«Rapporti che devo cambiare,/ lo stomaco dentro al giornale/ per me, e devo restare lucido./ E quanta strada che verrà,/ ma non mi avrai; io non mi staccherò./ Guarda la tua ruota e io ci sarò.// Cento e più chilometri alle spalle/ e cento da fare./ Di sicuro non ci sarà più/ qualcuno dei miei./ Tutta quella gente che ti grida/ “Non ti fermare”./ E tu che mi vuoi lasciare./Non ti voltare; sai che ci sarò».
(Enrico Ruggeri, Gimondi e il Cannibale)
«A volte lui se ne va via, non mi sta neanche ad aspettare/ mi lascia con Bitossi, mi sembra di impazzire/ tanto che mi vorrei ritirare e sento in un minuto/ tutti i ciclisti del mondo che hanno bisogno di aiuto/ dalla propria ammiraglia ma non lo sanno dire».
(Elio e le Storie Tese, Sono Felice)
Come Pier Luigi Bersani o Silvio Berlusconi. Però più politicamente corretto di loro. Felice Gimondi è nato il 29 settembre come i due politici rivali (rivali?). Felice Gimondi, di professione ciclista, ora ex data la classe anagrafica (1942), mai una parola di troppo (Silvio?), una coerenza d'altri tempi (Pier Luigi?). Soprattutto un vincente, anche quando il Cannibale, tale Eddy Merckx, lo batteva amabilmente e impietosamente.
Sono settanta gli anni che il grande sedrinese compirà il 29 settembre. Da Sedrina, all'imbocco della Val Brembana – luogo di ponti, patria del gran pittore Pietro Ronzoni (1781-1862) e terra di ciclisti: vi sono, difatti, nati anche Giovanni Gotti, attivo negli anni Trenta, e il più vicino a noi nel tempo Wladimir Belli – ai palcoscenici più prestigiosi, senza mai perdere il lume della ragione e il fuoco della passione: umile e forte, sempre.
Felice, il più grande. Uno dei soli cinque ciclisti a vincere Tour de France, al suo primo tentativo nel 1965, da esordiente, Giro d'Italia, tre volte (1967, 1969, 1976), e Vuelta a España (1968). L'unico con l'imprendibile Merckx ad avere vinto, con le tre grandi corse a tappe, anche Parigi-Roubaix (1966), l'Inferno del Nord, domandone il terribile pavé, Milano-Sanremo (1974), considerata il mondiale di primavera, Giro di Lombardia (1972), la classica delle foglie morte reputata il mondiale d'autunno, e il Mondiale, con la m maiuscola, su strada, anno di grazia 1973, allorché ribaltando il pronostico bruciò in volata il rivale di sempre e il pur formidabile Freddy Maertens. Fu, quest'ultima, un'impresa clamorosa. Perché Felice, corridore completo quant'altri mai, era un uomo educato e di stile, ma dal carattere d'acciaio: lui non mollava mai, mai.
Avrebbe dovuto costituire una terribile frustrazione rincorrere quel diavolo belga, quel mostro mai sazio di vittorie, e probabilmente tale sentimento allignava. Ma, pedalata dopo pedalata, il nostro era lì. Duro come la pietra delle montagne, malleabile come un giorno nuovo, serio come un lavoratore delle sue parti e imprevedibile come una nuvola.
Si dice che Gimondi ha vinto molto meno di quanto meritasse per via dell'ingordigia di Eddy. Sbagliato. Il nostro ha dovuto dare così tanto per tenere la ruota che infine la sua ruota ha potuto metterla davanti molto spesso al traguardo, più di quanto si possa credere e di quanto abbia saputo fare qualsivoglia altro ciclista italico. Compresi, scusate la quasi profanazione, un certo Fausto e un certo Gino. Una provocazione non politicamente corretta? Certo, anche. Tuttavia rileggetevi lo scudo delle vittorie del felice Felice...
Apriamo i festeggiamenti con un certo anticipo affinché nessuno se ne dimentichi. Felix de Mondi o Nuvola Rossa, per dirla alla Brera, li merita tutti.
Alberto Figliolia