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Milva Maria Cappellini. “L'ultima sposa di Palmira” di Giuseppe Lupo
24 Settembre 2012
 

Giuseppe Lupo

L'ultima sposa di Palmira

Marsilio, Venezia 2011, pagg. 174, € 18

 

È un'idea grottesca sostenere che i disastri naturali – terremoti alluvioni tsunami – siano manifestazioni di una qualsivoglia divinità imbestialita dai sempiterni peccati umani; ed è invece un'idea sensata pensare a come i comportamenti umani contro il pianeta possano agevolare i cataclismi e peggiorare le loro conseguenze; ed è, infine, un'idea suggestiva leggere le catastrofi come un codice (più o meno simbolico) riguardante certe profonde prerogative dell'umano: la fragilità e la provvisorietà del vivere, la tenacia e la fantasia nel sopravvivere. Nell'ultimo romanzo di Giuseppe Lupo, L'ultima sposa di Palmira, è il terremoto del 1980 ad avviare una tessitura di narrazioni tutte legate (per usare una formula di Clarissa Pinkola Estés) dalla catena vita-morte-vita.

Il terremoto è una forma estrema e brutale della metamorfosi: la terra, come l'uomo, non vive se non nel movimento, a volte impercettibile a volte devastante. Ma l'esistenza è sempre in bilico sullo scrimolo della distruzione, e deve ingegnarsi per resistere: e resistere significa al tempo stesso conservarsi e cambiare, e così perpetuarsi. Per questo, tra i tutelari di questo romanzo, accanto a Spoon River vanno ricordate anche le Metamorfosi del sulmonese Ovidio (nato anch'egli in terra instabile): mai quello che sembra è solo quello che è, mai ciò che appare saldo è in salvo, mai ciò che risulta immemorabile riesce a essere eterno. Il correlativo oggettivo della storia umana è il tufo, la roccia di Palmira (luogo del tutto assente da mappe e carte), roccia tenera e friabile e mutevole con la quale nonostante tutto l'uomo ha edificato città. Il tesoro di Palmira – la sua storia di cambiamenti e di fecondità – è affidata a un vecchio falegname, mastro Gerusalemme, un artigiano-aedo che sa come la memoria a volte pesi “come una zavorra”, ma sa anche che “perderla è peggio che morire”. Per questo, egli da sempre narra con parole di legno, istoriando (nel senso più etimologico, poiché “mastro Gerusalemme pensa che tutto il mistero del mondo sia scritto nel legno”) cassoni e ante con la leggenda di Palmira, con la “babele di storie che non troverà mai requie sulle carte geografiche”. Ma la circostanza è ora – siamo nel novembre dell'Ottanta – straordinaria, e Mastro Gerusalemme sa riconoscere l'ascoltatrice ideale – recettiva e fertile – nella giovane antropologa dottoressa Pittalunga (lei Viviana, lui Vito: nomi parlanti), consapevole sì di “venire in un pezzo di terra introvabile sugli stradari”, ma meravigliata di trovarsi “dentro un vento di fantasie”, in cui gli insetti hanno un nome e i pozzi “contengono acqua buona a spalancare le porte della memoria”.

Versione mitico-appenninica del romanzo antropologico, L'ultima sposa di Palmira affolla la coralità, moltiplica le voci, incrementa i piani temporali, dilata all'infinito il concetto di realismo. L'alternanza regolata di due registri narrativi – quello mitico inciso sul legno, quello scientifico inciso sul nastro magnetico – rimanda a due linguaggi diversi ma non inconciliabili (anche se “la scienza non arriva dove arrivano i sogni”: ed è proprio Viviana che lo afferma). Manca invece – si definisce nella propria mancanza – il racconto ufficiale e formale, quello della burocrazia e della classificazione. Il lettore di Lupo trova qui, dopo Agropinto e Celenne, una nuova toponomastica immaginaria: il rione di Scordara, dove si sentirebbe a casa l'insonne Rebeca di Cent'anni di solitudine; la devastata Babillonia; la Iudessa, percorsa da sogni pericolosi e donne cariche di collane; palazzo Margarino, dove giostrano fanti e cavalieri usciti “da un fazzoletto di nebbia”; i misteriosi campi della Finisterra. Qui avvengono parti portentosi o sventurati, incantesimi ambigui e carnevalate centenarie, morti prodigiose come quella di Flora Mos o di Angelo Guardascione. Qui sono vissuti e vivono Patriarca Maggiore e Demetrio Morgante, Blanca Caravalle e l'indovino Assalonne Efraim, Fiorentino Salvato e l'angelo, e ancora la profetessa Elvira Alonso Masiello attesa da un esercito di morti impazienti, Antonino Tirinnante detto Coniglio, Guendalina Varrasco e Felicetta Paddato le sognatrici, Falotico Amatrone, Aniceto-ranocchio e Feliciano-uccello e gli chagalliani Matilde e Zefferino e tanti altri, tutti immersi in un vapore di incubi e profezie, tra pirati e spettri, bambole miracolose, comete e spose fuggitive. Soprattutto, come in tutte le civiltà sagge, a Palmira i vivi e i morti “sono condannati a guardare i sole calante divisi niente più che da una linea di alberi o da una strada acciottolata”. Qui i commensali di un pranzo di nozze muoiono avvelenati ma non se ne rendono conto e fanno festa lo stesso, mentre i defunti si adunano per la Pasqua Befania. Qui appare plausibile “l'idea di considerare la morte un'invenzione del sonno, per cui basta fare due passi fuori dalla Porta di Pasqua, varcare la galleria di lillà che non sfiorisce mai ed entrare nei campi della Finisterra, dove amici fidati, soldati di guerre antiche, compagni di furti e rapine contano l'eternità maneggiando clessidre e orologi”.

È mastro Gerusalemme a raccontare a Viviana tutto questo e tanto altro, tra le macerie del terremoto, con una tale sapienza di materiali e strategie narrative da far sorgere il dubbio che sia stato proprio lui “a inventare la storia di Patriarca Maggiore, i nomi dei rioni e quel particolare desiderio di attendere profezie da un dio che si diverte a mischiare continuamente le carte”. Affabulatore e demiurgo, “Mastro Gerusalemme conosce a memoria la formula per liberare da questi malefici, però si è fermato prima di pronunciarla: potrebbe rovinare la quiete del mondo”: ed è una quiete minacciata da orrori molteplici, perché tutto intorno ci sono i cadaveri del sisma non ancora dissepolti, e presto inizia il gioco tutto italico dello scaricabarile. Anche in questo romanzo, come nel precedente La carovana Zanardelli, la storia appare davvero “un cumulo di distrazioni”, a cui solo la catena vita-morte-vita può dare rimedio o risarcimento. Viviana, senza saperlo, arriva davvero “a un soffio dall'enigma che si nasconde a Palmira, qualcosa che riguarda […] il principio e la fine di ogni creatura”. La circolarità della narrazione (tratto tipico della narrativa di Lupo, attenta ai modi e agli strumenti anche materiali del narrare) evoca lungo tutto il romanzo il cerchio delle generazioni, l'ultima pagina celebra il potere di ciò che sembra morto e invece contiene tutta la vita.

 

Milva Maria Cappellini


 
 
 
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