Il cinema, negli ultimi anni, ha testimoniato anche con film importanti, che la scuola, almeno nei paesi occidentali, è in crisi: tanti studenti, a quanto pare, la frequentano senza il minimo interesse, perfino la dileggiano e la disprezzano. E gli insegnanti, quando non riescono a comunicare con loro e a modificare il loro atteggiamento, finiscono per introiettare quel disprezzo: per disprezzarsi come li disprezzano i loro studenti.
L’inizio del film Detachment di Tony Kaye – un film americano sulla scuola pubblica – sembra quello di un documentario: riporta alcune interviste (probabilmente interpretate da attori) a insegnanti di scuole “difficili”, che parlano della loro professione come di una trappola in cui sono finiti senza averlo davvero scelto, trascinati dalle circostanze, e in cui poi si sono rassegnati a vivere per anni e anni fino alla pensione. Continuano, come possono, a esercitare il loro mestiere, sapendo che ciò che possono è inadeguato. Ma d’altra parte hanno perso la speranza di poter essere loro, dentro un sistema in crisi, a “fare la differenza”.
Uno dei meriti del film è aver descritto, già nel giro di pochi minuti, con chiarezza e incisività, senza attenuazioni, questa situazione tanto amara. Ma Detachment non vuole soltanto un quadro di insieme, ma, dentro quell’insieme, il ritratto di un personaggio.
La crisi può sembrare un’entità uniforme, ma in effetti si riflette in ogni individuo diversamente: con esiti, a volerli osservare, anche sorprendenti. Nel caso del professor Barth, il protagonista del film, alla crisi professionale si unisce una crisi privata: entrambe così profonde, che la perdita di ogni speranza di poter trovare un appagamento tanto nel lavoro quanto nell’amore, genera in lui una particolare calma, che è la calma, e anche la dolcezza, della rassegnazione.
Il professor Barth è un uomo gentile, che esegue con senso del dovere il proprio lavoro, ed è capace di gesti umanitari come ospitare per qualche giorno in casa una ragazza disadattata che si prostituisce. Ma allo stesso tempo non c’è persona che egli non tenga a distanza (è il “distacco” a cui si riferisce il titolo): è per sua scelta un eterno supplente, dunque insegna a ogni classe soltanto per un periodo limitato; e affida ai servizi sociali la prostituta quando si innamora di lui, probabilmente ricambiata. Sembra così voler evitare il dolore che può colpirci quando ci affezioniamo a qualcuno. (All’origine della sua personalità, c’è un antico dolore, una tragedia infantile).
Si potrà rimproverare al film una certa monotonia, essendo di una tristezza uniforme. Ma il ritratto del protagonista – grazie anche all’attore che lo interpreta, Adrien Brody – è notevole, perché risulta quasi sempre vero.
Come capita spesso ai film americani – anche a quelli cosiddetti indipendenti come questo – il racconto ha un risvolto positivo. Ci viene ricordato esplicitamente che se la scuola è in crisi è comunque un valore, semplicemente perché dà a tutti un’opportunità di trovare un lavoro più qualificato e remunerato.
E poi alla fine il professor Barth accetta la possibilità dell’amicizia e dell’amore. E grazie alla propria esperienza del dolore, trova un modo per entrare in sintonia con i dolori e con le angosce dei propri studenti: e insomma per comunicare davvero con loro. È un risvolto positivo non inverosimile, ma che, per come viene presentato, lascia almeno il sospetto di una forzatura.
Gianfranco Cercone
(da Notizie Radicali, 10 luglio 2012)