segue dalla puntata precedente...
Si alzò e si infilò nel bagno. Si guardò allo specchio e tutto andava bene, perché riconobbe senza alcuna fatica chi gli comparve davanti: era lui. Quindi, senza alcuna paura, si sentì pronto per uscire, perché gli oggetti che gli stavano di fronte gli restituivano se stesso.
Le previsioni metereologiche avevano annunciato una giornata stupenda, radiosa, venti miti provenienti da sud e mari calmi.
Quando aprì la porta il sole riversò violentemente la sua luce pelosa nell’ingresso paralizzando i mobili e tutte le cose che ci stavano sopra. Il portachiavi, gli spiccioli, il portafogli, l’elenco telefonico e il telefono non avevano più il coraggio di muovere un dito e se ne stavano immobili, come se fossero stati colti di sorpresa, dolcemente congelati dalla luce e un po’ vergognosi come chi, in preda all’ebbrezza della notte precedente, si vergogni per essersi vantato di avere un segreto da mantenere...
“Bene, così non possono cadere da nessun piano inclinato e non si fa del casino ai miei piedi.” Ricordò di aver pensato.
“Il tempo oggi scorre in maniera giusta, anestetizzato, per chi ci è dentro.” Concluse, mentre la porta alle sue spalle si richiuse e Mirco cominciò a dirigersi verso la strada.
Ma, nonostante tutte queste premesse piene di fiducia verso la nuova giornata, quando si girò per incamminarsi verso il cancello, qualcosa scivolò lo stesso lungo quel piano che da ieri stava accumulando rottami ai suoi piedi.
Improvvisamente ricordò che il muretto del cortile era di cemento e guardandolo si accorse che le crepe dove si nascondevano le lucertole che da bambino rincorreva, si erano ormai riempite di erbacce che nessuno si preoccupava più di cavare.
Continuò a guardare quel muretto sprofondato in una sorta di lucido smarrimento, come se fosse una preda affascinata dallo sguardo del predatore che la sta per inghiottire.
Il suo parapetto duro e squadrato aveva i contorni ormai ammorbiditi da quell’abbandono che profuma di terra e di muschio. Il rivestimento plastificato della rete aveva perso la brillantezza del proprio verde e ormai ingrigiva e raggrinziva come l’asfalto di una strada trafficata. Alla sua base spuntavano ciuffi gialli di erbacce e visioni di un tempo che improvvisamente scivola via all’insaputa di tutti. Capì di sentirsi come la sera prima, quando aveva visto le mattonelle di marmo sulle scale di casa sua. Cominciò a vedere come erano le cose una volta e si sentì immediatamente derubato del passato. Del proprio passato, quello che non esisteva più né in lui né altrove, e che qualcuno, forse una divinità cinica e crudele aveva sostituito inserendogli delle blande immagini sostitutive nelle sua mente chiamandole poi ricordi, tanto per indorargli la pillola. Si sentì improvvisamente solo e vuoto, o meglio svuotato dell’intera sua vita, spompato.
Invece il suo vicino, che si era trasferito lì da poco, aveva aggiustato la casa appena acquistata, e il suo muretto quindi era bianco di intonaco abbagliante e il solo guardarlo metteva sete per la sua pulizia, la sua rete vestiva bene le forme di un confine che Mirco non si azzardava a oltrepassare perché non si sentiva neppure degno di farlo.
“Ora so con precisione dove è lui, ma non so più dove sto io.” Pensò, ancora assorbito dalle crepe del muretto e soprattutto dal vicino e dal suo comportamento in ogni caso bizzarro.
Era infatti uno di quei vicini che salutano sempre. Di quelli che, cordiali fino alla nausea, ti obbligano a rispondere anche quando non hai voglia di parlare con nessuno e ogni volta che metti piede fuori dalla porta di casa sono sempre in cortile che sembrano aspettarti. Se apri la finestra del bagno smutandato, stai sicuro che loro si girano di scatto per salutarti, se un’auto di amici passa a prenderti, sicuramente loro sono davanti al cancello che aspettano di vederti per salutare te e tutti gli altri come se anche loro facessero parte della comitiva. Ogni volta che lo vedi ti offre un caffè, una grappa, una fetta di torta, oppure dei biscotti, il tè, il panettone, una fetta di mortadella, le patatine, un limone, del detersivo per i piatti, qualsiasi cosa, anche insensata, che gli passa in quel momento per la testa.
Brava persona, quel vicino, senza dubbio, e brava persona anche sua moglie. Una donna sempre fresca di parrucchiera, con un’acconciatura antica che le richiedeva certamente quantità industriali di lacca per essere domata. Si divideva tra la cucina e il giardino che, evidentemente, assieme al Mercedes che il marito lavava ogni domenica, costituiva la conquista della loro vita. Mai un gesto fuori posto. Sempre compita e composta in ogni sua mossa.
Ma una volta Mirco si era accorto che dopo averla salutata, non appena gli aveva girato le spalle, la donna era corsa in casa ad informare il marito dei suoi spostamenti. Discorsi del tipo: “È uscito adesso. Secondo te dove starà andando?” E la tendina del loro salotto si era spostata di una spanna.
Da quel momento in poi, facendosi caso, Mirco si accorse che la tendina si spostava sempre, anche quando per esempio salutava solo il marito perché lo incontrava in giardino, la tendina si spostava quel tanto che bastava per consentire alla moglie questa volta di controllare con chi stava parlando il consorte.
Quel lato morboso tradiva una cattiveria trattenuta in entrambi, che si annidava dietro alla loro melliflua, sgocciolante e non disinteressata gentilezza.
Niente di preoccupante, ma non erano i candidi nonnini che a tutti i costi volevano far credere di essere. Era solo gente che desiderava controllare tutti per sentirsi a posto con loro stessi o per trovarsi un posto nel mondo. Sapere tutto e di tutti: questo per loro era importante, geometricamente utile per far tornare i conti della vita.
– Ciao Mirco, hai visto che bella giornata? Dove vai di bello? – Gli chiese appunto il vicino interrompendo gli immancabili lavori di giardinaggio, per farsi appunto i fatti degli altri.
– Sì, bella. Ma le forme sono troppo nette. – Gli rispose Mirco con lo sguardo ancora assorto sul muretto e tradendo pericolosamente la confusione che regnava nel suo stato d’animo in quel momento, la sensazione si torpore e inconsistenza che provava.
– Forse hai ragione, quelle nuvole disegnate così bene significano pioggia, ma per il momento mi godo la bella giornata come fai tu, all’aperto. – Gli rispose mentre già Mirco stava scappando in strada. Ovviamente il vicino non aveva capito a cosa si riferisse. Ma il pericolo almeno per il momento era scampato.
La sensazione che Mirco provava era quella di trovarsi di fronte a cose che gli parlavano una lingua che non poteva capire. Dentro di lui fluivano sentimenti che non era capace di esprimere o decifrare. E si sentiva un’entità netta, separata dal resto del mondo e al tempo stesso svuotata. Si sentiva più o meno come un involucro: un insetto secco trafitto da uno spillone in una collezione. Tutto ciò che vedeva o sentiva provenire dagli altri era un attacco. Avrebbe voluto difendersi, sbarazzarsi di quella paura che lo inchiodava a se stesso, ma non sapeva come fare.
Il muretto con le sue crepe era il passato. Quei fulmini, che ne percorrevano il cemento, lo andavano a colpire dritto nell’anima e andavano a illuminare scene e immagini che non c’erano più. Lui da bambino, lui che rincorreva le lucertole, i calzoncini corti, le magliette a righe e i sandali, i cartoni animati che guardava, tutte cose che ormai esistevano solo nella sua testa, prigioniere dentro le celle dei suoi ricordi. Se sarebbe finito lui, allora sarebbe finito anche tutto il resto. E questa era una responsabilità che non gli piaceva affatto e che soprattutto non aveva scelto di accollarsi.
Che cazzo ne poteva sapere un muretto di tutto questo? Nulla!
Se altre persone gli fossero passate davanti non avrebbero certo letto quello che lui ci vedeva, in quel cacchio di muretto. Ovvio, perché non c’era niente da leggervi. Era diventato solo un muretto e per di più dozzinale.
Aveva un bel da fare il vicino a voler curiosare nella sua vita. Neanche lui sapeva cosa ci fosse da sapere.
Erano proprio belli, quel tizio e sua moglie, la cui conquista più prestigiosa della loro vita consisteva nell’essere riusciti a prendere il tè assieme tutti i giorni alle cinque per quarant’anni, qualunque cosa accadesse attorno a loro.
A volte pensava che effettivamente le vere conquiste fossero di quel genere. E in culo a tutti! Inutile cercare lontano, dopotutto.
Ma, allora, perché la loro placida soddisfazione, in realtà, era tanto tignosa e curiosa di altro, degli altri? Timorosa, forse, che qualcuno o qualcosa potesse superarli nella corsa verso la tranquillità?
Insomma, la giornata che doveva promettere tanto bene, stava già cambiando il proprio aspetto e adesso era soltanto uno stampo vuoto, senza materia sufficiente a riempirla.
Malinconia statica.
Una di quelle formine che i bambini usano sulla spiaggia per fare stelle di sabbia, oppure granchi, cavallucci marini, conchiglie che dal colore ardesia della sabbia bagnata nel corso della giornata virano al grigio cemento via via che si seccano, fino a sgretolarsi completamente verso sera.
Mirco si sentiva esattamente come uno di quegli inutili stampini, che in fondo divertono molto poco, poiché finiscono con l’essere riposti in uno sgabuzzino purchessia durante l’inverno, mentre l’estate seguente nessuno ricorda più di tirarle fuori di nuovo, finendo dimenticate e sostituite da altre più nuove comprate di recente.
Poi, dopo dieci anni, quando qualcuno apre, per altri motivi, quello sgabuzzino e le ritrova, hanno il loro piccolo momento di gloria e vengono avvolte dalla malinconia dei ricordi. E non manca mai qualcuno che, in preda a quell’ebbrezza, falsamente dice: “Come mi divertivo con poco”.
La malinconia di un uomo immobile.
Sapeva dell’inconsistenza di tutto questo e non voleva dargliela vinta. Meglio stringere i pugni. Collezionare monete comuni. Oppure oggetti che non si sa cosa siano.
Allora, tutto trafelato estrasse con fare impacciato dall’ansia il cellulare dalla tasca del giubbotto e compose il numero di Federico.
– Chi parla? – Chiese la sua voce e subito Mirco ricordò che si erano conosciuti appena il giorno prima e che quindi non poteva avere già il suo nome in rubrica.
Adesso, gli toccava l’osceno sforzo di una descrizione per farsi riconoscere.
Ora doveva descrivere se stesso a una persona quasi sconosciuta e, per farsi riconoscere, quella descrizione deve corrispondere all’idea che quest’ultima si era fatto di lui: praticamente impossibile, anche se la gente, chissà come, lo fa anche mille volte al giorno.
– Sono Marco, quello… – Ma la sua fatica venne subito e fortunatamente interrotta.
– Ah ciao, come va?
– Beh insomma, ti andrebbe di fare quattro chiacchiere?
– Sì certo, sono in centro e posso aspettarti all’angolo di Piazza del popolo.
– Va bene, tarderò al massimo dieci minuti.
– Allora a fra poco. Ciao.
Affrettò il passo, tuttavia camminando ripensò allo strano tono di voce che aveva Federico. Non era squillante come ieri, bensì sussurrato come se non volesse farsi sentire o come se stesse pensando ad altro. Ma quando lo vide seduto sulla panchina ad aspettarlo aveva già dimenticato quella piccola stranezza.
– Ciao. – Lo salutò, però alzando appena la testa, mentre col piede schiacciava la sigaretta che stava fumando per aspettarlo.
Ora Mirco non aveva più alcun dubbio: gli occhi del suo amico stavano inseguendo un pensiero lontano, appena visibile sul filo dell’orizzonte.
– Ti disturbo? – In fondo lo conosceva appena e forse voleva starsene da solo.
– No di certo. Scusami, stavo solo pensando ad una cosa che non mi riesce.
– E cosa?
Incredibile, era capace di incuriosirlo anche nei momenti di completa apatia. Cominciava a chiedersi se sarebbe stato sempre così o se anche con lui sarebbe giunto il momento dell’incomprensione e dell’incomunicabilità, cioè quello stato in cui sentiva che gli si gonfiava dentro, che gli saliva fino alla gola, come un’ondata di nausea acida che gli bruciava la lingua, impastava il palato, impedendogli persino di parlare o meglio di farsi comprendere dagli altri. E la testa cominciava a fargli un male tremendo, a martellarlo.
In quei momenti le cose che aveva dentro la testa erano molte, di più di quelle che riusciva a pronunciare. Il suo cranio sembrava uno di quei bussolotti giganti, dentro cui si fanno ruotare le palline che contengono i numeri della lotteria di fine anno. Le palline però nel suo caso erano concetti, a questo punto sbavati, che si collegavano gli uni agli altri, snodandosi dentro il pensiero, velenosi e giustificati come un serpente che ispira una paura primordiale. E la testa cominciava a pulsargli.
Allora, le frasi che usava per esprimersi erano composte da parole che combaciano con connotazioni appartenenti a concetti molto, molto distanti gli uni dagli altri. Sembrava sparare nel mucchio e il percorso di senso dei suoi discorsi era appena visibile, appena tracciato. Lui capiva, ma chiunque altro no. E la sua testa cominciava a raggrumarsi in unico grande grappolo di dolore.
E questo a Mirco lo spaventava moltissimo. Si sentiva come se si fosse improvvisamente risvegliato in un paesaggio devastato da un’esplosione nucleare. Un vuoto malsano, indotto e sbagliato. Una devastazione che dall’interno si proiettava verso l’esterno per colpa sua.
Colpevole. In definitiva, il mondo brucia e sei stato tu a renderlo così. La sera ti addormenti e quando ti risvegli, il mattino dopo scopri che il mondo è imploso e fuori serpeggia un vuoto radioattivo pronto a contaminare ogni forma di vita. E la colpa è tua e dei sogni che hai fatto quella notte. Tu sei colpevole, assieme al tuo ridicolo mal di testa dislessico.
Per Mirco è persino un problema dare il buongiorno, quando si trova in quelle condizioni. Perde il controllo delle parole. Perché per prima cosa si chiede cosa significhi ‘buono’ e ‘giorno’. E se qualcuno gli rispondesse “grazie anche a te”, tutto si ingarbuglierebbe ancora di più in maniera pressoché inestricabile.
Che significa ‘buono’? Buono nel senso di gentile, affabile? Allora, non c’è sincerità in quella parola, detta solo per circostanza. Quindi il senso vero sarebbe l’esatto contrario. Perché allora non dirlo? “Ma che ti venga un colpo, a te che ti incontro ogni mattina e che non ho nemmeno voglia di vedere e che una formalità del cazzo mi obbliga nientemeno che a salutare! Muori, maledetto te che ogni mattina, guardandoti, mi ricordi la mia condizione di sfigato!” Altro che affabile o gentile. Altro che buono.
Allora, forse ‘buono’ nel senso di onesto. No, non è onesto quanto emerge dalle considerazioni di poco fa. Forse anche ‘onesto’ vuol dire un’altra cosa. Forse, ‘onesto’ nel senso di ‘retto’. Però ‘retto’ vuol dire anche culo. Certo. Allora, perché non un bel “Vaffanculo a tutti e a tutto”.
È una cosa che parte da Mirco, ma non può farci niente. Ma devasta anche il mondo. Così in quei momenti gli sembra sempre una cosa saggia rimanere solo, evitare il contatto con gli altri. Perché chiunque gli stia vicino, gli scatena anche quel pandemonio interiore. Prima o poi qualsiasi persona, con una frase o una sola parola, a volte anche solo col silenzio, gli scoperchia quel vaso di pandora che cova dentro di lui, appoggiato in un angolo del suo buio interiore. Sempre pronto a far male. E dal dolore gli sembra che anche la sua testa si scoperchi.
Allora preferisce stare solo, in quei momenti. Oppure può darsi che non possa fare diversamente. Al limite ricorre all’aiuto di Sandra che, pur non capendo un accidente di quello che Mirco le dice, gli legge un po’ di futuro preso da qualche parte, da qualche fonte, vuoi una tazzina, vuoi dalle carte, per non parlare poi del palmo della mano. E questo lo tranquillizza, placa la sua ansia, lo riporta su sentieri percorribili da tutti. Anche la sua povera testa scappellata, con ciò ricomincia a mordere di meno e a ricomporsi, liberandolo dal dolore.
Forse Federico poteva risparmiargli quel dolore, quei brutti momenti. Tutto lasciava ben sperare. O forse questa utopia non si sarebbe realizzata mai. Ma intanto almeno poteva tenere in vita la speranza dicendosi che questa era la volta buona, che era la persona giusta con cui stare bene e sentirsi a proprio agio nella vita, nel mondo..
Quando lo incontrò seduto sulla panchina, meditabondo, si accorse che era vestito come il giorno precedente: indossava un cappotto elegante portato col bavero sollevato solamente sulla nuca, tenendone abbassati i risvolti sul collo.
Questo particolare lo colpì perché era una specie di citazione. Suo nonno lo portava così. E diceva che per i veri intenditori il cappotto si può portare solo a quel modo, una specie di rispetto che si deve a una tradizione o a una legge non scritta che sono in pochi ormai ad essersi tramandata e che si deve custodire gelosamente come il segreto di una setta.
Quel pazzo di Federico, pensò, sebbene avesse la sua stessa età, era capace persino di custodire un Borsalino nuovo fiammante nell’armadio. Gli piaceva quel suo modo di fare cortesemente anticonformista, ma comunque irremovibilmente di chi non gliene importa assolutamente nulla degli altri e dei loro giudizi preconfezionati. Non per rabbia, quanto piuttosto per una specie di onestà. Lui era fatto così. Punto. Trovava che avesse molto da imparare da un atteggiamento simile.
– Quale è questa cosa che non ti riesce di fare? Che fai lì tutto pensieroso?
– …
– Avanti dimmelo. Sono più che curioso.
– …
– Coraggio.
– Se te lo dicessi, penseresti che sono malato.
– …
– Insomma, chissà poi che penseresti di me.
– …
– Magari pensi che sono scemo.
– Pazienza. È un rischio che devi correre.
– …
– Oppure, quella è un’opinione che di te mi sono già fatto. Voglio dire, che ne sai?
– Va bene, se proprio insisti. È una specie di gioco che faccio.
– …
– Niente di importante.
– E poi? Vai avanti.
– Ma non è niente di importante. Te l’ho detto.
– Avanti spiegami. Ormai sono troppo incuriosito.
– E va bene, allora. Quando usciamo per strada, abbiamo tutti uno scopo, cioè una meta. Dobbiamo andare dal tabaccaio, da qualche parte a fare la spesa oppure a trovare qualcuno a casa sua o ad incontrarlo in un caffè. Giusto?
– Sì, fino a qua ti seguo.
– Voglio dire che c’è sempre un senso in quello che facciamo. Io, invece, voglio camminare senza uno scopo, per vedere se cambia il modo di vedere la mia città, se mi trovo a frequentare quartieri che abitualmente non bazzico. E tutto questo senza prefiggermelo come intento.
Incredibile! Mirco voleva cercare un senso a tutto quello che faceva o gli accadeva, fino al punto di chiedere ad una specie di strega permalosa di leggerglielo nei fondi di un caffè alla turca, lui, al contrario, non voleva altro che svuotare di senso tutto ciò che gli capitava.
Anche la sua collezione, in fondo, non era altro che un insieme di oggetti di cui ignorava, e voleva ignorarne, la funzione e perciò il senso.
Tutto ruotava attorno a un perno la cui volontà era all’esatto opposto di quello che faceva muovere la vita di Mirco, il quale ad ogni modo si era deciso che voleva rimanere lì e capire assolutamente quello strano meccanismo che Federico andava elaborando e che gli appariva tanto assurdo. Del resto, spesso si impara più da cose che non ci interessano o che non condividiamo, piuttosto che da cose che invece sentiamo come più affini.
Addirittura Mirco ora stava persino credendo, o meglio sperando di avere trovato, con un colpo di incredibile fortuna, il suo gemello complementare: la persona cioè che ti rispecchia al contrario. E che quindi può aiutarti in maniera disinteressata e totalmente priva di pregiudizi.
Forse in quel preciso istante era vicino al completamento di se stesso con un altro, forse il suo essere si allungava in questo modo nell’essenza di un altro essere, dell’altro in generale.
Se così fosse stato avrebbe, almeno in quel caso, potuto di dire addio e soprattutto prendere a calci nel culo i suoi problemi di comunicazione, di vuoto e di senso.
Se così fosse stato avrebbe trovato la ricetta giusta.
La ricetta giusta.
Se così fosse stato.
Sperava e pregava.
[...] Il seguito alla prossima puntata
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© Concerto di Valerio Fabbri, illustrazioni di Roberto Pagnani