L’economia non crede nelle ideologie, nelle storie antiche, nei discorsi nazionalisti. Neppure nelle leggi politiche o nelle frontiere tradizionali. I numeri parlano un altro linguaggio.
Demoliamo, pezzo per pezzo, la retorica di Fidel Castro sull’impero del nord e sulla sua presunta ansia di impadronirsi di Cuba. È una storia fin troppo manipolata e raccontata male. Al giorno d’oggi, l’isola non rientra negli interessi economici e strategici della politica statunitense. Per questo viene mantenuto l’embargo.
Cuba non è la Cina e neppure il Vietnam, due nazioni che calpestano i diritti umani e le libertà politiche proprio come il regime di Raúl Castro. La differenza - detto in termini brutali - è soltanto economica. La Cina possiede un mercato di un miliardo e trecento milioni di consumatori, una mano d’opera qualificata che lavora a basso prezzo, sfruttata dal governo con la collaborazione di numerose multinazionali, che pagano salari da fame a persone che lavorano fino a 14 ore al giorno.
La Cina è la fabbrica del mondo e gli Stati Uniti sono la nazione più pragmatica del pianeta. Guardate il caso del Vietnam. Non sono stati un ostacolo ai rapporti economici tra le due nazioni neppure i 50.000 soldati statunitensi morti nel delta del fiume Mekong. In virtù di interessi commerciali, gli Stati Uniti trattano il Vietnam come un paese privilegiato, trasformandolo nella risiera del mondo.
Cuba non ha mai combattuto contro il paese del Nord. Ma se pure fosse accaduto, nel terzo millennio non avrebbe più grande importanza. Non esiste regione più bellicosa dell’Europa, vecchio teatro di guerre feroci. Inghilterra e Francia hanno combattuto una guerra che è durata più di un secolo. Circa settantatré anni fa la Germania ha conquistato mezzo continente. I morti sono stati milioni.
Nella Seconda Guerra Mondiale, gli Stati Uniti hanno usato armi nucleari per costringere il fascismo giapponese a capitolare. Oggi, il Giappone è uno dei migliori alleati della patria di Lincoln. Nonostante la crisi economica, l’Europa scommette sull’integrazione, mentre tedeschi e francesi si comportano da buoni amici.
Non è possibile soffiare sul fuoco del nazionalismo storico ricordando un passato sanguinoso. Cuba non ha subito neppure l’umiliazione del Messico, che nel secolo diciannovesimo si vide espropriare parte considerevole del suo territorio. Quel che resta delle presunte mire espansionistiche nordamericane nei confronti di Cuba è una base militare a Guantánamo, trasformata in carcere per terroristi dopo l’11 settembre del 2001.
Ogni giorno, migliaia di messicani scavalcano frontiere, attraversano tunnel e deserti solo per raggiungere il suolo nordamericano. Canada, Messico e Stati Uniti sono alleati strategici, finanziari e commerciali, anche se gran parte della California è stata conquistata due secoli fa dai nordamericani ed è ancora piena di messicani che bevono tequila e consumano tacos.
Gli orrori delle battaglie, le invasioni e le conquiste di territori non hanno impedito l’integrazione dei popoli. I politici xenofobi possono gridare a voce alta e accusare l’emigrazione di ogni tipo di crisi e sfacelo. Ma la lettura della storia ci dice che l’emigrazione è stata solo un motivo di sviluppo.
Per geopolitica e stupidità, Washington si è assuefatto a vecchie strategie. Ha mantenuto un embargo obsoleto per interessi economici e giuridici, accampando persino ragioni etico – morali (come conseguenza delle espropriazioni realizzate dai barbudos nei primi anni della rivoluzione, centinaia di imprese e di cittadini statunitensi furono espropriati di tutti i loro beni).
Se domani venissero scoperti giacimenti petroliferi nel Golfo del Messico, o minerali preziosi nell’oriente cubano, forse i politici statunitensi cambierebbero politica. Nonostante le antiche tradizioni democratiche, se fosse conveniente per i loro interessi, i nordamericani scenderebbero a patti con gli autocrati in verde oliva. Gli Stati Uniti non si sono mai fatti scrupoli di trattare con personaggi come Trujillo, Somoza o Pinochet. Castro non è un dittatore peggiore o migliore di altri.
Il problema attuale è che un gruppo di cubani della Florida tiene in mano le relazioni bilaterali tra i due paesi e ostacola ogni tipo di rapporto. Nel bene o nel male. Se negli anni Sessanta la Casa Bianca era la responsabile diretta delle politiche verso Cuba, da circa quarant’anni non è più così. Le strategie vengono dettate dalla Fundación Nacional Cubano Americana, creata dal defunto Jorge Mas Canosa. Si può essere d’accordo o meno con questa visione politica, ma è innegabile che la Fondazione ha raggiunto una posizione di potere nel Congresso e nel Senato statunitense.
I cubani hanno fatto di Miami una base importante per gli affari economici. La città fa parte degli Stati Uniti, ma in pratica è una provincia cubana.
Miami è più vicina all’Avana di Santa Clara, la Florida è la seconda regione con più abitanti cubani dopo la capitale. Tra dieci anni a Miami risiederanno più cubani che all’Avana. Il PIL dei cubani in Florida supera di sei volte il corrispondente economico dei fratelli Castro.
Nel 2011, il denaro è tornato allegramente verso Cuba. Oltre due milioni di dollari sono entrati nelle casse del regime. Se a questi sommiamo l’enorme volume di pacchetti pieni di medicine, cellulari, computer, elettrodomestici e altri oggetti che ogni giorno arrivano sull’isola, probabilmente l’ammontare dei traffici supera i 5 milioni di dollari. Come se non bastasse, ogni anno si recano a Cuba mezzo milione di esiliati con i portafogli pieni di denaro e le valige zeppe di alimenti, vestiti e scarpe per aiutare i poveri parenti che risiedono sull’altra sponda.
Una parte degli imprenditori cubani che vivono in America possiede denaro sufficiente per destinarlo alla ricostruzione di un’isola devastata. Molti non aspettano altro che l’occasione per poterlo fare. Con Castro, o dopo che Dio se lo sarà portato via. Pertanto, la teoria della frutta matura - portata avanti da un senatore nordamericano - che teneva banco nel secolo diciannovesimo, non presenta molta utilità nel 2012. Parlare di interessi e di mire espansioniste degli Stati Uniti verso Cuba non è serio.
È proprio il governo dei fratelli Castro che ogni giorno dipende un po’ di più dall’economia della Florida, come una persona che sta annegando si aggrappa al suo salvagente. Miami è l’estensione di quell’Avana che cadde nel 1959. Se non fosse esistito Fidel Castro, forse la storia della Florida sarebbe diversa.
Mi piacerebbe chiedere ai politici statunitensi se qualche volta hanno pensato di cedere Miami a Cuba per farlo diventare una provincia dell’isola caraibica. In realtà non farebbero altro che mettere in pratica la realtà.
Iván García
(da www.martinoticias.com, 10 giugno 2012)
Traduzione di Gordiano Lupi