Volevo quasi fare un racconto del 25 luglio 1943, visto che nessuno ne parla, ma sono travolta da quel che succede, che sembra avere insieme una logica perversa e una impressionante illogicità, il massimo della contraddizione. E se voglio trovare il fatto, l'evento che simboleggia tutto ciò, non posso che parlare dell'Ilva di Taranto.
Dunque. la magistratura emette una ordinanza che impone la chiusura delle acciaierie di Taranto, a motivo delle responsabilità penali dei suoi padroni e dirigenti, otto dei quali vengono arrestati: si potrebbe invocare come precedente la sentenza contro la Thyssen Krupp o quella sull'amianto a Casale, anzi quest'ultima è ancora più simile: le condizioni nelle quali si lavora in certe fabbriche e nelle città che le ospitano sono mortifere e uccidono. Quando la magistratura interviene, certo blocca un processo che era già in corso da decenni, ma almeno lo blocca e lo dichiara delittuoso, non casuale o incidentale, o inevitabile come una calamità detta appunto naturale.
A Taranto viene bloccato un impianto che è la più grande acciaieria del mondo -dicono i giornali- ed esiste da 50 anni, che fu di stato e poi è stata venduta e che adesso deve chiudere il suo cammino di morte. Ma naturalmente non si può chiudere una fabbrica che ha 22.000 dipendenti tra diretto e indotto, una fabbrica che è la maledizione e il pane della città.
La rabbia è inevitabile, lo sconcerto pure, ma la risposta della popolazione sembra straordinariamente matura e democratica: ho sentito con le mie orecchie al Tg3 notte operai e cittadini, sindacalisti ed ambientalisti analizzare la situazione con grande passione ed equilibrio, dicendo che la fabbrica non deve chiudere, ma deve cominciare subito e continuare ad inquinare sempre meno.
Bisogna assolutamente appoggiare questa esigenza del tutto razionale e sostenere le forze che in quella direzione si impegnano. E ogni volta, di fronte a bisogni o eventi del tipo citato, bisogna sforzarsi di trovare soluzioni complesse, del tipo enunciato a Taranto, si tratti della docenza universitaria, degli/lle insegnanti inidonei, delle donne precarie, dei comuni depredati.
La risposta di Taranto sembra la realizzazione del motto di Rosa: la strada della rivoluzione o dell'alternativa è “lo sciopero generale a oltranza nel corso del quale i soggetti costruiscono la nuova società”. L'analisi deve essere spietata e l'azione coordinata, decisa, progettata ed eseguita dagli e dalle interessate. Lo si vede anche dal fatto che quando ci sono enti locali sani o enti autonomi dotati di poteri, è possibile rifiutare le ricette approssimative feroci e rozze del governo “tecnico” e dare risposte articolate ed economicamente ragionevoli e persino meno dispendiose: lo testimonia la resistenza delle province autonome di Bolzano e Trento, che difendono la loro autonomia politica e normativa, difendendo anche il livello di vita e dei servizi costruiti.
Per costruire l'alternativa è decisivo mettere sempre insieme la protesta motivata e la lotta con l'impegno costruttivo, l'attivazione di nuove relazioni sociali: la strada che serve anche a superare il populismo semplificatorio alla Grillo e ad avviare l'alternativa in tutta la sua complessità.
Lidia Menapace