Virgilio Piñera
(Cárdenas, Cuba, 1912 – L’Avana, 1979)
Virgilio Piñera è sempre stato uno scrittore emarginato dal regime castrista. Per assurdo, in questi mesi a Cuba si sta celebrando il centenario della sua nascita con eventi, rassegne e ristampe dei suoi libri. Nonostante il ricordo dello sprezzante giudizio di Che Guevara nei confronti del teatro di Piñera sia ancora vivo: «Buttate nel secchio i libri di questo frocio!». Il tempo passa e le cose cambiano, gli scrittori morti diventano importanti per la dittatura, se riesce l’operazione di recupero nel solco rivoluzionario. Lezama Lima ha subito identica rivalutazione postuma.
Virgilio Piñera visse per dodici anni in Argentina, dove collaborò alla rivista Sur, conobbe personalità artistiche come Witold Gombrowicz, Borges, Bioy Casares e pubblicò il suo primo romanzo, La carne di René (1952), edito anche in Italia, ma ormai introvabile. Poeta, drammaturgo, narratore breve intenso ed efficace, celebre per aver anticipato il teatro dell’assurdo di Ionesco e Beckett con opere come Electra Garrigó, En esa helada zona, Falsa alarma, Dos viejos pánicos. Narratore originale soprattutto nei Cuentos fríos (1956) e nei romanzi Pequeñas maniobras (1963) e Presiones y diamantes (1967). In Spagna è uscita una preziosa raccolta dei Cuentos completos e il fondamentale La isla en peso, un volume che raccoglie tutta l’opera poetica.
Parliamo di Virgilio Piñera poeta con l’aiuto di Antón Arrufat, amico dello scrittore che ha curato il libro edito da Tusquets (Barcellona, 2000). Virgilio Piñera, insieme a Lezama Lima, è uno dei poeti che meglio rappresenta la generazione letteraria sorta intorno alla leggendaria rivista Origines. Un poeta segreto, occasionale, che non amava diffondere in pubblico le sue composizioni, ma comunque vero poeta, appassionato, ermetico, colloquiale, sempre in antitesi tra vita e letteratura. A Cuba è stata pubblicata parte dell’opera narrativa negli anni Sessanta, quando l’autore era ancora in vita, in Spagna sono state pubblicate alcune raccolte dopo la sua morte, ma la considerazione di Piñera è sempre stata soprattutto per l’aspetto drammaturgico. La poesia è il settore più trascurato della sua opera, sebbene il primo libro edito (Las Furias, 1941) sia stata una raccolta di poesie, ma successivamente è stato lo stesso autore a non avere interesse nel pubblicare liriche. Virgilio pubblicò Poesía y Prosa (1944), una raccolta di racconti e poesia nella quale la maggior parte delle pagine erano composte da prosa, quindi si dedicò al teatro. In ogni caso, alla sua morte, sono stati trovati molti manoscritti inediti di carattere poetico. I fattori della non pubblicazione delle raccolte poetiche possono essere molti, prima di tutto Piñera era povero e non poteva pagarsi la stampa dei libri come facevano altri scrittori cubani. Mandava avanti una rivista intitolata Poeta, con grande fatica, vendeva persino i suoi abiti per pagare le spese di stampa. Era un periodo oscuro, all’Avana non esistevano editori, ma soltanto imprese che stampavano un certo numero di copie dei libri per conto degli autori. Piñera non era un personaggio facile, povero ed eccentrico, il suo modo d’intendere la letteratura lo fece allontanare prima dalla rivista Orígines e subito dopo dal gruppo Espuela de Plata, fino a restare solo, come spesso racconta nelle sue poesie. In realtà stare solo era quello che più desiderava, ma questa scelta significò la perdita dell’aiuto economico di Rodríguez Feo, che finanziava la rivista Orígines. Nel 1960, su insistenza di Guillermo Cabrera Infante, trovandosi di fronte a un vetro editore (Ediciones R.), raccolse in un volume il suo teatro, curato da Antón Arrufat.
La poesia di Piñera divenne un fatto personale, da non pubblicare e neppure da leggere agli amici. L’autore non ne parlava mai. Nonostante tutto scrisse poesia fino alla morte, centinaia di inediti ritrovati testimoniano tentativi, abbozzi, esperimenti, esercitazioni. Va detto che Piñera aveva una grande considerazione per la poesia e del poeta, scriveva molti articoli di critica letteraria e amava la lirica come espressione artistica. Forse considerava i suoi lavori troppo imperfetti per essere pubblicati e finiva per condannare all’oblio ogni tentativo. La sua poesia non ha niente a che vedere con il barocchismo lezamiano, né con la poesia sentimentale, ma si tratta di una lirica moderna, di rottura. Nel 1968 Piñera acconsentì di raccogliere ne La vida entera le sue poesie giovanili e qualche inedito, scrivendo una nota di prefazione dove chiariva che non si considerava un poeta vero e proprio, ma solo “un poeta occasionale”, nel senso che scriveva poesia in particolari occasioni e su determinati temi che lo spingevano a comporre versi. Troppo modesto Piñera e molto ironico, perché non era davvero un poeta occasionale, così come non era un quasi drammaturgo e la sua opera non era quasi teatro. Eppure così scrisse nella prefazione al volume che raccoglieva l’intera opera teatrale, forse per strategia, per modestia, per fare un gesto elegante, ma al lettore distratto poteva sembrare anche disprezzo per le cose che scriveva. Forse Virgilio Piñera dubitava del valore della sua opera poetica? Possiamo soltanto fare congetture, perché non abbiamo certezze. Diciamo però che Virgilio scrisse poesia fino agli ultimi giorni della sua vita e che Una broma colosal è una delle cose postume migliori, un lavoro lirico al quale era intento negli ultimi giorni di vita. Il conflitto tra vita e letteratura è sempre stato lacerante in Piñera, lo notiamo nella narrativa, nel teatro e pure nella volontà di non definirsi poeta e nel rifiutare tutto quello che è costruzione retorica intorno all’opera d’arte. Piñera è scrittore essenziale, dotato di un linguaggio privo di orpelli retorici, secco, colloquiale, neutro, senza descrizioni paesaggistiche, luoghi comuni e frasi fatte.
Piñera resta poeta, suo malgrado. Grande poeta latinoamericano.
Vi invitiamo alla lettura di una breve antologia di opere tradotte dalla raccolta completa La isla en peso (Tusquets Editores, 2000).
Da Poemas desaparecidos (Poesie scomparse)
Chi sono
Poco importa il mio nome, e ancora meno la mia età.
Non devo contare i capelli caduti né dire “incanutisco”.
Devo fare solo una semplice confessione: non ho neppure un cane
a farmi compagnia,
e possiedo moltissime solitudini da regalare.
(1964)
Da Un bamboleo frenetico (Un dondolio frenetico)
Un mondo duro
Ieri me ne stavo solitario
nell’Avenida del Puerto,
pensando a mia madre morta
e pensando al futuro.
Come una tavola era il mare,
ma io mi stavo muovendo.
È una cosa molto seria
che il mondo tanto si muova.
Un uomo mi si avvicinò
con un volto avanero,
uno di quei volti che la stessa
Avana non regala a chiunque.
Venne scrollando le spalle,
lo sguardo fosco
la bocca contratta
e parlò proprio in questo modo:
Amico mio, non so a cosa stai pensando
ma so quel che io penso;
questo mondo è molto duro
ma speriamo che le cose vadano meglio;
perché se non sarà così,
ci ucciderà la durezza;
già le parole sono pallottole
e gli sguardi roghi.
Non le sembra, amico mio?
- mi disse e mi toccò il petto;
io piangevo come un bambino,
e il mare cominciò a indurirsi.
(1962)
L’evento
Non posso evitare di vedere
ciò che stan vedendo i miei occhi:
il mio vicino si mise una benda,
gli fece paura l’evento.
Andai in Monte y Pila una sera,
in un bar che ha
la porta come un sospiro
e il bancone come un sogno.
Andai per sfuggire a una domenica
che mi si aggrovigliava al collo
così entrai di fianco al bar
a bermi una birra.
Il mio amico stava ballando
con una mulatta integra.
Lo guardai come si guardano i morti,
e lui mi guardò come io ero.
All’improvviso entrò un tipo grasso
con uno di quei riflettori
che accendono lo sguardo,
e disse più o meno questo:
Il mondo è decomposto,
io sono ferito dentro,
se orientate gli occhi bene
vedrete che sto morendo.
Questo disse e tacque.
La luce cominciò a diventare terra,
terra il bar, terra i miei occhi,
e il grassone rotolò per terra.
(1962)
Quando verranno a prendermi
Quando verranno a prendermi
per andare al ballo degli zoppi,
dirò che non uso stampelle,
che le mie gambe sono intatte.
Ballerò chá-chá-chá e son,
fino a cadere a pezzi,
ma loro insisteranno
per portarmi a quel ballo strano.
Con due accettate sarò pronto,
con due stampelle andrò remando,
e quando entrerò da quella porta
mi metteranno una zoppa tra le braccia.
Lei mi dirà: Amore mio!
Io le dirò: Mia adorata!
Cosa accadde alle tue gambe?
Raccontami, che sto sanguinando!
Lei, con grande serietà,
mi racconterà che fu a bastonate,
ma facendo di necessità
virtù come un brillante,
lancerà una risata
che risuonerà nella sala.
Dopo, ce ne andremo
da questi eventi obbligati,
saluteremo a destra, a sinistra,
agitando le stampelle.
E quando nessuno lo attenda,
alle due del mattino,
verrà il boia degli zoppi
perché non restino tracce.
(1962)
La panchina che morì d’amore
Nella panchina d’un parco
due amanti si dettero appuntamento,
nella panchina si incontrarono,
nella panchina e niente più.
Nella panchina solitaria
si incontrarono veramente,
nella panchina che aveva occhi
da panchina e niente più.
Nella panchina si baciarono
ma con tanta intensità,
che la panchina perse i sensi,
perse i sensi veramente.
Perché era una panchina così sola,
così triste e sentimentale,
che passava le notti
pensando alla sua solitudine.
Se un’altra panchina mi volesse
un’altra panchina veramente,
se veramente mi volesse
mi volesse e niente più.
Il mio cuore le darei,
il mio cuore davvero;
sono una panchina molto triste,
che è sola e niente più.
Si siedono sulle mie ginocchia
gli amanti veramente,
si siedono, e io mi siedo
nella mia orrenda solitudine.
Non ne posso più, muoio,
muoio veramente,
muoio se non mi vogliono
e morì veramente.
(1967)
Traduzioni e commento di Gordiano Lupi