Questa è la cronaca vera di un viaggio insolito e molto particolare; un viaggio che non avrei mai voluto fare.
Sembrava una gita normale, solo un po’ strana, soprattutto perché avveniva fuori stagione, in una mattinata fredda d’autunno. Un’intera famiglia, la mia, sistemata su un piccolo veliero che dal porto di Ostia si preparava a raggiungere le acque di Fregene. Poche miglia soltanto ma per percorrerle occorrono più di due ore. Protetti da giacconi, sciarpe e cappelli di lana, stavamo stretti l’uno accanto all’altro per proteggerci dal vento. Oltre al pilota della barca c’erano i miei nonni, i miei zii, mia cugina e una cara amica di tutti noi.
C’era anche un’altra persona con noi, invisibile ma presente nei nostri cuori: mia madre, scomparsa qualche decina di giorni prima. Le sue ceneri erano racchiuse in un’urna: avremmo dovuto disperderle in mare, secondo la sua volontà, di fronte allo stabilimento balneare di Fregene che Lei amava frequentare. Era lì, su quelle spiagge, che mia madre si rifugiava quando aveva un po’ di tempo libero e non importava se fosse estate o inverno, era il mare, quel mare che lei amava sopra ogni cosa, che la spingeva a ritagliarsi in quel piccolo mondo di pescatori uno spazio di libertà.
Nei mesi estivi, quando non aveva impegni di lavoro, la vedevi prendere il sole, sdraiata su un lettino con l’immancabile libro tra le mani, o la vedevi correre lungo la riva per giocare insieme con Kelly, la nostra cagnolina. Sempre serena e sorridente con tutti; i suoi occhi, il suo sguardo, esprimevano un’intensa gioia di vita. Anche nel periodo invernale, specialmente la domenica mattina, le piaceva tornare in quel luogo, magari soltanto per fare colazione, in un tavolino d’angolo, protetta dagli spifferi del vento: un cappuccino, una brioche e poi a leggere o a prendere appunti, appunti, un’infinità di appunti.
Durante il viaggio ci scambiammo tra di noi soltanto poche parole: ognuno sembrava assorto nei propri pensieri, nelle proprie emozioni, nei propri ricordi. La mia mente era annebbiata: mi ponevo tante domande alle quali non riuscivo a dare una risposta. Le sensazioni erano tante, il mio cuore in tumulto. È difficile spiegare il vuoto che avevo dentro. Stavo vivendo il più grande dolore della mia vita.
Quando il veliero giunse davanti alla costa di Fregene non fu semplice, a distanza, distinguere esattamente la posizione dello stabilimento, sembravano tutti uguali, quasi piatti. Ci venne in soccorso il pilota: ci prestò il suo binocolo con il quale non fu difficile a mio zio individuare la posizione esatta in cui si sarebbe svolta la cerimonia. La barca ritirò le vele e rimase quasi immobile nel mare incredibilmente calmo. Eravamo circondati da un silenzio assoluto, qualche gabbiano volteggiava nell’aria e una petroliera sul filo dell’orizzonte si muoveva lentamente con il suo carico. Nient’altro.
Aperta l’urna, ciascuno di noi prese un pugno di cenere e le sparse nel mare, affidando alle acque anche petali di rose rosse. I fiori disegnarono nell’acqua quasi un circolo, sembrava che formassero un balletto: uno spettacolo che sarebbe certamente piaciuto a mia madre. Seguii quei fiori con lo sguardo fisso, mentre la barca riprendeva la via del ritorno. Li vidi trasportati dalle onde verso la riva, sempre più piccoli fino a disperdersi. Il rientro fu accompagnato da tanta tristezza. La commozione era sul volto di tutti.
Questa, come ho detto all’inizio, è la cronaca vera di un viaggio che non avrei mai voluto fare. Ma ora, a rifletterci, penso che quel viaggio, seppure in maniera diversa, lo rifarò. La prossima estate mi riprometto di ripercorrere su quello stesso veliero la stessa rotta. Arrivata nelle acque di Fregene, proprio davanti a quel piccolo stabilimento, mi tufferò in quelle acque. Sono sicura che lì, ad aspettarmi, ci sarà mia madre, pronta come sempre ad abbracciarmi.