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Valerio Fabbri. CONCERTO # 4 
Romanzo d'appendice, a puntate, al centro della serra di Tellus
Roberto Pagnani,
Roberto Pagnani, 'Mammuth nella grotta' 
05 Settembre 2012
 

segue dalla puntata precedente...

 

 

– Non lo so. Te l’ho detto: vedo solo quello che è successo. Credo che tu abbia fatto un incontro. E se è così, allora prova a seguirlo, e dagli corda. Fa che abbia un seguito.

 

Nelle strade stava già salendo la prima nebbia serale e il pomeriggio di quella domenica così convulsa volgeva al termine: mancava poco. Le ultime ore del pomeriggio si erano già appiccicate alle pietre lucidate dall’umidità nella piazza del mercato e inutilmente si opponevano al loro lento scivolare nei tombini della notte. Forse con la sera si sarebbero calmate anche l’ansia e l’incertezza che avevano regnato sovrane per tutta la giornata.

 

Mirco incalzava il passo per arrivare a casa il prima possibile e giunto davanti al cancello cercò con impazienza le chiavi per entrare. Ormai era fatta.

La chiave era infilata nel portone di legno color beige. Entrò e si ritrovò davanti le scale che portano alla sua stanza da letto al primo piano. Non vedeva l’ora di rinchiudersi nella sicurezza della propria camera. Di non dover parlare e vedere nessuno fino a domani mattina.

I gradini davanti a lui però trattenevano un silenzio quasi risentito, forse addirittura ostile, come se non volessero collaborare a nessun piano di fuga, o almeno così gli sembrava. Mirco però decise di affrontarli e di pestargli quella faccia ammonitrice con falcate pesanti e veloci, prive di rimpianti. A tutto il resto ci avrebbe pensato domani. Al non fuggire davanti a ciò che ci spaventa avrebbe pensato un’altra volta. Domani, per esempio.

Si decise e salì di corsa le scale, ma nelle mattonelle che compongono il pianerottolo, inciampandoci, riconobbe delle figure prendere forma nelle venature del marmo: un pallone, la forma a stivale dell’Italia, la faccia di un robot, una pistola.

Si era completamente dimenticato di quelle figure che ora rivedeva stilizzate, ma che da bambino gli apparivano così nitide e reali, come compagni di giochi. Aveva costruito attorno a loro una serie enorme di racconti e gli piaceva giocarci.

Una volta aveva persino passato tutta la notte di Natale a giocare con loro. Faceva scivolare soldatini di plastica sulla sagoma dell’Italia e quelli che invece si ritrovavano a stare sulla faccia del mostro morivano ingoiati. La pistola inoltre era un’arma di cui tutti si volevano appropriare. Quel Natale era stato il più bello della sua vita. Se ne stava sdraiato sul pavimento a muovere i suoi soldatini di plastica, alcuni con l’elmetto sagomato come quello tedesco, altri con la divisa americana, sulla scacchiera composta dalle sue mattonelle di marmo, alla sola luce dell’intermittenza colorata dell’albero. La scatola del pandoro e la stecca del torrone viste da quella posizione sembravano gigantesche e golose montagne da scalare. Ogni tanto un soldatino si arrampicava sull’albero e, districandosi tra le palline colorate e tra i fili dorati, si lasciava cadere dai rami su quel bottino, ma c’era sempre qualcuno pronto a difenderlo. E così il predatore veniva giustiziato e gettato giù dalla scogliera, cioè da uno spazio tra la ringhiera della tromba delle scale.

Dalla cucina arrivavano i sibili di ammonimento dei genitori che invitavano Mirco ad abbassare la voce in modo che loro potessero ascoltare la televisione e la voce di Marco Columbro che, avvolto da uno smoking e strozzato da un ingiusto papillon, faceva a tutti gli spettatori gli auguri, commosso quasi fino alle lacrime.

Sua madre dovette raccogliere Mirco che dormiva sotto l’albero, come se fosse un regalo, con la scatola del pandoro Bauli, elaborato con due buchi per gli occhi e una mezza luna per la bocca, infilato in testa come un elmo, e lo Sperlari ancora dritto, stretto in mano come se si trattasse di Excalibur.

Ricordava di essersi un po’ svegliato alle risa della madre e a quelle di suo padre, anche lui accorso per guardare la scena, attratto da quel cinguettio di felicità emesso della moglie. Attraverso il sonno e le palpebre a mezz’asta, ricordava anche di averli visti mentre si scambiavano abbracciati un bacio, guardandolo pieni di allegria compiaciuta. Ricordava anche di essersi completamente riaddormentato mentre sua madre gli metteva il pigiama nuovo e lo infilava sotto le coperte. Si era addormentato pensando al regalo che domani mattina avrebbe scartato al culmine della gioia. Ma lui sapeva già cosa si celava dietro quella carta colorata.

Aveva sbirciato dentro l’armadio nella camera da letto dei genitori, solo per conferma. E infatti aveva visto quel che sperava di trovare: un robot azzurro e rosso, con braccia e gambe che si attaccavano al corpo per mezzo di sfere magnetiche. La testa era magnifica, dotata di una mascherina che ne nascondeva la bocca e che conferiva al giocattolo un’espressione al tempo stesso di austerità e di mistero. La stessa espressione che ritrovava in suo padre, ma che non aveva mai avuto il coraggio di confidargli.

Aveva visto quel giocattolo in una vetrina. Ne aveva cantato le lodi alla madre e l’aveva sommersa di promesse per il futuro in cambio di quel regalo. Poi, un giorno ripassò con la madre davanti a quella vetrina, lei accelerò il passo, e lui fece finta di nulla, ma si accorse che mancava il robot. Quella sera andò a frugare nell’armadio e, in mezzo ai maglioni di lana blu, dietro alle camicie rigate, alla destra dell’odore di naftalina, il giocattolo era lì, solo da impacchettare. Era ancora novembre. Si sentì orgoglioso dei suoi genitori. E quell’anno mantenne tutte le promesse che per l’occasione aveva fatto alla madre.

Suo padre morì un paio di anni dopo, riuscendo così a godersi lo spettacolo di un figlio che improvvisamente cambia atteggiamento nei confronti degli altri e che inizia ad avere meno difficoltà con la scuola. Purtroppo però le cose non continuarono ad andare così. Suo padre questo non lo vide. Anzi la sua morte, con ogni probabilità, fu per Mirco la causa della tossicità che ormai avviluppava il mondo intero, rendendogli difficile persino il respiro. Un mantello lugubre che si sentiva posato con la forza sulle spalle e che suo malgrado non riusciva a togliere, impedendogli la naturalezza di ogni suo gesto e la disinvoltura nello stare in qualsiasi luogo.

 

Adesso, era fermo sul pianerottolo, fissava quelle macchie di marmo e in una gli sembrava di riconoscere la faccia del suo robot, che ora non sapeva più nemmeno dove fosse finito. Sono tante le cose che non sapeva più dove fossero finite. Forse tutto era finito. E forse quella per terra non era la faccia del robot, ma quella di suo padre. Non era più sicuro di niente. Forse. Forse. Forse.

 

Entrando in camera guardò la foto di un bambino, quella che teneva nascosta tra le pagine di un libro nella speranza di dimenticarsela per poi ritrovarsela quando meno se l’aspettava, tanto per vedere che effetto gli avrebbe fatto riavercela davanti agli occhi di sorpresa.

Ma non ci riuscì mai, perché la guardava tutti i giorni. A volte anche due volte al giorno. La foto ritraeva un bambino sorridente, mentre teneva la mano sulla testa di un cane che guardava in direzione della macchina fotografica con la bocca aperta e la lingua penzolante.

Riconosceva solo che c’era un sorriso, sulla faccia di quel bimbo che era lui, là dove ora non c’era più niente, mentre il nome del cane accanto a lui nella foto se l’era proprio dimenticato per sempre. Ebbe la chiara ed evidente, palpabile percezione che il tempo era passato. E in quel momento non aveva più nemmeno quel minimo di forza che gli sarebbe servita per sostenere la fotografia tra le dita ancora un minuto e, così, la lasciò scivolare.

Assorto, con lo sguardo la seguì mentre precipitava sul parquet, mentre provava ad arricchire l’aria con i suoi arabeschi tracciati prima di cadere come una foglia umida che ci avvisa dell’arrivo dell’autunno. Quando toccò il pavimento si distese sul letto, spense la luce e chiuse gli occhi. Non sapeva bene il perché, ma sperava che non fosse per sempre. Forse perché aveva la chiara e distinta, palpabile percezione che è normale che tutto fosse e andasse così, che si svolgesse in quel modo. Forse. Forse. Forse.

Questa era la verità. Si inclinava bruscamente il ripiano di una tavola e tutti gli oggetti che ci stavano sopra scivolavano sul pavimento disordinatamente. Un lento e caotico scivolare di cose. Era fatica rassegnarsi, ma doveva per forza accettare che fosse così e, comunque, per oggi decisamente poteva bastargli.

 

Domani sarà lunedì.

 

Tutto nel mondo ricomincerà uguale a sempre, come se niente fosse accaduto, o scivolato. Mai solo per una settimana intera. Circondato soltanto da persone che sono attraversate dalla vita di ogni giorno e che sono intente ad ascoltare unicamente i propri passi, il proprio respiro, le proprie parole per avere la certezza di esistere, il proprio rumore pensando che sia tutto lì, tutte disposte a crederci.

Il trucco in fin dei conti è talmente semplice che da domani ricomincerà a crederci anche Mirco. Avrà delle cose da fare come tutti, e una vita come tutti. Parlerà una lingua che tutti capiranno e ascolterà cose che saprà capire, come i convenevoli, i saluti, i dialoghi dettati dai vari mestieri, i colpi di clacson, la pubblicità, la televisione, le imprecazioni, le richieste di elemosina nei parcheggi dei centri commerciali, i litigi, i baci che le coppie si scambiano appena uscite dai negozi, il fruscio delle pagine in una biblioteca, i fischi acidi usati per richiamare i cani, il nome del quotidiano richiesto all’edicolante o la marca di sigarette richieste al tabaccaio, le parziali conversazioni provenienti da un cellulare appeso all’orecchio di un passante, il rosso che avvampa dai semafori e la fila che si allunga, le casse che si rimettono a lavorare con i loro din- din, la gente che si dice: su fai presto. Un brusio di vita che formicola, pura e semplice. Tutto sarà di nuovo conosciuto, comune.

 

A domani, dunque.

 

Nel sogno di quella notte camminava appoggiato a un bastone. Ma non era un bastone da passeggio di quelli eleganti, verniciati di nero e col pomello d’argento, no, rassomigliava piuttosto a un ramo. Era un bastone nodoso, grosso e rugoso, bitorzoluto, ruvido al tatto e che lo aiutava a compiere i passi, ma che al contempo era assai pesante da portare con sé. Mirco gli si appoggiava con tutto il peso del suo corpo, come se fosse zoppo, benché non lo fosse affatto. Ne sentiva il bisogno e non voleva abbandonarlo, perché temeva di non trovarlo più al suo ritorno. Sapeva bene di non essere zoppo e sapeva che poteva benissimo fare a meno del suo aiuto. Eppure ad ogni gradino della scala che stava scendendo vi si appoggiava. Era spaventato, ma quel bastone pesante com’era non poteva servirgli nemmeno da difesa. Ma, quando entrò nel pianerottolo, da cui si dipartiva il corridoio, ai lati del quale stavano tutte le porte delle cantine, lo strinse ancora di più nella mano sinistra.

Si chiese perché mai lo impugnasse con la mano sinistra, lui che era destro. Ma quando fu sul punto di rispondersi allungò la mano destra per aprire la porta della cantina di sua nonna. La porta sembrava quella di una cella antica ed era chiusa con un vecchio lucchetto arrugginito, ma lui l’aprì senza alcuna fatica, ricordandosi che sua nonna tempo fa gli aveva fatto dono della chiave necessaria per farlo scattare.

Lì dentro si ricordava di avere visto che c’erano ancora i giocattoli di legno di quando sua mamma era bambina, l’albero di Natale che sua nonna teneva chiuso dentro una sportina della Despar per proteggerlo dalla polvere, una vecchia macchina da cucire Singer, una scatola di biscotti danesi di metallo dipinto con un lago pieno di cigni e di barchette che trasportavano persone vestite in stile settecentesco. Quella scatola era esattamente ciò che voleva raggiungere dopo tutte quelle scale, perché sapeva che vi erano contenute le fotografie di tutti i membri della sua famiglia, da oggi all’indietro, fino a quando l’umanità viveva ancora nelle grotte e si scaldava col fuoco. Mirco voleva vedere tutte quelle facce una per una.

Dentro alla cantina c’era soltanto un armadio ed un piacevole odore di muffa. Si sentì attratto da quell’odore così nobile e pieno di spessore, lo seguì nell’aria con il naso come un segugio. Stranamente quell’odore gli ricordava il buon cibo, le ostriche, la cucina francese, formaggi famosi e vini rossi tanto invecchiati da avere sviluppato il sapore del muschio. La fame lo spinse a cercare l’origine di quell’odore e il suo naso gli disse che proveniva dall’armadio.

Sollevò il bastone e con una fatica maggiore di quanto aveva previsto lo usò come se fosse un ariete. Quando la porta si aprì vide dei gradini in terra battuta e umida che si inabissavano nel buio.

L’odore adesso era quello di terra e di pioggia, di radici. C’era il rumore ipnotico delle gocce d’acqua che cadevano. Un rumore amico, femminile, che però gli ricordò la dolcezza fasulla del cantò delle sirene che decimò gli argonauti. Non sapeva se scendere, ma quel suono materno lo stava per addormentare. Doveva decidere. Guardò la volta di quelle scale e vide che le radici degli alberi dei viali che stavano sopra di lui lo bucavano più volte. C’erano le viti che assicuravano le panchine di quei viali ai marciapiedi, che sbucavano proprio lì, sopra alla sua testa. Allora pensò che quel percorso non doveva poi essere tanto pericoloso poiché qualcuno prima di lui era già stato in quel posto se non altro per ragioni di lavoro e fissare le panchine al suolo affinché nessuno nottetempo le rubasse. Vide le tubazioni degli edifici che si alzavano sopra di lui intrecciarsi alle radice degli alberi. Ci appoggio sopra l’orecchio e sentì il brusio delle voci che popolavano il mondo sopra di lui. Riusciva a percepire tutte le parole distintamente, come se stesse semplicemente origliando dalla porta di una camera da letto. Ma non voleva conoscere quei segreti. Sentiva che gli stavano appesantendo il cuore, che il respiro gli stava diventando affannoso. Perciò doveva sfuggire da quelle parole il prima possibile.

Si decise così a imboccare quelle scale e a muovere con cautela i propri passi sui suoi gradini scivolosi e bui, appoggiandosi sempre di più al suo bastone sempre più pesante. Era un sforzo ormai enorme portarlo con sé, ma non voleva abbandonarlo per paura di non trovarlo più al suo ritorno.

Quando ormai le forze lo stavano abbandonando e non era più capace di spostare il bastone, si accorse di essere entrato nella grotta. C’erano stalattiti e stalagmiti colorate con tutte le sfumature del giallo che spuntavano ovunque e a cui bisognava prestare molta attenzione. Sul sentiero brillante di quarzo rosa vide il corpo di un mammut morto, ma dolcemente adagiato su un fianco come se dormisse, la folta pelliccia bruna intatta, le zanne di un bianco accecante. Dal lago azzurro che stava all’estremità del sentiero, oltre al molle rumore d’acqua, giungeva una luce limpida che saliva dal fondo e andava ad accarezzare la volta della grotta arricchendola con preziosi arabeschi d’ombra, che, con la loro danza andavano a comporre diverse parole che Mirco però, a causa della rapidità con cui si trasformavano l’una nell’altra, non era capace di leggere.

Decise allora di tuffarsi nel lago per raggiungere la fonte di quella luce e leggere le parole che da lì venivano proiettate sul soffitto della grotta. Ma quando fece per tuffarsi mise un piede in fallo e scivolò cadendo sulla schiena. Il pesante bastone gli stava appoggiato sulla parte sinistra del petto e lo teneva schiacciato a terra. Non riusciva a spostarlo, non riusciva a muoversi. La fatica stava diventando insopportabile. Non aveva più forze e il cuore compresso dal peso del bastone non riusciva più a battere. Mirco si chiedeva ancora una volta perché avesse portato quel bastone sulla sinistra, quando lui non era mancino. Se avesse fatto tutto come era abituato a fare, ora quel bastone sarebbe stato sulla destra e il cuore sarebbe libero di battere senza scoppiare dalla fatica. Sentiva quel peso enorme sul petto, il respiro che andava sparendo. Non sentiva più il ritmo del proprio cuore, ma solo il gocciolio dell’acqua. Il peso sul torace era enorme. L’ultima immagine che gli attraverso la mente fu quella di una tartaruga capovolta.

 

Lentamente si sentì uscire dall’impasto caldo del suo sonno e avrebbe anche voluto opporre resistenza alla coscienza che, lentamente, stava tornando, se non fosse stato per una fastidiosa sensazione di pesantezza al petto. Effettivamente per colpa di quel dolore al petto che andava aumentando e che gli stava risvegliando anche vaghi ricordi accompagnati da un cupo e imperante malumore, fu costretto suo malgrado ad aprire gli occhi. E si accorse che del resto era del tutto inutile opporre resistenza poiché c’era luce, era giorno, e ormai sapeva che un altra giornata era iniziata.

Poi, all’improvviso si ricordò che era lunedì e allora allungò più speranzoso un braccio fuori dalle coperte per raggiungere la sveglia. Solo in quel momento si accorse che stava dormendo sdraiato con la pancia in basso e che, con un braccio ripiegato sotto di sé, si stava spingendo il petto nella posizione del cuore. Da lì, la ragione di quel dolore che sentiva al petto e che lo aveva svegliato. Si girò quindi su se stesso il più velocemente possibile e già gli parve di respirare meglio. Per ragioni che non riuscì affatto a spiegarsi gli viene in mente l’immagine di una tartaruga capovolta. Infine, dalla sveglia, si accorse che erano le nove del mattino.

Bene! La vita a quest’ora era del tutto cominciata e non correva il rischio di trovare ancora chiuso il bar che aveva scelto dove fare colazione. Non c’era pericolo di sentirsi un nottambulo da film che camminava ancora lungo i confini di un attacco d’insonnia.

Si alzò e si infilò nel bagno. Si guardò allo specchio e tutto andava bene, perché riconobbe senza alcuna fatica chi gli comparve davanti: era lui. Quindi, senza alcuna paura, si sentì pronto per uscire, perché gli oggetti che gli stavano di fronte gli restituivano se stesso.

 

 

[...] Il seguito alla prossima puntata

 

| | | | 4ª puntata | |   | | |

© Concerto di Valerio Fabbri, illustrazioni di Roberto Pagnani


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