infatti, come temeva, erano due buchi neri e dalle sue pupille non sembrava sgorgare la vista, ma il nero dello spazio oltre il nostro cielo, una notte così insaziabile e penetrante era quella che doveva esserci prima della creazione, più antica di ogni specie vivente e di ogni fede. Era una notte come qualcosa di solido e reale, intrisa di un buio che andava molto oltre alla semplice assenza di luce. Mirco lo sentiva quel buio mentre gli sfiorava la pelle, lo cercava e si spostava esplorandolo nell’anima attraverso gli occhi del suo amico. Era qualcosa di vivo che si comportava come il maestro di una setta. Infine, gli scivolò nei polmoni, dietro gli occhi e in bocca, alla fine gli scorreva nella mente chiamandolo adepto.
Mirco, ormai, non aveva più dubbi: tutto doveva essere collegato. Qualcosa gli stava cavando dalla bocca l’aria che stava respirando. Sentiva il palpitare della paura nel cuore dell’amico che si sforzava ad ogni costo di nasconderla. E voleva sapere in quale tipo di guaio si erano andati a cacciare i suoi amici. Anche se ormai immaginava bene di cosa potesse trattarsi.
– Ciao, è da un po’ che non ti vedo. Come stai? – Federico chiese con finta innocenza accorgendosi di come Mirco lo stava guardando.
– Io bene, perché come mi trovi? – Voleva fingere di stare al gioco.
– Benissimo. So che sei stato qualche volta da Sandra per farti leggere il futuro dal culo di una tazza. Insomma, sei sempre lo stesso no?
– Certo che lo sono. E tu invece?
– Cosa vuoi dire?
– Non lo so cosa voglio dire. Dovresti essere tu a dirmelo, ma so che sono bastate due settimane. Cosa c’è?
– Niente. E cosa dovrebbe esserci?
– I tuoi occhi sono diversi. Tu sei diverso.
– E allora? Scusa, ma si può sapere che vuoi? Va bene, sono cambiato, ma chi ti dice che non stia meglio adesso? Senza la mia stupida collezione, senza bisogno di seguire delle persone per fare una semplice passeggiata.
– Hai smesso di fare la collezione? – Rimase interdetto.
– Si ho buttato via tutto. Tutto!
– Ma non era per niente una cosa stupida.
– Sì che lo era. Almeno quanto lo sei tu. Ma non ti vedi, con tutte quelle paranoie che hai sul senso delle cose e sul futuro? Ma se delle volte non sei nemmeno capace di parlare dal casino che hai in testa. Dici che sono cambiato. Va bene, ma in base a che cosa? In base a te, ai tuoi gusti? Mi preferivi prima? Scusa, ma che vuoi? Ti conosco appena.
– D’accordo, ma credevo fossimo amici…
– Amici un cazzo! Le cose per te hanno un senso solo se sono disposte come vuoi tu, ma il problema serio è che non sai nemmeno tu come metterle. Perciò non sei proprio la persona più indicata per dire cosa e giusto e cosa no.
– Fermo! Ok hai ragione, ci conosciamo da troppo poco. Queste cose te le ha dette Sandra vero? Non ci sei arrivato da solo. Quindi…
– Ma non capisci proprio, vero? Basterebbe parlare la stessa lingua. – E dicendo così si alzò e se ne andò senza voltarsi.
Mirco rimase ammutolito, come il bicchiere di Biancosarti che stava davanti a lui muto, intonso e con la faccia di uno che ha tanta voglia di sfotterti, ma che si trattiene dal farlo.
Adesso gli frullavano in testa mille domande che iniziavano tutte con un perché. E le risposte erano tutte lontane anni luce. Alla fine di ogni suo pensiero si faceva strada un senso di colpa che lo inchioda ancora di più alla sedia di plastica di quello stupido bar dove i camerieri si agghindano con tanto di divisa, senza che poi si preoccupassero di tenerla pulita. Mirco vorrebbe alzarsi e andare da loro per sussurrargli in un orecchio “Ma chi cazzo te lo fa fare?”, vorrebbe farlo così, tanto per fare qualcosa. Sottolineare magari che tutto, oltre ad essere collegato, era anche assolutamente assurdo.
Già, “Ma chi cazzo te lo fa fare?” potrebbe dirselo anche a se stesso.
E lo fece, infine. Nel profondo della propria mente, lo fece.
In fin dei conti, quello che Federico aveva detto su di lui era vero. E il fatto che ci fosse arrivato da solo o che glielo avesse detto Sandra era di poca importanza. Però era anche vero quello che gli aveva detto lui. Qualcosa era cambiato nel suo amico, non c’era ombra di dubbio, anche se non riusciva a dire cosa. Federico gli era sembrato più lontano, come nascosto dietro ai suoi stessi occhi perduti. Nelle sue pupille aveva visto una notte ancestrale, selvatica, animale, cacciatrice, come doveva essere un attimo prima che il primo raggio di luce la illuminasse.
Molto probabilmente però si trattava solo di un’antipatia riflessa che aveva finito col contagiare Federico. L’ultima scenata che aveva fatto, doveva avere toccato Sandra più profondamente delle altre e, trovandosi a parlarne con lui, magari sotto le lenzuola, dopo avere scopato un intero pomeriggio, doveva avergli trasmesso il fastidio che nutriva nei suoi confronti, doveva avergli passato le sue ferite. Col risultato che adesso erano più lontani entrambi. Doveva essere andata proprio così. Nonostante l’aspetto di quegli occhi tanto inquietanti.
È vero: non è facile starmi vicino, si disse Mirco avvolto da un senso di inutilità sempre più soffocante. Peccato però. Poi si alzò e se ne andò via, il più lontano possibile da quello stupido bar.
Era sicurissimo di aver perso il suo amico, anzi di averli persi entrambi, sia Federico che Sandra, un po’ per colpa sua, un po’ per colpa loro, per destino e per sfiga. Fu allora che inaspettatamente il cellulare cominciò a suonargli dalla tasca del giubbotto.
Stava ritornando a casa e passeggiando sentiva l’amarezza crescergli dentro, per tutto il corpo, fino a gonfiarlo, a spaccarlo, la poteva percepire mentre traboccava dalle crepe della sua persona strappata per raggiungere il cielo, su fino allo spazio stellare, e allo stesso tempo giù nelle profondità magmatiche della terra, per espandersi, svilupparsi, evolvere in quel ribollire di opposti da cui la vita stessa aveva avuto origine. Una volta, tanto tempo fa, eravamo microbi. Questo era la vita: solo tempo che passa. Storia che si ingrassa.
Il cellulare intanto continuava a suonare e Mirco lo guardava, sul display era comparsa la scritta Federico.
– Pronto?
– Pronto Mirco, ti prego scusami per prima.
– Non è niente. – Ma non ci credeva nemmeno lui, anche se in fondo non era colpa di nessuno. Oppure lo era di tutti.
– È la storia che ingrassa dentro un microbo amaro. – Sentenziò Mirco oscuramente.
Nessuno dei due parlò più e solo dopo qualche secondo immobilizzato dal silenzio Federico si decise a riprendere la parola.
– Bello, non c’è che dire. A volte penso che potresti essere un bravissimo poeta. – E cominciò a ridere di gusto come sapeva fare lui quando doveva sdrammatizzare qualcosa.
Mirco non capiva come, ma in lui era netta, precisa la sensazione che Federico avesse compreso per filo e per segno tutto il nebuloso ragionamento che stava dietro a quella frase.
Decise comunque di lasciarsi alle spalle tutto quel grumo di diffidenza in vista di una possibile riappacificazione.
Anche lui allora si riversò in una grossa risata liberatoria come già avevano fatto entrambi, tempo indietro, poco prima di una splendida serata.
– Già, un poeta da premio Nobel. – Scherzò anche Mirco.
E anche questa volta Federico sembrò leggergli nel pensiero e capirlo appieno, persino oltrepassando le parole che l’amico aveva pronunciato. Sembrava gli stesse guardando i ricordi che aveva in testa.
– Senti questa sera suonano di nuovo i Tribal crash al Pitekko. Perché non vieni anche tu, l’altra volta ti eri divertito tanto. E siamo stati bene, tutti assieme.
– Già, tutti assieme. Sandra che ne dice del fatto che possa venire anch’io? Ultimamente non mi sembra di essere nelle sue grazie, ad essere sinceri.
– Proprio per essere sinceri, è stata lei a suggerirmelo, quando le ho raccontato del litigio di poco fa, e mi sento uno sciocco per non averci pensato io, prima.
– Bravo, grazie per la riservatezza!
– Avanti su, gliene ho parlato perché ero dispiaciuto per come erano andate le cose e non per dir male di te. Non essere così permaloso.
– Va bene, d’accordo vengo anch’io.
Non ne aveva la minima voglia di risentire tutta la confusione e lo strazio delle urla di quel gruppo, ma in fondo era l’unico modo che aveva per riavvicinarsi a due amici che temeva di perdere.
Di nuovo, tra di loro fu il silenzio a farla da padrone per un lasso di tempo che a Mirco parve infinito, e di nuovo fu Federico a romperlo.
– Tribal crash eh?
– Già… Che nome del cazzo!
E ancora una volta scoppiano a ridere, entrambi ricordandosi di una battuta di due settimane fa e contenti per essersi riavvicinati almeno un po’.
L’appuntamento era per le dieci e trenta davanti all’ingresso della discoteca e si sarebbero incontrati là, come l’altra volta.
– Ti farò vedere una cosa. Non è un gruppo tanto stupido come può sembrare. A questa sera, allora.
– A questa sera, ciao. Ma se fossi in te, non sarei troppo ottimista sui miei ripensamenti musicali.
Quando si incontrarono, il concerto era appena iniziato e dall’ingresso giungevano quegli affannosi ululati senza senso che Mirco temeva proprio di risentire. Sarebbe stata una serata piena di imprecazioni contro il creato anche quella. Era sorta in lui una tremenda voglia di ritornarsene a casa e si cullava nel dubbio di non potersi riavvicinare a quei due in quel posto talmente chiassoso. Ma purtroppo non ebbe modo di esprimere i propri pensieri.
– Forza sbrighiamoci, siamo in ritardo. – Incalzò Federico prendendolo a braccetto.
Questa sua frenesia però sembrava strana, dopotutto qualche minuto di ritardo non sarebbe stato così drammatico per nessuno, neanche per il fan più sfegatato di quell’accidente di gruppo. D’accordo che, come aveva avuto modo di constatare la volta precedente, a Federico quel tipo di concerto era piaciuto, ma Mirco non credeva sino al punto da farlo fremere con così tanta impazienza. Anzi, a essere sinceri del tutto, all’inizio molto semplicemente aveva creduto che di quel concerto non gliene importasse proprio niente e ci fosse andato solo per piacere a Sandra. Evidentemente Mirco si accorse ora di essersi sbagliato.
Federico lo trascinò subito in pista a ballare, facendosi largo a spallate per raggiungere il centro della pista dove Sandra si stava scalmanando.
– Asai monc trai siant. – Gridava il gruppo.
– Asai monc trai siant. – Gridavano le persone, Sandra compresa.
Federico invece no e, alla fine del primo brano, chiese a Mirco di accompagnarlo in bagno. Sulle prime questi pensò che finalmente volesse confessargli il suo disinteresse per quelle cose, privatamente, cioè senza che Sandra sentisse, nel posto più silenzioso della discoteca. Credeva volesse parlargli della loro amicizia e chiarire ogni malinteso, magari dirgli cosa lo angosciava tanto da avergli ridotto gli occhi a quel modo.
Invece, quando entrarono nel bagno, dalla sua mano spuntarono due piccole pastiglie rosa pallido e punteggiate di rosso, con impressa sopra la sagoma di un monaco.
– Tieni. Una per te e una per me. – Disse.
– Droga? – Esclamò l’amico esterrefatto.
– Non proprio.
– Come non proprio, cosa vuoi dire? E che altro sarebbe, aspirina forse?
– È esperanto.
– Mai sei scemo? È ridicolo, persino la citazione colta!
Ora capiva la stranezza dei suoi occhi e di quelli di Sandra. Il dubbio, che si trattasse di roba simile, l’aveva avuto proprio quel pomeriggio quando si erano incontrati al bar. Sandra doveva avere iniziato Federico a quella droga.
– Non è droga, è soltanto quello che stanno cantando.
– Ah bene, allora sì che la cosa mi interessa.
– Mettila così, voglio sapere cosa ne pensi. Prendila come la prenderebbe uno scienziato, per analizzarla.
E con queste parole, effettivamente in Mirco cominciò a farsi strada la tentazione di provare. Una curiosità da non rifiutare. Tutto qua. Ciò nondimeno cercò ugualmente di resistere. Ma molto blandamente.
– Un po’ troppo letterario come metodo di convincimento. Non trovi?
Ma sapeva bene di stare fingendo. In fin dei conti la cosa che più lo infastidiva era solo tutto il mistero che l’amico aveva avvolto attorno alla cosa quando si erano incontrati quel pomeriggio. Mollare lì tutta la sua collezione, definirla praticamente una cagata, l’uno arrampicato sulla psiche dell’altro, per capire chi avesse sbagliato che cosa. Bastava che gli dicesse “Guarda, mi vedi strano solamente perché passo serate a calarmi pasticche e a trombarmi Sandra fino allo spasimo.” Mirco senza dubbio l’avrebbe presa come qualcosa di pesante, con cui fare attenzione e da non sottovalutare, ma l’avrebbe anche catalogata come esperienza transitoria di due persone guidate dalla passione e dalla voglia di strafare. Succede. Li avrebbe certamente persi, almeno per un bel po’. Ma non si sarebbe preoccupato più di tanto e non sarebbe stato costretto a scenate patetiche tipo ti vedo cambiato che cosa hai fatto? In fin dei conti delle pasticche se ne era già calate anche lui, qualche volta in passato. Non era una cosa che gli giungesse nuova.
– Non è droga, ti ripeto, ma non riesco a spiegarti cosa sia. Sono curioso di sapere cosa ne pensi.
E, a quelle parole e a quei pensieri, l’idea di mandare giù quella pasticca per una volta sola non gli sembrava più tanto malvagia.
In fondo, sarebbe stato come fumare uno spinello con gli amici, niente di più. Un rito che si compie tutti assieme. Qualcosa che poteva anche fare, per una volta in più nella vita e per di più Federico garantiva che quella non era droga. E questo indubbiamente lo incuriosiva tanto. Allora cos’era? Che cazzata si era inventato? Esperanto, che idiozia chiamare una pastiglia di extasi a quel modo. C’è in giro ancora qualche stupido che non considera l’extasi una droga. Comunque, almeno su questo argomento, si promise di mettere in guardia l’amico. Domani però.
Gli prese la sua pasticca dal palmo della mano che ancora stava davanti a lui aperta e tentatrice.
– Va bene. – E mandò giù la sua pillola.
– Grande! Sapevo di poter contare su di te. – Rispose Federico mentre inghiottiva la sua con avidità.
Si guardarono negli occhi a lungo e dal palco ricominciarono ad arrivare le unghiate metalliche della chitarra elettrica. Il concerto era ricominciato. Mirco non provava niente di strano. Niente di niente, ma forse era ancora presto…
– Una pastiglia che non sale. Bella chiavata! E pensare che l’hai fatta tanto lunga. Esperanto e stronzate varie.
Ma a quelle parole, Federico, sorridendo e scuotendo la testa, si avvicinò accostando le labbra all’orecchio dell’amico:
– Sia-gat. – Gli disse.
E quella parola vibrò dentro la testa di Mirco, accendendogli parti del cervello che ancora non aveva usato in vita sua per pensare, ma che, tuttavia, sapeva benissimo di avere.
Sia-gat era tutto ciò che una parola non significava, era l’insieme di tutti gli oggetti che una cosa non era. Praticamente il mondo intero a portata di mano quando si indicava un solo oggetto. Sia-gat era il tutto meno uno. Era ovvio, semplicissimo.
Stava abbracciando il pensiero nel momento in cui si faceva mondo, quando riconobbe le labbra di Federico di nuovo appoggiate al suo orecchio:
– Moliuà.
Sì certo, come poteva esserselo dimenticato, era così banale: moliuà era ciò che sorregge ogni parola, ciò che sostiene ogni senso positivo di qualsiasi parola, di qualsiasi oggetto, persino di lui che viveva nella moltitudine del mondo. Era sempre stato così, fin dalla notte dei tempi.
Al momento della creazione era successo proprio questo: le cose avevano cominciato a prendere forma diversificandosi, ma l’una non escludeva le altre. Come poteva essersene dimenticato!
E dalle cose seguirono i nomi. Guardando solo una cosa era moliuà, ma le altre cose del mondo continuavano ad esistere ed erano sia-gat. Allo stesso modo, dicendo una parola, da qualche parte continuava ad esistere il significato di tutte altre, cioè nel sia-gat. Mirco si rese conto che avrebbe potuto costruire una religione usando soltanto quelle due parole.
Era vero: l’esperanto non era una droga. Era troppo potente per esserlo. L’esperanto era una lingua.
Anche questo del resto era fin troppo ovvio. E di nuovo le labbra di Federico si abbassarono sull’orecchio di Mirco:
– Bikrun.
Questa invece era sintassi. In quell’istante capiva cosa era il silenzio, quello che ci permette di ascoltare le parole, di distinguere una parola dall’altra, birkun.
Così come una cosa era diversa dall’altra, perché tra loro c’era uno spazio vuoto che le separa e faceva sì che non fossero identiche, faceva cioè in modo che avessero diversi moliuà, così anche il silenzio, quello che si insinuava tra una parola e l’altra e che era birkun, permetteva l’articolazione del tutto, visto o parlato che fosse.
Questa lingua era lo specchio del mondo. Una sintassi che non si impara, ma che si può vedere stesa sul mondo, originata dalla disposizione delle cose.
Capire il significato di una parola con l’esperanto non era altro che vivere il mondo insieme al tutto.
Birkun, infatti, è anche il presente, il cardine con cui il futuro si ribalta sul passato. Il concerto che stavano ascoltando in quel momento era già implicato nel fatto che Federico avesse invitato Mirco ad andarci e che lui poi avesse accettato quell’invito.
Mirco guardava quello che succedeva intorno a lui e non era cambiato niente nel mondo, era cambiato solamente il modo di parlarne.
– Sia-gat birkun moliuà kalong birkun moliuà sanoiff kat. – Gridavano dal palco e gridava tutto il pubblico attorno a lui.
– Sia-gat birkun moliuà kalong birkun moliuà sanoiff kat. – Cominciò a gridare anche lui, perché era tutto ovvio.
Se kalong era la forma di uomo che sorreggeva e delimitava sanoif, il nostro spirito, allora con birkun, tutto questo era già implicato quando nel passato, quando da microbi siamo diventati anfibi, poi rettili, e da scimmie siamo divenuti in ultimo uomini, e così via, però, fino a quando nel futuro saremmo diventati pura comprensione e pensiero, soltanto sanoif, quando cioè il nostro spirito sarebbe diventato sapere, kat. Il presente era soltanto lo snodo tra il passato e il futuro. Mirco ora poteva vedere, nel vero senso di questa parola, l’uomo, e quindi se stesso, come lo svincolo necessario tra la pura e semplice materia e il pensiero adamantino.
Era chiaro e lo vedeva adesso, nel presente, perché tutti parlavano e capivano la stessa lingua. Bastava guardare quella gente che sapeva quello che anche lui sapeva.
Bastava guardare.
La lingua che ci avevano insegnato con l’educazione non riusciva a dire tutto. Come quella volta che Sandra, senza sanoif kat, non poteva dire a Mirco ciò che molto semplicemente vedeva nel fondo della tazzina. Quella volta in cui lui l’aveva definita strega da condominio. E lei si era incazzata e stancata della sua insistenza perché gli spiegasse, perché gli dicesse. Non poteva: le mancava il linguaggio.
L’ebbrezza che provava tutta quella gente intorno a lui non era data da una droga, e non era nemmeno ebbrezza, era il sapere che derivava dal parlare una lingua comune. Era molto semplice anche questo.
Anche il fatto che avesse salutato Sandra e Federico nel parcheggio della discoteca implicava già che dovesse andare a casa, spegnere la luce e dormire. Bastava guardarsi. Lo fece. E scoprì che, infatti, stava guidando in direzione di casa. Era molto semplice. La serata era giunta al termine e ora Mirco era disteso nel suo letto. Tutto questo era implicato già nel saluto che si era scambiato con Sandra e Federico al momento di salire in macchina. Il mondo era disegnato a forma di cerchio, perfetto e tranquillo, pronto a cullarti con la sua protezione. L’infinito esisteva davvero, era il mondo: un cerchio che si percorreva per sempre nella stessa direzione, ma che ad ogni passo diventava nuovo. A quel pensiero Mirco chiuse gli occhi riappacificato col tutto.
Passò un mese e dopo quella volta Mirco non aveva più parlato l’esperanto. Il mattino seguente alla sua esperienza, quando si era guardato allo specchio, aveva visto i propri occhi cambiati. Assomigliavano molto a quelli dei suoi amici. Questo lo spaventò tantissimo, anche se il suo sguardo non era ancora così stravolto. Quindi decise di non spingersi oltre, per non arrivare a un punto che temeva essere di non ritorno. L’esperanto, aveva ragione Federico, non era una droga, ma una lingua che cambiava il modo di vedere il mondo. Non c’era da stupirsi più di tanto se i suoi effetti si riflettessero principalmente negli occhi delle persone che lo parlavano.
Certo, sebbene non lo avesse più parlato con nessuno, Mirco lo capiva ancora benissimo e ogni tanto guardando quello che succedeva intorno a sé e nel mondo era come se lo parlasse ancora un po’ anche lui, tra sé e sé. Allora era assalito dalla nostalgia per quella purezza e semplicità di esistere che aveva provato quella sera.
Ma di questo però non aveva fatto parola con nessuno e non aveva più chiamato né Federico né Sandra. Quella lingua era anche un modo di guardare il mondo. Non se lo sarebbe mai più dimenticato.
E una lingua non può essere parlata soltanto tra sé e sé, perché non può rimanere a lungo qualcosa di privato. Deve essere condivisa, e il non farlo lo stava spegnendo lentamente. Lo deprimeva infinitamente.
Si sentiva una stella di sabbia fatta con uno stampino sulla spiaggia. Qualcosa che prendeva vita solo grazie a dei confini, un’increspatura nell’infinito della materia, ma il problema era che sentiva la notte ovunque, fuori e dentro i confini del suo corpo. I suoi occhi si stavano forando lo stesso, anche se lui non aveva più assunto l’esperanto. E questo non poteva non ricordargli qualcuno. Era quello infatti lo sguardo che aveva riconosciuto anche in Sandra, prima, e in Federico, poi.
Non parlare l’esperanto era diventato come morire lentamente d’inedia. Equivaleva a non fare niente, a non muovere nemmeno un dito, perché parlare quella lingua significava fare delle cose con le parole. Quindi, il non parlarla significava una pausa nell’esistenza, non essere, bucare la storia per un momento.
Bastava che si guardasse allo specchio un momento per capirlo: dai suoi occhi poteva affacciarsi sulla notte che c’era dentro di lui ora, e che c’era ancora prima che il mondo esistesse. Sentiva che stava diventando solo corpo, una semplice ed esilissima linea di confine tra il buio privato e quello universale dell’infinito. E anche quel confine non era più tanto marcato.
La mattina in cui prese coscienza di tutto questo guardandosi allo specchio, decise anche di reagire. Era una splendida mattina soleggiata e prese la macchina per andare al mare e passeggiare in spiaggia. Strada facendo intravide una persona della sua città che, correndo in tuta e scarpe da ginnastica, faceva il suo allenamento quotidiano.
La luce del sole pareggiava ogni colore, allineava ogni sfumatura di colore sul filo bianco dell’orizzonte; solo l’erba, cresciuta sull’orlo dei fossi, che intagliava il marrone dei campi, era verde squillante, e il quotidiano esercizio podistico di quella persona della sua città, ora, sembrava un simbolo del meticoloso e preciso movimento della vita.
Non poteva esserci buio e non poteva nemmeno esserci una stasi, un buco nella storia, si disse Mirco. Il borghesissimo vivere di ciascuno di noi, dopotutto, corrispondeva al continuo e inarrestabile lavorio della vita.
Se Dio esisteva, allora doveva essere borghese. Doveva lavorare sei giorni la settimana alla creazione e godere, come tutti noi, del completo riposo domenicale. Doveva essere fatto a nostra immagine e somiglianza. Fuori o dentro di noi non esisteva buio, ma vita, movimento.
Parcheggiò l’auto sul viale principale ed entrò in un bar per fare colazione. Era il bar centrale e quindi a quell’ora era gremito da tutti i vecchietti del paese, come sempre del resto, ma questa volta li vedeva più animati del solito, così come più stupito e scioccato del solito gli sembrava il loro continuo confabulare, il loro passare da un amico all’altro, come per dirgli una novità. Doveva essere successo qualcosa di grosso.
Infatti, non c’era nessun giornale che non fosse già prigioniero tra le grinfie di qualcuno. Mentre il barista gli preparava il suo cappuccino, raggiunse l’edicola sull’altro lato della strada e comprò il quotidiano della sua città. Di certo la coscienza di quei vecchietti non poteva interessarsi a tutto il territorio nazionale. Qualsiasi cosa fosse successa, doveva essere accaduta qui, vicino. Rientrò nel bar col giornale piegato sotto al braccio, si sedette e cominciò a leggerlo:
TORTURATA E UCCISA NELLA NOTTE DAL PROPRIO FIDANZATO.
Sotto c’erano le foto di Federico e Sandra. L’aveva legata al letto e, dopo averle inciso i polsi, la fronte e le caviglie con un coltello da cucina, le aveva cavato gli occhi.
Purtroppo, leggendo, Mirco si accorse di capire tutto. Benissimo. Federico aveva liberato il sanoif di Sandra in modo che potesse diventare kat uscendogli dagli occhi e unendosi al buio dell’universo e dello spazio stellare.
Federico non aveva ucciso Sandra: aveva solamente parlato, usando l’esperanto in modo artistico. Aveva scritto una poesia.
Quello che uccideva Sandra invece era Mirco stesso che leggendo il giornale stava traducendo dall’esperanto alla nostra lingua comune. Era la traduzione che stava uccidendo Sandra e forse tutto il mondo. Tutti noi.
Ma il problema più grosso, ora, consisteva nel fatto che anche lui parlava quella lingua, l’esperanto, e, come ebbe a dirgli una volta Federico, per sfotterlo durante una delle sue famose emicranie, era anche lui un bravo poeta.
Sentì le gambe piegarglisi sotto le ginocchia e una grossa montagna di nausea salirgli dalla pancia. Raggiunse il bagno, si chiuse dentro inginocchiandosi sul water: vomitò dalla paura.
Aprendo il rubinetto per lavarsi, si ritrovò senza volerlo riflesso nello specchio appeso sopra al lavandino: Dio mio, come erano bui i suoi occhi, ognuno di essi sembrava una notte diversa!
– Sopra al lavandino la notte è profonda. – Disse incrociando una persona mentre stava uscendo dal bagno. Questa lo seguì con lo sguardo fino a quando raggiunse di nuovo il bancone, probabilmente senza capire cosa avesse detto.
Il barista, finito di preparare il caffè per un altro cliente, gli si avvicinò e incrociò il suo sguardo.
– Prego, dica pure. – Gli chiese.
– Un Biancosarti per favore.
– Mi dispiace signore, ma l’abbiamo finito.
F I N E
(la pubblicazione del romanzo è iniziata il 15 agosto 2012
e proseguita per i sette successivi mercoledì)
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© Concerto di Valerio Fabbri, illustrazioni di Roberto Pagnani