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Gino Songini. Nel ventennale delle stragi di Capaci e via D'Amelio 
Un'interminabile teoria di domande senza risposta. Con chiosa dai ricordi familiari
18 Luglio 2012
 

Scrivo queste note oggi, mercoledì 23 maggio 2012, ventesimo anniversario della strage di Capaci. A tutt'oggi la nebbia che avvolge un fatto tra i più inquietanti della nostra vita pubblica non soltanto non si è diradata, ma tende in qualche modo ad infittirsi. E la domanda che fin dai primi momenti dopo la strage sorse spontanea, rimane lì tuttora senza risposta, con tutto il suo peso e con tutta la sua asprezza: fu soltanto mafia? (vedrò di dare una risposta più avanti). Addentrarsi in questo labirinto macchiato di sangue, per un inesperto di questioni di mafia come chi scrive, è impresa difficile, ma riportare impressioni ed esprimere libere considerazioni non è vietato.

Vediamo allora. Prima considerazione: Giovanni Falcone poteva venire ucciso a Roma, dove ormai operava da tempo. Un killer dalla buona mira poteva abbastanza facilmente colpirlo in una via della capitale e toglierlo di mezzo senza troppe complicazioni. Ma l'obiettivo degli attentatori non era soltanto quello di uccidere Falcone, ma di ammonire, intimidire, terrorizzare. Essi, esecutori e mandanti, volevano inviare un messaggio di potenza, volevano mostrare al mondo che loro erano più forti delle scorte, della polizia, dei carabinieri, della magistratura. Chi doveva capire, avrebbe capito. Le indagini che il giudice Falcone aveva mandato avanti con metodi straordinariamente intelligenti e innovativi, dovevano finire per sempre. Sull'autostrada Punta Ràisi-Palermo, al bivio di Capaci, si sollevò altissima un'onda di pietre, terra, macchine e resti di vittime che pagavano in quel modo il loro servizio allo stato. C'è da chiedersi, oggi come allora: ne valeva la pena? (vedrò più avanti di rispondere anche a questa domanda).

Paolo Borsellino, che aveva preso in mano le indagini di Falcone seguì a breve distanza il destino del suo amico e collega. La sera del 19 luglio 1992 via D'Amelio a Palermo sembrava una via di Damasco o di Kabul in un giorno dei peggiori attentati: automobili volate in aria, crateri nel terreno, balconi e finestre colpiti da schegge metalliche, resti di vittime sparsi in centinaia di metri... Perché tanta violenza? Non poteva essere colpito diversamente Paolo Borsellino? Certamente era lui l'obiettivo, egli stesso ne era da tempo pienamente consapevole, ma le modalità della sua uccisione portano a pensare che gli esecutori volevano ancora una volta mostrare a tutti la loro illimitata potenza.

In seguito a queste due stragi la morsa intorno alla mafia siciliana si strinse in maniera decisa. Fu notevolmente aumentata la presenza delle forze dell'ordine e dei reparti investigativi. Si approvarono rapidamente leggi che consentirono interventi mirati ed efficaci che portarono all'arresto dei principali esponenti di Cosa Nostra, a partire da Totò Riina, che viveva da anni indisturbato in una villa al centro di Palermo. Fu arrestato, dopo 43 anni (!) di latitanza, Bernardo Provenzano, il quale inviava a destra e a manca i suoi “pizzini” da un casolare di campagna che qualsiasi pastore della zona conosceva perfettamente. Aggiungerò per inciso che durante la latitanza Riina mise su famiglia (i figli nascevano in una clinica del capoluogo siciliano) e Provenzano andava a curarsi in Francia come un qualsiasi ricco borghese o un qualunque cumenda brianzolo. In seguito agli arresti dei mafiosi più illustri e dei loro comprimari si celebrarono grandi processi, seguiti dalla stampa nazionale e da quella straniera. Ben presto torme di “pentiti” veri o presunti entrarono in campo depistando in modo inaudito le indagini e inquinando le prove raccolte dagli investigatori. Non per niente il povero Falcone aveva a suo tempo parlato di “menti diaboliche e raffinatissime”. Adesso se ne aveva la prova.

Ma proviamo ora a dare risposta alle due domande che ci siamo precedentemente posti. La prima: fu solo mafia? Credo di non aggiungere niente di nuovo se dico che a mio parere ci fu l'intervento di altre forze che, nascoste dietro la mafia, poterono operare indisturbate. In effetti la criminalità mafiosa, che notoriamente non ama stare sotto i riflettori, ebbe a subire molti danni dalle vicende seguite agli attentati di Capaci e di via D'Amelio. L'aumentata presenza delle forze dell'ordine sul territorio, lo stringersi delle indagini, la legge sui “pentiti” (una legge che, mi sia consentito dirlo, personalmente non apprezzo), il “41bis, ecc., determinarono la resa di molte cosche mafiose e la conseguente riduzione di molti boss della criminalità organizzata alle patrie galere. Molti di loro si trovarono, e si trovano tuttora, a fare i conti col durissimo regime del “41bis”. La mafia avrebbe fatto volentieri a meno di tutto questo. E allora? È evidente che, come già nell'uccisione del generale Dalla Chiesa nel settembre 1982, ci fu l'intervento di altre forze, oscure e potentissime, determinate a togliere di mezzo chi intralciava i loro piani. E l'intervento di queste forze oscure favorì l'azione diabolica di una serie di “pentiti” sempre pronti a dichiarare, smentire, confermare, indicare, poi nuovamente confermare e smentire tutto e il contrario di tutto. Risultato: ancora oggi, a vent'anni di distanza dagli attentati, trent'anni per Dalla Chiesa, non sappiamo ancora niente dei mandanti di questi orrendi delitti. Si pensa di sapere qualcosa di più sugli esecutori materiali, ma anche qui è bene procedere con cautela dal momento che sempre più spesso cambiano le carte in tavola e quello che sembrava certo fino a ieri oggi non lo è più e domani lo sarà ancora meno. Insomma, è una storia lunga e ancora non si vede la luce in fondo al tunnel.

Seconda domanda, la più dolorosa: valeva la pena sacrificare la propria vita come fecero Falcone e Borsellino, oltretutto consapevoli che quanto stavano facendo avrebbe accelerato la loro fine? Io penso che si possa e si debba morire per un ideale, per il bene comune, per la patria, ma soltanto alla condizione che tutti, soprattutto quelli che hanno responsabilità di comando, operino d'intesa con chi ha il coraggio di esporsi e di mettere in gioco la propria vita. Purtroppo nelle vicende di cui stiamo parlando non fu così. I nostri eroi furono lasciati soli, in balia di forze troppo grandi che godevano di appoggi provenienti anche da molto lontano. In tale situazione la loro azione si è rivelata velleitaria e il loro eroico sacrificio, lo dico con rispetto e dolore, abbastanza inutile. A Falcone e Borsellino successe proprio di essere lasciati soli a combattere una battaglia che ha avuto l'esito che ha avuto. Serpenti velenosi si muovevano nell'ombra, pronti a iniettare il loro veleno mortale nel sangue delle vittime designate. Le domande che ci poniamo sono sempre quelle: chi aveva tramato contro la nomina di Giovanni Falcone a capo del dipartimento antimafia? chi avvisò gli attentatori che Falcone, appena giunto da Roma in grande segreto, stava viaggiando sull'autostrada verso Palermo? chi avvisò gli stragisti che Borsellino, quel caldo pomeriggio di luglio, era in visita a sua madre? chi ha fatto sparire, pochi minuti dopo l'attentato di via D'Amelio, la famosa agenda in pelle rossa di Paolo Borsellino? perché, dopo il suo arresto, non si è proceduto alla perquisizione della villa di Totò Riina? Sono domande che ancora attendono risposta. Ma gli interrogativi non finiscono qui. La fila delle domande senza risposta è più lunga dei venti anni che sono trascorsi dalle stragi, o dei trenta passati dall'assassinio del generale Dalla Chiesa. Ripetiamo dunque: valeva la pena sacrificare la propria vita per uno stato e una società troppo spesso tolleranti, per non dire di peggio, nei confronti dell'illegalità e del crimine? Ancora oggi possiamo vedere come troppe volte il cittadino onesto si trova ad essere emarginato, il testimone coraggioso abbandonato a se stesso, ecc. mentre i corrotti, uso le parole di S. Agostino, “si portano via il cielo”. È evidente che la risposta dello stato non è stata e non è adeguata se è vero come è vero che mafia e 'ndrangheta si sono estese sul territorio nazionale e dettano legge in molte regioni, dalla Sicilia alla Lombardia, dalla Calabria al Piemonte, dalla Puglia al Veneto, ecc.

Chiudo riproponendo la sempiterna domanda, quella che tutti ci poniamo da sempre: si riuscirà a sconfiggere la mafia? Rispondo senza rispondere, ma riportando una piccola vicenda familiare. Nel 1896 i miei bisnonni Rosa e Celeste, nonni di mia madre, lasciarono Roma dove erano emigrati come tanti valtellinesi della Bassa Valle, in particolare dalla Costéra dei Cèch, e dove avevano aperto un modestissimo negozio di generi alimentari. Ben presto qualcuno appartenente a gruppi criminali della città aveva cominciato a taglieggiare quelle persone povere, semplici, anche un po' ingenue. Per gente abituata ad andare a letto la sera dopo aver recitato il rosario non era semplice adattarsi a una vita nella quale bisognava quotidianamente fare i conti con la criminalità. Ricatti ed estorsioni si susseguivano tanto che i bisnonni furono costretti a lasciare per sempre la Capitale e a ritornare in Valle. Mi ha raccontato mia madre che lei da bambina aveva chiesto alla sua intelligente (così veniva ricordata da tutti) nonna il motivo di quell'abbandono definitivo. La risposta era stata: “Perché nel quartiere dove vivevamo comandava la mafia siciliana!”

Era il 1896...

 

Gino Songini

(da 'l Gazetin, giugno 2012)


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