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Alberto Figliolia. Il vaso di coccio, la Corea del Sud secondo Nicola Seu
10 Settembre 2012
 

Più veloci di aquile i miei sogni attraversano il mare

(Franco Battiato, La cura)

 


Sarang he. Ossia... Ti amo. Il linguaggio universale dell'amore. O, anche, Dae Han Min Guk, l'urlo di sostegno nei confronti della nazionale di calcio della Corea del Sud, un grido di entusiasmo e gioia che si alza nella celebrazione di un rito collettivo quale lo sport è, un empito sentimentale fortemente identitario e, nel contempo, capace di unificare genti oltre le latitudini.

Nicola Seu ci racconta la sua Corea, non certo la cronaca di un disastro come fu per l'Italia del football ai Mondiali d'Inghilterra 1966 durante i quali Pak Doo-Ik, centrocampista e presunto dentista nord-coreano, ci fece un golletto da sballo e da tragedia sbattendoci fuori dalla competizione iridata. Da allora Corea fu sinonimo di ignominia, il simbolo di una Caporetto del pallone. Poi arrivò, con il famigerato arbitro Byron Moreno (un nome sprecatissimo...) a dirigere-non dirigere/fischiare-non fischiare, l'inopinata sconfitta ai Mondiali nippocoreani, anno Domini 2002, contro la Corea del Sud, altra epocale, seppur discussa e discutibile, sconfitta per il tricolore verde-bianco-rosso. Decisamente non porta bene la Corea ai pedatori nostrani.

Nicola Seu, dicevamo, ci racconta la sua Corea, Paese nel quale ha a lungo soggiornato in due diversi periodi, una sorta di Marco Polo della contemporaneità. Non sorprenda un'affermazione e un paragone del genere. Nel presente marchiato dalla globalizzazione e dalla comunicazione ultraveloce, dalla perenne connessione a tutto e a tutti, alcuni luoghi sono ancora distantissimi. E, soprattutto per quel che concerne le dimensioni interiori, coi loro sterminati e, talvolta, estranei panorami.

A dire il vero, la Corea del nostro ironico, attentissimo e qualificato giramondo è quella del Sud sviluppatasi sotto l'ombrello occidentale, del quale ha seguito il modello economico, introiettandolo sovente alle estreme conseguenze, ma quella del Nord, cupa, chiusa, inconoscibile, aleggia, ombra minacciosa (e pietoso il destino del suo popolo), nella quotidianità di una disperata separazione. Il 38° parallelo è una cicatrice pulsante.

Il salto culturale fra il “nostro” mondo e quello che in quest'Estremo Oriente ha trovato Nicola è davvero enorme. Non è stato facile colmarlo. Omnia vincit amor... Sarang he, Ti amo... Oltre all'invincibile curiosità intellettuale, l'amore ha condotto il giovane italiano ad affrontare quel viaggio così remoto e i conseguenti disagi esistenziali o spaesamenti dell'anima. Jon la sua Beatrice, colei che l'ha guidato nei meandri del cosmo coreano. Non è stato facile. Tutto scartava e deviava dal solito noto: la lingua, la cucina, i modi e gli usi, la gestione delle relazioni interpersonali, l'approccio all'altro. Perché altro rischi di essere, un “diverso” che si deve adeguare alle regole di un nuovo mondo. E, se alla fine si (ri)scopre il valore della comune umanità e gli inevitabili punti di contatto, il viaggio può rivelarsi arduo, richiedendo di sgombrare, reciprocamente, il campo dagli spettri del pregiudizio.

Dalla duplice esperienza – la prima piuttosto frustrante, quasi fallimentare, ma contenente il germe del ritorno, il secondo e più riuscito tentativo – è nato questo bel libro: Il vaso di coccio. Un volume di agile lettura, auto-ironico, suggestivo, di sani interrogativi, scoperte e dubbi che permangono, sfondabarriere, divertente e istruttivo.

«Sto qui in Corea da ormai quasi due settimane, le cose non vanno bene e credo che la situazione non migliorerà nei prossimi giorni. Ti faccio questa confessione nella speranza che tu mi ascolti e mi possa capire. Le cose non vanno bene, non potevo immaginarmi tutto questo. Non ho ancora conosciuto nessuno. Certo, ho conosciuto le sue amiche ma nessun ragazzo, sono timidissimi e non danno confidenza per nessun motivo, soprattutto agli stranieri. Qui in casa è pieno di ragazzi ma nessuno si è avvicinato a me e nessuno ha risposto ai miei tentativi di avvicinamento. La mia compagna ha capito questo e sa che non sto bene […] ci provo con tutto me stesso ma non reggo questa situazione […] Che dire? Che abbia fatto una fesseria a venire qui? Ancora è presto per dirlo ma credo che le cose in futuro non cambieranno e al momento ho forti dubbi sul fatto che ci possa essere un futuro qui. Ho sinceramente bisogno di un amico per bere un caffè e farmi due risate. A proposito, qui oltre che essere timidi non ridono… è pazzesco ma non li ho visti ridere […] mi mancate moltissimo tutti…», questo è il testo di una mail scritta la sua prima volta.

Ma l'uomo è animale adattabile quant'altri mai e Nicola è un “duro” dal cuore sensibile e dal cervello mai pago. Non poteva non tornare. Del resto, Sarang he, Ti amo... Ora che è tornato (definitivamente?) in Europa e tutto si è sedimentato, tutto è stato elaborato, macinato, metabolizzato, la scrittura mette ordine e il fiume dei ricordi scorre forte e sereno.

Scorrono le frenetiche immagini di Seul con la modernità che si svolge implacabile e necessaria o, al contrario, quiete immagini di mare e di un'altra Corea, più lenta e arcaica; si dipanano i più vari casi dell'esistere, le difficoltà di ogni giorno. Privilegiata è la lente dell'osservatore, ogni elemento al vaglio: la politica; le passioni popolari, come il calcio; la cultura del lavoro; le negatività (l'ipercompetitività, con qualche suicidio di troppo, gli aspetti di rigidissima morale e riprovazione sociale, la diffidenza verso lo straniero, il ruolo femminile per tradizione più in disparte ma in rapidissima evoluzione) e le positività (il benessere diffuso, l'emancipazione crescente, le vertiginose aperture); le abitudini alimentari. A quest'ultimo riguardo, deliziose e preziose le informazioni che ci vengono regalate, gustose. Eccovi un assaggio... «Per capire questo popolo è necessario passare per la sua cucina, così speciale e lontana dai nostri cliché. I naengmyeon, sono un ottimo esempio di quanto distanti siano i mondi occidentale e coreano. Originari di Pyongyang ma oramai diffusi su tutta la penisola, sono spaghetti di grano cotti nel brodo, poi versati ancora caldi in una scodella ghiacciata piena di brodo congelato e tritato fino a diventare una granita nella quale si aggiunge mezzo uovo sodo, qualche fettina di cetriolo, un pezzo di pera e due fettine di carne salata. Per accompagnarli, si beve il brodo caldo nel quale sono stati cotti. Cibo freddo, bevanda calda, l’opposto al quale ero sempre stato abituato a pensare e un miscuglio di ingredienti che stonerebbe persino nella credenza di casa. Eppure sono una prelibatezza che consumo, sempre assieme alla mia Jon, molto volentieri nelle serate afose d’estate».

Interessantissimo il capitolo dedicato alla lingua e alla coreanità, all'Hangul, come viene definita la lingua scritta. Una disamina ricca e acuta. Nicola ha studiato seriamente il coreano e, credetemi, non è impresa da poco. «È molto scoraggiante per uno come me che mai ha avuto remore o pudori nel buttarsi in una lingua nuova avvertire di non essere mai compreso e di fare errori talmente madornali nella sintassi da non permettere a chi mi sta davanti neanche di intuire di cosa voglia parlare. Altro scoglio difficile da superare sta nella pronuncia. Ad un orecchio non allenato e suonano apparentemente nella stessa maniera nonostante, per aiutare gli occidentali, vengano trascritti con lettere diverse quali Ch e J [...] Nonostante i miei mesi di contatto con questa lingua, e hanno sempre lo stesso suono. La differenza è talmente impercettibile da poterla riconoscere solo quando si sente la lettera singolarmente, in un ambiente silenzioso ed enfatizzata dal parlante […] è dura, veramente dura, imparare il coreano. È necessaria una passione e motivazione d’acciaio e magari qualche anno in meno di quelli che ho io. Forse, se avessi intrapreso seriamente lo studio di questa lingua 10 anni fa e avessi continuato a vivere a Seul, adesso avrei una discreta conoscenza. Intendiamoci, non è impossibile apprenderla anche ad alto livello, ma diciamo che posso capire lo stupore di un coreano di fronte ad un occidentale che mostri una buona padronanza della sua lingua».

Ampio spazio, poi, viene concesso all'onnipresenza dei fratelli del Nord, così vicini e così lontani. Una striscia di terra di nessuno: uno spazio siderale. Una frontiera invisibile e maledettamente tangibile. Vedi l'esperienza del pittore del Nord.

Gli ultimi giorni, infine... «Alla fine di questa mia seconda esperienza non sento quel senso fastidioso di frustrazione per non essere riuscito a penetrare l’animo di questo Paese. Oggi so bene che questo è un traguardo impossibile, ma sono riuscito ad accettarlo, ho preso il buono che la Corea e i suoi abitanti avevano da offrire senza pretendere comportamenti estranei al loro modo di essere. La mia espansività non ha trovato, per la seconda volta, il terreno fertile di cui ha bisogno per manifestarsi e l’esperienza diretta e profonda che mi propongo sempre di fronte a culture e popoli diversi dal mio non è stata soddisfatta, ma non mi lamento. Questa è la Corea, pensare di cambiarla è un’assurdità».

Il libro di Nicola ci ha fatto felicemente navigare con la mente e la fantasia. Il suo sguardo è divenuto il nostro. Un grande dono che solo un abile scrittore sa elargire. A pieno titolo e con merito il suo testo si inserisce nella migliore letteratura di viaggio.

Sarang he. O, anche, Dae Han Min Guk.

 

Alberto Figliolia

 

 

Nicola Seu, Il vaso di coccio

Edizioni R.E.I., pagg. 156, € 12,00


 
 
 
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