C'è stato un momento in cui tutto sembrava possibile. È stato il 4 giugno 2009 quando Barack Obama, da poco presidente degli Stati Uniti dopo la catastrofica presidenza Bush, tenne un discorso all'università del Cairo, per offrire all'Islam e annunciare al mondo una nuova politica di pace e di cooperazione internazionale volta alla costruzione di un'unica, pluralistica comunità mondiale. Il giorno dopo Obama sarebbe volato a Buchenwald, per ricordare la tragedia ebraica, e intanto quel giorno, nel cuore del mondo arabo, egli annunciava il ritiro dall'Iraq, la rinuncia degli Stati Uniti a decidere quali governi dovessero avere i popoli, la volontà di collaborare in condizioni di parità con i musulmani (quelli che hanno “inventato la bussola”) e il fermo proposito di portare a termine la sofferenza palestinese realizzando con Israele la soluzione dei “due popoli in due Stati”.
In pochi anni queste speranze sono cadute. Obama, braccato dalla destra interna, osteggiato dai vescovi cattolici, tenuto sulla corda dagli avversari dell'assicurazione sanitaria, perturbato dalla crisi economica e dalla speculazione finanziaria, si è ritirato nella dimensione domestica, non è riuscito nemmeno a chiudere Guantanamo; non ha fatto altre guerre, ma sembra che nella dimensione internazionale gli Stati Uniti, se non fanno la guerra, non sappiano fare altro.
Così oggi la scena mondiale è un'arena in cui si scontrano in una lotta senza quartiere enormi interessi economici e finanziari, quando occorrerebbe un regolamento internazionale sul modello degli accordi di Bretton Woods stipulati (e poi stracciati) dopo la seconda guerra mondiale; mentre nessuna Potenza - né gli Stati Uniti, né l'Europa, né la Russia, né la Cina -- ha una politica per il mondo e non solo per sé.
In Medio Oriente non si fa che raccogliere i cocci delle politiche sbagliate perseguite dall'Occidente, soprattutto da quando esso non è stato più frenato dal contropotere sovietico. Le due guerre all'Iraq non solo hanno distrutto l'Iraq, l'hanno disgregato e vi hanno introdotto una violenza permanente ed endemica, ma hanno fatto saltare gli equilibri di tutta l'area, scatenando ulteriori fattori di disgregazione e di conflitto. L'Egitto, perso il suo ruolo e uscito dalla dittatura di Mubarak, vede il prevalere dei partiti religiosi e non sa nemmeno se ha un Parlamento legittimo o meno. La Siria è in piena guerra civile, e la comunità delle nazioni vorrebbe ma non può mandare le truppe per sedare i disordini: l'intervento in Libia e l'uccisione di Gheddafi con la copertura di una legittimazione internazionale sono delitti troppo recenti, per essere ora ripetuti in Siria, e del resto la Russia e la Cina si oppongono. In Afghanistan il bel progetto di un Paese moderato non fondamentalista instaurato dalle culture e dalle armi dell'Occidente è fallito, e non si ha nessuna idea di come lasciare l'Afghanistan agli afghani. L'Iran si compiace dell'isolamento prodotto dal suo estremismo e continua a sviluppare il nucleare civile, che comunque in quel contesto è una bomba, per il quale prima o poi sarà punito.
In Palestina il conflitto tra Israele e il popolo arabo di Gerusalemme e della Cisgiordania è senza soluzioni; la prospettiva a lungo termine è oggi quella di un Israele del tutto assimilato al Sudafrica dell'apartheid prima di Mandela, e di un popolo palestinese la cui disperazione passa di generazione in generazione.
La realtà è che il vecchio mondo che faceva perno su Gheddafi, Mubarak, Saddam Hussein, Sharon, Arafat, Assad è stato distrutto, ma nessuno ha pensato di porre mano a un ordine nuovo.
Che tutto ciò possa essere ignorato o guardato come se niente fosse, è escluso dal fatto che la tragedia molto spesso si fa viva, e contende lo spazio allo spread e ai Mercati sugli stanchi giornali e nelle fatue televisioni dell'Occidente; a Damasco saltano in aria i ministri della difesa e dell'interno, e la guerra si incrudelisce, in Bulgaria salta in aria un pullman di turisti israeliani, così da aggiungere nuove fascine al fuoco di un conflitto già troppo crudele.
È impossibile rimettere insieme i cocci di queste politiche distruttive.
I “moderati”, quelli che non vogliono cambiare niente e lentamente, pensano che tutto debba continuare così, magari con qualche “missione di pace” in più e con più cacciabombardieri F 35 da 150 milioni di dollari l'uno, tanto cari al nostro ammiraglio ministro della difesa.
E invece c'è tutto, e subito, da cambiare; occorrerebbe ripartire dalla visione e dai progetti del 4 giugno 2009; occorrerebbe ripartire da un'idea ricostruttiva dell'unità del mondo, come quella che fu alla base dell'istituzione delle Nazioni Unite, come quella che cinquant'anni fa irradiò il suo splendore dalle pagine della Pacem in Terris di Giovanni XXIII.
Raniero La Valle