Cominciai anche io a sognare
insieme a loro,
poi d'improvviso l'anima prese il volo.
Il Rwanda, un paese tutto verde, come ne ho visti pochi. I suoi abitanti son in gran maggioranza giovani, acrobati, amanti della forma tonda ed appassionati danzatori. Arduo compito quello di descrivere ciò che mi ha colpita di più, poiché ogni scena era nuova, ogni modo di affrontare le situazioni, le persone intimamente diverso da quello che avevo sempre saputo.
Sicuramente il problema della comunicazione di idee e desideri si è verificato frequentemente e in modo deciso, non solo per le 'divergenze' linguistiche ma soprattutto per delle concezioni di natura culturale e storiche. Di fronte a qualcuno che è stato danneggiato dagli avvenimenti della vita, sopratutto se giovane, è difficile mettersi in discussione, poiché capisco che una debolezza evidente mi appartiene e mi pone in svantaggio rispetto a costoro. Allo stesso tempo, io son vista come una persona che possiede denaro, in gran quantità, cosa peraltro vera in rapporto ai loro standard di vita, e ciò compromette la genuinità della relazione con l'altro. La mia presenza è considerata un'intrusione dai più e una novità da alcuni, sopratutto i bambini. La mia presenza contiene nella sua essenza ben poco di positivo, poiché si teme un'alterazione del normale corso delle cose.
Insieme ad altri 12 studenti ho partecipato ad un master internazionale in design per la cooperazione e percorsi sostenibili con i Sud del mondo promosso da tre università italiane: IUAV di Venezia, facoltà del design di Firenze e dipartimento di architettura di Genova UNIGE. I tre atenei hanno formato un team di docenti e tutor che ci hanno guidati e seguiti per un mese durante il quale era prevista la realizzazione di una collezione di oggetti sviluppati insieme agli artigiani.
Il nostro scopo era di cooperare al fine di avvantaggiare gli artigiani tramite la valorizzazione ed ottimizzazione dei loro manufatti. Ma come? Lentamente e pazientemente. Molte manualità diverse e antiche ho avuto modo di conoscere e un poco di imparare, ad esempio le tecniche di intreccio di fibre naturali, quali foglie di banano ibirere, sisal imgwewe (fibra estratta dalle foglie secche di agave). Molte persone ho conosciuto, poiché si viveva a stretto contatto con gli altri; ogni giorno si condividevano momenti di convivialità, di lavoro e di riposo. Ogni studente era “accoppiato” con un artigiano specializzato in una tecnica. Il lento percorso di conoscenza dell'altro in primis e della tecnica poi doveva concretizzarsi in un manufatto che narrasse questa unione e possibilmente portasse innovazione in termini di prodotto. Lo scopo dell'operazione era innanzi tutto uno scambio, elemento positivo in ogni contesto, e poi la collocazione in una fascia di mercato più alta dei prodotti artigianali in quanto “contaminati” da un processo di design e di progettazione.
Le difficoltà nel rinnovare forme e modalità lungamente consolidate dalla tradizione e dalla mera necessità sono state molteplici e quasi impossibile introdurre nuovi concetti o nuovi ambiti di impiego dell'oggetto; nonostante ciò gli esperimenti e i prototipi realizzati confermano che alcuni risultati sono stati raggiunti e anche apprezzati dagli autoctoni, così testardamente affezionati alla ripetitività ed alla monotonia morfologica e di utilizzo. Le incoerenze della missione sono a questo punto chiare, ma ciò nulla toglie alla preziosissima esperienza umana che noi tutti, artigiani, studenti, vicini di casa, insegnanti, giardinieri e moto-taxisti abbiamo condiviso e vissuto.
Ciò che mi auguro, dopo tutto, è che ogni attore di questa vicenda non perda la fiducia in ciò che sta svolgendo nella sua vita, ovvero che il lavoro artigianale è nobile e tremendamente in pericolo, che il design non è solo plastica e mondanità, che ogni nostra scelta pesa impercettibilmente tanto sul mondo e sul suo corso. Spero inoltre che gli artigiani con cui ho collaborato, Agnes, Immanuel, Josephine, Cristine e Liberata coltivino il nostro scambio con la medesima intensità con cui io conservo i loro insegnamenti. Che la mia presenza lì non sia stata solo un'estemporanea visita ma un germoglio innestato nel caldo albero africano. Da parte mia annaffierò un poco di umiltà e sobrietà il fresco prato europeo.
Ottavia Molatore
Nuova Olonio (So), 2 Maggio 2012
Illustrazioni
Copertina: Io ed Agnes, la bravissima e timida artigiana che mi ha insegnato come si intreccia e cuce il sisal.
In allegato, foto 1. Io mentre sperimento la tecnica Imigongo; si tratta di una miscela di sterco di vitello e terra setacciata utilizzata nella decorazione delle case. Una volta seccata viene dipinta, solitamente in bianco e nero. Centre du formation Gako, Butare.
foto 2. Flora tropicale nel giardino di casa, Tumba, Butare.
foto 3. L'artigiana Cristine mentre posa con un cappello realizzato in sisal, con una tecnica innovativa rispetto a quella tradizionale. Centre du formation Gako, Butare.
foto 4. Momento di lavoro nel prato del Centre San Marco di Kanombe.
foto 5. Altro momento di lavoro con Immanuel, artigiano del legno.
foto 6. Preparazione del set fotografico, vicino ad una casa in terra cruda abbandonata, per i prototipi finali del workshop coordinato dal visiting professor Riccardo Blumer.
foto 7. Dettaglio del prototipo.