Non paia esagerato sostenere che Roberto Saviano, scrittore che da tempo si segue con partecipata attenzione è impegnato in un suo interessantissimo satyagraha, inteso come “ricerca della verità”, i cui sviluppi possono essere sorprendenti e proficui; si dice questo senza alcuna intenzione di volergli tirare in alcun modo la giacchetta. Semmai, come accadde per altri (Elio Vittorini, Pier Paolo Pasolini, Ignazio Silone, Leonardo Sciascia, Eugene Ionesco, per fare i primi nomi che vengono in mente), è la nostra, di “giacchetta” che deve e dovrà essere tirata: nel senso di essere pronti a cogliere le sollecitazioni, le suggestioni, i “suggerimenti” che possono venire.
Già in altre occasioni Saviano aveva disseminato nei suoi articoli, scritti e interventi televisivi dei grani preziosi per la nostra riflessione, contributi utili per la comprensione di fenomeni spesso oscuri, illuminandone le zone che interessati e consolidati interessi vorrebbero lasciare in ombra; e la migliore certificazione che si trattava (e si tratta) di cosa che andava (e va) fatta, è nelle rabbiose polemiche che quegli articoli, quegli scritti, quegli interventi hanno provocato.
L'altro giorno Saviano, con il suo articolo per La Repubblica ha compiuto un altro “piccolo” passo nella ricerca e individuazione della verità. E si dirà che in fin dei conti sono poche le novità, che quasi tutto di quell'articolo è noto, conosciuto. Ed è vero. Ma è proprio per questo, che l'articolo è importante. Perché racconta fatti e storie conosciute, ma relegate nel “sapere” di una ristretta casta di “sacerdoti”, verità destinate a far polvere nel chiuso di faldoni giudiziari malamente conservati. Un po' come è accaduto a Gomorra: nulla che non si sapesse, a patto di spaccarsi gli occhi nella lettura di migliaia di pagine di atti processuali, di saperne tracciare le connessioni, di percepire da quelle pagine i “suoni”, i “rumori”, “le occhiate” che le parole scritte spesso in incomprensibile burocratese giudiziario contenevano. Saviano con Gomorra ha dato vita e respiro a quelle pagine e ci ha resi consapevoli – nessuno ora potrà dire di non sapere – di una realtà ci opprime e violenta.
Per tornare all'articolo su Repubblica: si racconta della mossa eclatante assunta dal ministero del Tesoro degli Stati Uniti d'America che «allarmato dalla penetrazione camorrista... ha comminato sanzioni a cinque boss del clan dei casalesi (e questo sarebbe il meno) ma ha vietato a chiunque di fare affari con loro. Nessuno può introdurre i loro capitali in America, nessuna banca può accogliere il loro denaro, chi sarà sorpreso a fare affari finanziari con loro la pagherà cara».
Al di là dei pratici effetti che una simile misura produrrà (si troveranno, poco ma sicuro, delle alternative, altri canali e sistemi), è quello che questa clamorosa iniziativa sottende, che qui importa.
«Se Geithner usa queste parole vuol dire che il pericolo è grave», osserva Saviano, aggiungendo però che non si tratta di una novità: «Esattamente un anno fa il governo di Obama aveva dichiarato guerra alla camorra, definendola “una delle quattro organizzazioni criminali più pericolose per l'interesse degli Stati Uniti”, insieme alla Yakuza, ai Los Zetas messicani e alla mafia russa».
E come ha fatto la camorra, come hanno fatto i Casalesi a diventare una spectre del crimine organizzato simile alla mafia giapponese, a quella russa, ai cartelli dei narcotrafficanti messicani? L'enorme salto di qualità che ha trasformato «i piccoli boss della provincia campana a diventare un fantasma così spaventoso per la potente economia di Wall Street», è stata l'enorme liquidità di cui dispongono, «immensi proventi del narcotraffico».
Cosicché il problema è diventato come riciclare, ripulire, reinvestire questa enorme massa di denaro: «i soldi non hanno odore, soprattutto per le banche: la Drug Enforcement Administration ha calcolato che gli istituti di credito europei e statunitensi lavano tra i 500 e i 1.000 miliardi di dollari di denaro sporco ogni anno. Dagli anni Novanta ad oggi sono entrati negli Stati Uniti 5.500 miliardi di dollari provenienti da estorsione, narcotraffico, traffico di esseri umani e attività criminali. Negli anni passati banche importanti come Citibank, Hsbc e Wachovia sono state accusate di fare affari con le organizzazioni criminali. E la neapolitan mafia, come viene definita oltreoceano la camorra, è diventata una delle principali protagoniste di questa immensa giostra di denari».
La conclusione di Saviano è amara (non disfattista): «[...] i camorristi sono diventati il nemico degli Stati Uniti. Gli americani lo hanno riconosciuto come tale e hanno deciso di dichiarare guerra. Nel nostro Paese si preferisce chiudere gli occhi: fino a poco tempo fa, qualcuno negava persino che i clan fossero arrivati in Lombardia».
“Maronate” a parte, la questione, la carne del problema è nel passaggio che si è sottolineato: “gli enormi proventi del narcotraffico”. Questa enorme massa di denaro significa possibilità enorme di corrompere, possibilità enorme di colpire chi corrompere non si fa. La regola del “follow the money” va intesa anche come necessità di interrompere questo enorme flusso di denaro, spezzare la catena che produce questi enormi guadagni. È evidente che se la droga procura questi “enormi proventi” che poi tutto inquinano e corrompono, la prima cosa da fare è impedire che queste enormi fortune si creino e si consolidino. Saranno almeno trent'anni fa, forse anche più quando Marco Pannella, all'epoca parlamentare europeo, raccontò di un colloquio avuto con l'allora capo dell'Interpol Raymond Kendall. Gli pose una semplicissima questione: se lei fosse un narco-trafficante, sarebbe favorevole o contrario alle politiche di proibizionismo in materia di droga? La risposta che Pannella ebbe da Kendall è facilmente intuibile. È la stessa domanda che ci pone oggi Saviano con il suo prezioso articolo su Repubblica.
Valter Vecellio
(da Notizie Radicali, 3 agosto 2012)