Eins, o Schwester, sag ich dir gern; dass einzig die Treue
Das erschütterte Herz, über dem Strudel erhält.
Lang schon schlief mir innen das Wort. Doch öffnet
[sich heut erst
Kühn der befangene Mund, weil ihm mit deutender Hand
Irgend ein Gott anruft; denn stumm sind Jahre;
[doch plötzlich
Bricht aus verschlossener Brust Fülle
[des schönen Gesangs.
Una cosa, sorella, a te dir mi piace; che solo fedeltà
Il cuore scosso al di sopra del vortice trattiene.
A lungo già in me sopita giacea questa parola.
[Solo oggi però s’apre
Ardita la bocca intimidita, poiché, con cenno di mano
Non so qual Dio lo chiama; si è sì muti per anni; ma repentino
Erompe poi dal petto chiuso pienezza di bel canto.
Questi pochi versi, tratti da una delle sue Elegie, sembrano riassumere l’intento che caratterizza l’intera produzione di Rudolf Alexander Schröder (1878-1962), un artista assai proficuo dai molteplici talenti. Architetto d’interni, scrittore, poeta, traduttore e, dopo l’esperienza sconvolgente della guerra, anche uomo di chiesa, autore di prediche faconde e di inni sacri che ancor oggi appartengono al canone della chiesa luterana. A questo personaggio, poco noto anche al pubblico tedesco nonostante la sua variegata attività, Brema, sua città natale (grazie alla generosità di una classe imprenditoriale che da sempre coniuga con discreto ma efficiente mecenatismo affari e cultura), dedica un convegno internazionale [PDF programma] in occasione del 50° anniversario della morte. L’obiettivo è quello di far meglio conoscere la vita e la poliedrica creatività di Schröder, trascurato e talvolta addirittura bistrattato da una critica non sempre sufficientemente competente.
Per introdurlo ho scelto un’elegia, genere lirico notoriamente amato anche da Goethe, che per Schröder fu modello irrinunciabile, ma avrei potuto altrettanto bene ricorrere a un epigramma, a un’ode, a un inno, a un sonetto o a qualsiasi altra forma di composizione in versi, perché Schröder si cimentò con tutte. Per questo l’autorevole critico Emil Staiger affermò che in lui “l’umanesimo s’è fatto poesia” e il poeta Karl Krolow lo definì un “maestro” della forma classica antica.
I versi sopra citati (nell’originale distici elegiaci) parlano della “fedeltà” come di un sommo valore che si deve avere il coraggio di proclamare a gran voce. E fedele a se stesso Schröder lo fu fino alla fine della sua lunga, intensa vita, caratterizzata, come i versi qui tradotti, da un’incondizionata adesione alla disciplina della tradizione, di cui il poeta si sentiva erede e prosecutore. Per questo molti lo liquidarono come un semplice epigono. I più perspicaci, e fra questi Theodor W. Adorno, ammirarono proprio la capacità di Schröder di dar vita a nuovi germogli, pur seminando su un terreno già più volte coltivato, ma da lui dissodato fino all’eliminazione di ogni durezza e grossolanità.
Schröder non volle essere all’avanguardia; il suo intento non fu quello di esporre nuove tavole con leggi nuove che stravolgessero le precedenti. Anzi, se mai tentò di recuperare quanto della tradizione, con i vari “adattamenti” che si erano verificati nel pensiero e nell’arte, era andato perduto. Così tradusse Omero (prima l’Odissea, poi l’Iliade) e Virgilio (prima le Georgiche, poi l’Eneide), conformemente agli originali, in esametri; mantenne nelle sue versioni metro e struttura delle Odi di Orazio; nelle versioni di Shakespeare tentò di riprodurre i Blankverse (pentapodie giambiche non rimate) del modello; tutti i drammi classici francesi (Racine, Corneille, Molière) da lui tradotti sono in alessandrini, ossia in un metro assai poco congeniale ai tedeschi, che i traduttori che l’avevano preceduto avevano vuoi mutilato, vuoi sostituito con altre forme prosodiche. Il suo desiderio di restituire, prima di ogni altra cosa, il “melos” degli originali – il suo criterio precipuo nella traduzione era: “prima la musica, dopo le parole” – testimonia anche del suo talento musicale, che si espresse soprattutto nella composizione di canti liturgici, in cui approfittò, rinnovandola, della lezione di Lutero.
Ma sarebbe erroneo vedere in questa sua ansia “restaurativa” un atteggiamento retrivo. Schröder non ebbe nulla del fanatico. A chi lo accusava di poca originalità, rispondeva che gli faceva piacere poter essere un “ripetitore”, a chi gli rinfacciava come debolezza la sua “svolta” religiosa, reagiva con una fede incondizionata in Dio e pur nella sua profonda adesione alla chiesa protestante, rimase legato da profonda amicizia a Hugo von Hofmannsthal, cattolico convinto, e a Rudolf Borchardt, altro grande poeta e traduttore, ingiustamente poco noto, figlio di un ebreo convertito vittima della persecuzione razziale, con cui formò, finché i due amici vissero, un fecondo “terzetto”.