segue dalla puntata precedente...
– Allora, un caffè.
La scena, che si stava svolgendo davanti a Mirco, stava letteralmente spalancandogli la bocca, lasciandolo senza parole. Perché non capiva se tutto avesse un senso che doveva interpretare o se stesse succedendo per puro caso.
All’improvviso, tutto sembrava semplice e complicato allo stesso tempo. Oppure era solo il gusto di una vendetta divina che si stava soddisfacendo, rigirandogli il medesimo scherzo che poco prima lui stesso aveva fatto ai danni della cameriera dell’altro bar.
Fatto sta che Mirco cominciò a sentire molliccio il pavimento che aveva sotto ai piedi, e le pareti del locale, della via, del mondo stavano assumendo movenze gommose e ostili, come se gli stessero annunciando uno svenimento improvviso quanto imminente.
A saper leggere i segni, se ne poteva di certo ricavare qualcosa. Magari un evento futuro, la data di una morte, o le indicazioni per cercare la verità all’interno delle mura ristrette della propria vita.
Tutto gli era sempre sembrato improvvisamente falso, ostinato, obbligato, negli altri come in se stesso, quella mattina che aveva dovuto bersi un Biancosarti tanto per fare il contrario di chissà chi. Gli mancava solo di capire cosa facesse scaturire in lui quelle sensazioni di lontananza e smarrimento che poi lo spingevano a compiere azioni tanto irragionevoli.
Ma ora questa botta di realtà, che ancora non capiva se poteva aiutarlo, gli faceva male. Come se gli si fosse rivelata l’esistenza di qualcosa che fosse a conoscenza della trama del suo destino, ma che a lui, nondimeno, continuava a rimanere in ogni modo segreto e oscuro, e che ora stava venendo usato con intenzioni che, per quanto ne sapeva lui, potevano anche non essere benefiche.
In quel momento allora, tanto per fare qualcosa, decise di spostare il posacenere con la scritta Beck’s venti centimetri alla propria destra. E quel movimento l’aiutò a concentrarsi sulla realtà. Si tirò indietro appoggiando le mani ai braccioli della sedia, e, dopo aver letto la pubblicità della Coca-cola sparsa in tutto il bar, fece un grande respiro e iniziò a pensare alle persone. Come se fosse una sfida.
Mirco cominciò a pensare alle persone che erano in quel momento nella sala. Erano tutti molto probabili, anzi di più, ne dedusse che erano persino possibili. I loro discorsi potevano valere per ogni contesto: qualcuno parlava di una ragazza conosciuta la sera prima in non so quale locale, gli altri ascoltavano, e ogni tanto coloravano l’accaduto mimando col movimento dei lombi qualche apprezzamento.
Ma, ad un certo punto, la giacca della persona che parlava iniziò a mostrarsi come niente di più di una giacca nera, che sagomava in maniera netta e precisa una persona, che parlava col bianco di una inequivocabile camicia che spuntava di qua e di là. Era arrivato ad una specie di grado zero della realtà. Tutto era solo ciò che era.
Tutto ciò che accadeva in quel momento era così e non poteva essere diversamente. All’improvviso non c’era più niente da dire e, forse, proprio per il semplice motivo che non c’era mai stato niente da dire. E nemmeno da fare. Era tutto annesso e connesso con l’esistenza: come una sagoma che si stagliava all’improvviso nel riquadro di una porta spalancata su un cortile pieno di sole, che, d’accordo, ci colpisce, ma che non ci interessa affatto di chi sia. Tutta l’esistenza era come una pura immagine che, sì, impressionava, ma su cui non si poteva discutere.
Però, forse qualcosa, di diverso e con un senso, esisteva ancora. Forse, però. E specialmente solo in cima al molo di quel paesino poco distante, solo una decina di chilometri dalla sua città, dove probabilmente c’era ancora uno dei soliti pescatori che, seduto su un piccolo sgabello da campeggio, fissava la punta della canna da ore, al freddo o sotto la pioggia, con religiosa attenzione. Forse lui, quel pescatore, creando una scena così impossibile, non si riduceva a un piccolo quadretto da incorniciare e da appendere sul muro dell’esistenza, ma acquistava un senso, quasi poetico, di cui Mirco avrebbe potuto persino parlare con Federico, che stava seduto al bar con lui.
Un amico di Mirco aveva persino scritto un libro su un incontro che, su quel molo, in realtà non era mai avvenuto. L’incontro, appunto mai avvenuto, tra il padre di quell’amico e Pier Paolo Pasolini, i quali avevano sì avuto veramente a che fare con quel luogo, e verosimilmente lo stesso giorno, ma che in realtà non si erano mai visti né tanto meno conosciuti.
Quel suo amico è un giornalista. Normalmente i giornalisti sembrano in eterna pausa pranzo e indossano ininterrottamente la stessa giacca per un anno intero, come a dire che non hanno il tempo per comprarsene un’altra. O addirittura per cambiarsela, sempre impegnati come sono. L’alito di quelle persone di solito ha l’odore gretto del fegato macerato nell’aglio e quando ti parlano sei sempre costretto a trattenere il respiro per evitare qualcosa che non ricorda soltanto un cattivo odore, ma piuttosto un contagio.
Daniele, l’amico giornalista di Mirco, non faceva certo eccezione. Era così anche lui. Certo scriveva bene, ma probabilmente era una cosa che aveva imparato a fare quando ancora andava al liceo. La sua fretta era perenne e perennemente esibita e sembrava tradire una costante e febbrile ricerca di notizie o delle verità che stanno dietro ad esse, ma, invece, serviva solo a nascondere il fatto di volersi sbrigare il prima possibile dal lavoro per non aver più nulla da fare per tutto il resto del giorno e starsene in giro soltanto per oziare.
Del resto, non era neppure da considerarsi un caso puro e semplice, il fatto che un giornalista avesse scritto un romanzo su un incontro che non era mai avvenuto, ma che tuttavia dalla realtà prendeva le mosse e che da essa traeva il suo sostentamento e la propria possibilità. Qualcosa doveva pur voler dire tutto questo.
Dunque, il racconto parla del padre di Daniele che, essendo un accanito giocatore d’azzardo, una notte si ritrova spennato in cima al molo in questione, senza avere il coraggio di ritornare a casa. Pieno di vergogna e di paura si appoggia il muretto e comincia a fissare il mare. Non è la prima volta che si riduce in uno stato simile e sebbene non possa fare a meno delle carte, non ne può più. Non ne può più di se stesso, della sua dipendenza, della vita e forse anche del mare. Si toglie l’impermeabile, lo piega con cura sul muretto e continua a fissare il mare aspettando che il coraggio di saltare si impadronisca di lui e della sua miserabile debolezza.
In quel momento così disperato, incontra Pasolini, che con i propri pensieri si aggira da quelle parti meditabondo e in cerca di ispirazione. Che Pasolini, per motivi suoi, frequentasse quel posto, di tanto in tanto, non è cosa falsa, anzi è confermata in un più di un suo scritto.
Con lui il disperato giocatore intrattiene ragionamenti sulla vita, sul luogo dove sono, sul mare, sulla città, su chi è venuto prima di loro, su cosa è forza e cosa debolezza. E questo infonde il calore e l’affettuoso coraggio necessari affinché il giocatore decida di ritornare sui propri passi, e non solo quelli che lo riportano a casa.
Tutto questo sarebbe stato possibile: Pasolini in quei giorni era effettivamente in quel posto, su quel molo, così come lo era veramente il padre giocatore di Daniele. Questi aspetti del romanzo sono accaduti davvero e sono persino documentati.
Così, se Pasolini e il padre di Daniele si fossero veramente incontrati, e forse in sostanza la cosa non è accaduta per un soffio, avrebbero potuto benissimo parlare di quelle cose.
Il primo avvolto in una sahariana beige, gli occhiali spessi dell’intellettuale che ti guarda in modo penetrante, la faccia solcata da quei due tagli ai lati della bocca, il secondo, invece, senza soldi, senza orologio, senza più dignità, con la cravatta slacciata e l’impermeabile appoggiato sul muretto del molo, con l’indecisione tra chi deve buttare in acqua, se se stesso o l’indumento. Tutto sommato, molto più simili di quanto non possa sembrare in apparenza a prima vista.
Pasolini allora gli si sarebbe parato senza dubbio alle spalle e, a furia di guardargli la nuca, sarebbe riuscito a farlo voltare. Il corso dei pensieri sarebbe cambiato nel giocatore che, quindi, si sarebbe per lo meno distratto dai suoi intenti, e le due persone sarebbero diventate solo persone che si stavano parlando, nude, crude, forti delle proprie debolezze, condannate alla solitudine dai loro vizi amati per una vita intera.
Non avrebbero potuto che parlarsi due persone così, ma era come se non lo stessero facendo. Tanto è vero che me li immagino di spalle ognuno con le mani in tasca intente a guardare, se possibile, più lontano dell’orizzonte. Lo avrebbero fatto senza alcun motivo trascendentale, lo avrebbero fatto solo perché in quel momento sarebbero stati puri, semplicemente uomini. E, in quel contesto, ci sarebbe stato bene, essere uomini. Esteticamente bello come un quadro di Friedrich. Sarebbe stato bello, se tutto questo fosse successo davvero.
Anche il libro era bello, ma non era reale. E non era un caso.
Ma forse questo non importava. E forse una cosa che non era esistita, non era per questo meno vera di una cosa che, invece, era esistita realmente.
Tuttavia, per Mirco la cosa più importante era che quel libro l’avesse scritto proprio un giornalista, perché questo non poteva o non doveva essere un caso.
Anche di questo avrebbe potuto parlare a Federico e dirgli di un senso che appiccichiamo a quelle cose di cui in realtà stentiamo persino a descriverne i contorni. Avrebbe voluto dirgli quanto sia impossibile parlare di qualcosa che non abbia almeno un po’ di senso. Avrebbe voluto dirglielo, a quella persona che colleziona oggetti che non sa a cosa servano. Avrebbe voluto alzare persino la voce, lui che colleziona monete rare per quanto sono comuni. Alzarsi lentamente, sistemare con eleganza la propria postura e dire:
– Non importa nulla delle cose. Anche il loro contrario è uguale.
Ma, mentre il cucchiaino del caffè si faceva rigirare dalle sue mani per mischiare il contenuto della tazzina, il pensiero si rivolgeva alla strada che appunto unisce quel paesino, dove c’è il molo a cui pensava poco prima, con la città dove ora erano seduti loro due, Mirco e Federico.
Quella strada dove ogni giorno immancabilmente Mirco incontrava di buon mattino un mucchio di persone atletiche della sua città mentre facevano dieci chilometri di corsa fino al mare e dieci per tornare indietro in modo da mantenersi in forma. E si sentiva sempre in colpa, vedendole, per avere bevuto troppo la sera prima. Si arrabbiava, anche, per il loro rinchiudersi in quella routine fatta di salute, competizione e tentativi di togliersi d’addosso la patina del lavoro, della casa, della paura dell’insonnia, del cane da portare fuori.
– Ma con tutto quel correre che fanno, almeno una merda l’avranno pestata?
– Scusa? Che dici? – E vide che Federico gli stava sorridendo con sguardo interrogativo.
– Scusami tanto, stavo solo pensando.
– D’accordo, questo lo immagino. Ma a cosa stavi pensando per dire una cosa simile?
– Niente di importante. Perché non ci vediamo una di queste sere? Ora devo fuggire e avrei piacere di parlarti con più calma.
– Certo, magari vieni da me e ti mostro la collezione.
– Grazie, ma preferirei non vederla.
– E perché? Sembrava interessarti.
– Sì, ma… Ecco, preferisco credere che da qualche parte esistano oggetti che non conosco. Ho troppa paura di riconoscerne qualcuno. – E dopo essersi scambiati i numeri di telefono si salutarono.
Chissà che stava facendo Sandra in quel momento.
Troppi eventi strani e illeggibili andavano a colpire Mirco, col risultato di non fargli sapere più il senso da dare a ciò che gli era appena accaduto: il presagio di un evento propizio o piuttosto l’avvento di qualche sfortuna in agguato sopra le sue spalle? Tutto era sfilacciato dentro di lui e ora gli sembrava senza né capo né coda.
Dove sarà stata Sandra in quel momento?
All’improvviso ricordò che quando era bambino, in fondo alla sua strada c’era un capannone con uno spiazzo non asfaltato sul davanti. I sassi davanti al portone arrugginito sembravano comporre un sogno da realizzare nel futuro, come un mosaico: tutto era vicino e bastava saperlo leggere nel palmo di una mano, semplicemente comporlo.
La siepe alla sinistra dello spiazzo ghiaiato raccoglieva grasse cartacce appallottolate, nylon e pacchetti vuoti e avvizziti di sigarette, perché il vento raggruppa, da sempre, soltanto i lembi di una vita sfilacciata.
Dentro al capannone, un vecchio falegname, stringendo tra le labbra un sigaro varicoso, gli parlava di calcio e soltanto ora riconosceva l’odore di vino che usciva dal suo alito. Era un signore che quando si giocava a calcio utilizzando la porta di metallo del capannone non si arrabbiava mai, anzi, qualche volta usciva e, con il toscano tra le dita, si divertiva anche lui a tirare qualche rigore.
Raccontava che da giovane aveva giocato nel settore giovanile del Bologna e che solo un infortunio l’aveva costretto a ritirarsi per seguire l’attività che suo padre svolgeva da una vita. Il falegname, appunto.
Diceva tutto questo stando seduto sul pallone, col camice marrone da lavoro aperto, adornato dai trucioli di legno che aveva anche mischiati in mezzo ai capelli, e lasciandosi scappare, attraverso i baffi ingialliti dalla nicotina, ormai in tinta col suo camice, le parole che descrivevano la sua vita assieme a grassi anelli di fumo.
Poi si alzava e impartiva a Mirco qualche lezione su come calciare di piatto o di collo pieno. Infine, senza aggiungere ulteriori parole o cenni di saluto, si scrollava trucioli e cenere da indosso e si infilava di nuovo nel buio del capannone per rimettersi al lavoro.
Ogni volta Mirco pensava di averlo urtato in qualche modo, perché quel congedo si sposava male con la cordialità con cui fin a poco prima aveva giocato con lui. Temeva che la volta dopo non si sarebbe più seduto sul suo pallone o, peggio ancora, non gli avrebbe più concesso di calciare nella porta metallica del capannone. Eppure il giorno dopo la scena si ripeteva uguale a quella del giorno prima. In modo che ogni volta fosse sempre più rassicurante.
Adesso che tutto è finito, ingoiato nella pancia della storia, digerito, non ci sono più il vecchio e nemmeno il capannone, e la siepe è cementata in un piccolo cortile. Nessuno di loro si ricorda di Mirco, e Mirco ormai di loro ha immagini che non sono più neanche tanto nitide e, molto probabilmente, tra non molto non avrà più nemmeno quelle.
Il loro posto sarà occupato solo da parole: vecchio, vino, siepe, capannone, trucioli, calcio, sigaro, fino a quando non penserà più nemmeno a quelle. Allora, anche quel boccone di passato avrà cessato di esistere.
Forse rimarrà soltanto un storia da raccontare a qualcuno, se ancora esisterà qualcuno: c’era una volta un capannone con dentro un vecchio che fumava sigari varicosi… Una specie di poesia arricchita di senso posticcio.
[...] Il seguito alla prossima puntata
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© Concerto di Valerio Fabbri, illustrazioni di Roberto Pagnani