In quel momento la televisione era accesa con il suo blaterare continuo che avidamente si stava diffondendo in ogni angolo del bar e, oltre a ciò, la sua finzione stava assumendo, come al solito del resto, i toni purpurei e la precisione studiata dei tocchi di mascara fatti attorno agli occhi di una ragazza, che fa di tutto per apparire più bella di quanto non sia realmente, stava, insomma, acquistando le caratteristiche di una bellezza sintetica e simulata.
Come poteva il mondo, la realtà, anche solo lontanamente assomigliare alle immagini televisive, corrispondere a quanto veniva trasmesso o proiettato dal suo schermo sugli occhi di tutti?
Mirco infatti sentiva di sporcarsi le mani ogni volta che toccava concretamente quel mondo che i programmi televisivi non riuscivano e non volevano raccontare davvero.
Più di ogni altra cosa la bellezza, almeno quella che ci viene proposta dalla televisione come stile di vita, ha sempre la faccia invidiabile di chi si alza tardi al mattino e per il resto della giornata non ha altro da fare che curare la propria estetica. Non è possibile, se non in quei rarissimi casi che vanno a costituire più che altro delle eccezioni, nella vita quotidiana e nella realtà delle persone comuni. Per farla breve non c'entra niente con il mondo, la bellezza che attraverso la televisione ci viene proposta come reale.
E Mirco del resto quella mattina si guardava attorno con fatica e faticosamente vedeva tutto diverso, rispetto a ciò che le apparenze volevano propinargli attraverso immagini edulcorate dalla finzione televisiva. Il suo mondo non era fatto delle immagini che balenano sugli schermi. Lui, sotto a splendide e costose giacche, dentro vetture luccicanti, riconosceva solo il desiderio di una vita strabiliante, che però in pochi potevano realmente permettersi, ma che tutti ugualmente volevano, potendosela però soltanto comprare a rate.
In sostanza, qualcosa che si riduceva a poco, a una manciata di ciò che non sei, ma che a tutti i costi devi imparare a essere.
Nel bar dove Mirco si trovava in quel momento, un vecchietto se ne stava solo e, fermo col bicchiere vuoto, fissava un posacenere. Poi finalmente si decise e avvicinandosi al bancone ordinò un Biancosarti.
Mentre glielo serviva, la barista pensava già al resto che gli doveva dare e si riempiva in silenzio la testa di addizioni e sottrazioni.
Dentro al bar, tra le persone che circondavano Mirco nessuna lo aveva notato, quel vecchietto. Perché era fuori tiro. Quindi non esisteva. E nemmeno esisteva la cosa tanto stupida che si stava bevendo. Forse se fossero state le cinque del mattino avrebbero avuto entrambi più senso.
Ma anche Mirco, ora, si stava avvicinando al bancone col desiderio di far parte anche lui di quella scena:
– Un Biancosarti, per favore.
E dentro di sé si gustava già lo stupore a cui doveva avere costretto, con quella strana e doppia ordinazione, quella barista così alienata e scocciata. Magari l'aveva fatta scendere sulla terra dalla nube inconsistente e sprezzante dei suoi pensieri.
Prima di quel momento, Mirco non aveva mai bevuto un Biancosarti in vita sua, ma il gioco valeva la candela.
Era l’ora dell’aperitivo e tutti ordinavano cose da bere molto più alla moda, colorate e ostinatamente decorate con scorze d'arancia, fette di lime, cristalli di zucchero di canna sul bordo del bicchiere.
Mirco è giovane e senza dubbio la barista si aspettava che anche lui ordinasse qualcosa come un Americano, o uno Spritz, al massimo una Tassoni-Aperol.
E sperava anche che fosse proprio così, perché solo quelle cose sapeva fare dietro un bancone. Infatti, solo per soddisfare l'ordinazione fatta poco prima dal vecchietto aveva dovuto vagare smarrita con l'indice puntato davanti a tutte le bottiglie allineate sullo scaffale alle sue spalle, fino a trovare quella giusta quasi per caso e a speranze ormai ultimate.
Ora, senza dubbio, si stava chiedendo se quello era il giorno degli scherzi. Due Biancosarti, che nemmeno sapeva cosa fosse, uno dietro l’altro. Prima nessuno glielo aveva mai richiesto.
Era giovane quella barista, molto. Si capiva che era a lavorare solo perché non aveva voglia di andare a scuola. Non doveva neanche avere mai visto un ubriaco in vita sua e forse anche lei non si era ancora ubriacata nemmeno una volta in vita sua.
Il Biancosarti avevano smesso di berlo che lei probabilmente doveva ancora nascere e quindi, sicuramente, non ne aveva mai visto neanche la pubblicità in tv.
Sì, proprio così, cara barista, oggi era davvero il giorno degli scherzi e Mirco aveva giusto il tempo di godersi il suo, la faccia sbalordita di lei, e di farle capire che della vita lei non ne capiva proprio un cazzo: perché quando non si ricordano le vecchie pubblicità della tv, allora non si appartiene alla storia e non si possiede neanche un brandello di vita in comune con gli altri.
Si fa parte di un determinato gruppo o di una società solo quando si condividono le stesse immagini pubblicitarie. E Mirco voleva farla sentire isolata, esclusa, atomizzata, lei, che gli sembrava, e che molto probabilmente si credeva, in tutto e per tutto uguale agli altri, ben inserita, amalgamata, persino desiderabile dagli altri…
Non appena Mirco avrà finito di bere il suo bicchiere e di fare le proprie scrupolose riflessioni, andrà al mercato dell’antiquariato per salutare un suo amico.
La terza domenica di ogni mese difatti è allestito un mercatino dell’usato sotto ai portici del centro della città. Una persona dai capelli grigi arruffati se ne sta sempre affondato fino al naso in un eschimo dal verde stinto, seduto in mezzo al freddo pulito di novembre.
È l'amico di Mirco, quello a cui, ogni volta che il mercatino è allestito, lui non manca mai di portare vin brulé, tanto per fargli compagnia, mentre assieme sorvegliano lo scintillio dell’ottone disposto sulla bancarella, composta da due tavole da birreria accostate e ricoperte con un telo verde e cerato, di quelli usati per fare campeggio.
Si sono conosciuti perché Mirco era andato da lui quella volta che doveva comprare una moneta che lo interessava particolarmente per la sua collezione, e quella persona si era impegnata tanto per procurargliela, riuscendoci nonostante Mirco non fosse capace di trovarla da nessuna altra parte.
Non che quella moneta avesse un valore particolarmente alto o fosse difficile da trovare, anzi, era vero proprio l’esatto contrario, valeva cioè talmente poco che nessuno voleva accollarsi l'impegno di procurargliela, ed era talmente comune che nessuno la teneva esposta sulla propria bancarella. Nessuno tranne la persona che poi divenne suo amico e che gli procurò quella moneta.
Mirco era attratto da quella moneta proprio perché la sua assenza di valore, la sua mediocrità, la sua insulsaggine, la rendevano praticamente irreperibile, ambigua, e in un certo senso preziosa, almeno per lui.
Solo quella persona, che poi divenne un amico, gliela procurò senza fare domande o critiche per quello strano attaccamento ad una cosa talmente priva di valore, limitandosi semplicemente a rispettare il suo interesse. Tutte le altre persone, a cui si era rivolto in precedenza, si erano piuttosto limitate ad una alzata di spalle e a dire che non l’avevano, qualcuno aveva addirittura cercato di rifilargli qualche altra moneta che a sentir lui erano più preziose e quindi più adatte ad essere collezionate. Ma solo Bruno si era impegnato a procurare la moneta che Mirco gli aveva chiesto.
Da quel momento aveva preso a frequentare l’amico tutte le domeniche invernali in cui il mercatino era allestito nella sua città.
Passavano allora una domenica tranquilla bevendo vino, mangiando castagne e facendo chiacchiere sincopate dall'arrivo dei clienti.
Quella domenica, quando ormai la giornata volgeva al termine e già nelle strade si accendevano i lampioni, mentre un vecchio attraversava la strada con in testa un cappello dei New York Yankees e quando il Milan batteva il calcio d'inizio della sfida contro la Juventus, intanto che una donna chiedeva l'ora a un altro passante, tutto stava cambiando di forma e assumendo le connotazioni della sera.
E all’improvviso si avvicinò alla bancarella un tizio, giovane, all'incirca della stessa età di Mirco, e, con dita precise come artigli, cominciò a rigirare gli oggetti che erano in vendita. Li soppesava e li guardava, sembrava pensarci bene sopra, e con l’attenzione delle pupille seguiva i loro contorni, li fissava a tu per tu, poi li riappoggiava dove erano, come se avessero raggiunto un comune accordo o come se si fossero riconosciuti dopo anni di distacco.
Il suo modo di fare colpì tantissimo Mirco, che gli incollò gli occhi addosso. Non si trattava solo di questo. Non era solo il ragazzo, intento nel riappoggiare educatamente il martelletto cromato e impiegatizio di un telegrafo per la comunicazione Morse, oppure a deporre, con cura e soddisfatto, come dopo avere vinto una sfida, una incomprensibile staffa di aratro arrugginita e crostosa come il millennio scorso, ad attrarre la sua attenzione, bensì anche gli oggetti stessi, che sembravano a loro volta riaddormentarsi dopo essere stati percorsi da un brivido lungo la schiena. Si riassopivano dopo avere perso una sfida con un nemico degno della loro caratura e ritornavano a riposare in pace.
Poi la mano di quel tizio si fermò e sollevò qualcosa dalla bancarella, e dal suo palmo una punta triangolare, stretta per mezzo di viti a due lamine di ottone lucido, trapassanti da parte a parte un pezzo di legno scuro, sembrò cominciare a fissarlo con i due fori che aveva disposti lungo l’ipotenusa. Quello strano oggetto non sembrava nemmeno temere la lotta che invece si era accesa negli occhi della persona che lo teneva in mano. Questa volta infatti vince l’oggetto e la mano del ragazzo non la depose più sul telo verde della bancarella:
– Quanto costa? – chiese all'amico di Mirco.
– Ah quello… sono 40 euro. È un… – Rispose Bruno alzandosi in piedi, ma venendo bruscamente interrotto.
– Fermo! La prego non lo dica. Colleziono oggetti che non conosco e di cui non capisco la funzione.
– Ma guarda un po’! E a quanti pezzi ammonta la collezione? – Intervenne anche Mirco.
– A cinque pezzi. Raccolti in nove anni. – Precisò con una spruzzata di orgoglio.
– Accidenti, è così difficile trovare qualcosa che non si conosce?
– Più di quanto puoi immaginare. Una volta invitai a cena una persona che di mestiere faceva l’ormeggiatore e, non appena vide esposta la collezione, riconobbe un pezzo di una leva di comando di una nave: me lo disse. E dovetti buttare via il pezzo, che d'altra parte mi piaceva moltissimo per come era fatto.
– Immagino che da allora tu non faccia più vedere a nessuno quello che collezioni. Per non correre nuovamente rischi, intendo.
– Oh no, al contrario, è un rischio che mi piace e che, anzi, deve esserci. Sono curioso di sapere quanto una cosa che può rimanere sconosciuta. Possono esistere cose che non si conoscono? Possono continuare a piacere lo stesso?
Un oggetto, che non si sa cosa sia e nemmeno a cosa serva, può piacere ugualmente? Oppure la sua bellezza è solo l’arricchimento estetico della sua funzione? Questo voleva chiedere quel tizio così strano a Mirco.
– Beh no, insomma, direi che quello di cui parli tu è il lusso. Soltanto una cazzata posticcia e inutile, senza una funzione precisa: uno stucco in un cornicione, un orologio spaventosamente grande, un ricciolo di ottone sulla leva del freno di una bicicletta olandese. In teoria il lusso, essendo inutile, una stronzata, non dovrebbe nemmeno esistere, quindi per me è brutto. Insomma, più o meno.
Il caso di una funzione esistente, ma ancora sconosciuta era, però, un altro paio di maniche e soprattutto non privava l’oggetto della propria bellezza. Pensava Mirco non appena ebbe esposto la propria opinione, ma ancora rapito dai propri ragionamenti.
Si sentiva avvinto da tutte le riflessioni che sarebbero potute nascere da un'occasione simile. Domande e risposte che fino ad allora la sua collezione di monete comuni non aveva nemmeno sfiorato. Accarezzava con piacere l'idea che gli si stava affacciando alla mente: quella di non essere più il solo a porsi domande così sfuggenti, e a darsi risposte ancora più sfuggenti delle domande, ma, soprattutto, la possibilità di non appartenere più a quella triste e sclerotica categoria di esseri umani che si fanno le domande e che poi, immancabilmente, finiscono col darsi le riposte da soli. Infelici.
– Convincente. E molto interessante. Mi chiamo Federico, ci prendiamo un caffè?
– Certo. Mi chiamo Mirco.
Con passo svelto raggiunsero il bar più vicino e si sedettero a un tavolo la cui tovaglia era fissata saldamente al ripiano per mezzo di mollette gialle. Mirco ordinò il suo caffè e senza volerlo cominciò a pensare a Sandra.
Era però contento di pensarla solo per metterla finalmente in angolino della propria testa, di avere qualcosa da fare che fosse diverso dal pensarla e basta, quella ragazza capace di dargli gioia e panico allo stesso tempo, capace di fornire risposte alle sue domande, e quindi alleviare la sua solitudine, salvo poi creargli nuovi dubbi.
Ora non la sentiva come l’unica persona sulla crosta terrestre da cui voleva andare. Per cui il pensarla, allo scopo di relegarla nei meandri più lontani e nascosti della propria mente, aveva cominciato a trasformarsi, al momento, nel modo più pratico per non pensarla affatto.
Per il momento, dunque, era contento di pensare di non pensarla. O almeno voleva metterla giù così. Eppure sapeva benissimo di avere ancora, e sempre di più, bisogno di lei e di tutto quello che gli diceva. Un bisogno che mai era stato così forte come in quel periodo in cui il mondo gli stava sembrando sempre più incomprensibile e inospitale. In fondo sapeva che sarebbe tornato da lei quanto prima. E dire però che Sandra ormai la conosceva da tanto tempo.
Come suo solito si era perso nella matassa dei propri pensieri. Seguendo un solo filo iniziale, si era estraniato in cose che ne richiamavano un'altra e poi un'altra ancora. Seduto in quella sedia di plastica rosa, davanti al tavolino avvolto nel viola di una tovaglia cerata, giocava con la scritta Becks che c'era sul portacenere e pensava, forse da qualche secondo, forse da sempre.
Il cameriere nel frattempo si era avvicinato al loro tavolo, ma, perso com’era nei propri pensieri, senza che Mirco lo notasse. Persino senza che nemmeno riuscisse a vederne la camicia bianca stazzonata, con la biro che gli spuntava dal taschino macchiato di caffè, o i pantaloni neri che gli erano abbondanti, per ragioni di comodità, e sorretti da una cintura-borsellino che conteneva i soldi che gli servivano per dare i resti.
Trasudava lavoro quel cameriere, efficienza impersonale e al tempo stesso voglia di andarsene a casa. Un’imitazione dei baristi che ti servono in piazza San Marco: professionali al punto da dare del ‘signore’ anche a un bambino, vestiti di una divisa che però è sempre fuori misura e sporca, pronti a spararti conti indecenti, al termine di una giornata di lavoro o di una battaglia campale e comunque incapaci di ricordarsi anche soltanto di una faccia, tra quelle che hanno servito durante la giornata.
Poi, l'ordinazione che fece Federico, riscosse Mirco dai suoi pensieri con un la potenza di un brivido, che gli fece desiderare si trattasse solo di uno scherzo già vissuto poco prima. Quell'ordinazione stupì anche lo stanco, ma inalterabile, cameriere.
– Un Biancosarti, grazie. – Gli chiese Federico.
– Mi dispiace ma non lo teniamo. – Rispose il cameriere.
– E come mai? È così buono. – Chiese Federico questa volta con l’accenno del sorriso di chi sa già la risposta che sta per essere data.
– Perché sono cose… vecchie, che non ordina più nessuno da tanto tempo. – Rispose impacciato il cameriere.
– Allora, un caffè.
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© Concerto di Valerio Fabbri, illustrazioni di Roberto Pagnani