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Le depravazioni di una masseria bavarese: “Stallerhof” di Franz Xaver Krötz 
di Gabriella Rovagnati
02 Luglio 2012
 

Berlino, 2 luglio 2012 – Scritta per épater le bourgois, per irritare le coscienze dei borghesi, come moltissime opere degli anni settanta nate sull’onda della rabbia libertaria del ’68, la pièce teatrale Stallerhof [La masseria degli Staller], dello scrittore, regista e attore bavarese Franz Xaver Krötz (Monaco, 1946), allora militante del Partito Comunista Tedesco (DKP), è cruda, amara, basata più sui silenzi che sul dialogo.

Già al suo primo allestimento, nel giugno del 1972, il lavoro contribuì soprattutto a mettere in evidenza il talento attoriale della protagonista, Eva Mattes, acclamata per la sua interpretazione del ruolo della protagonista, Beppi, la figlia ritardata degli Staller.

Anche Sarah Viktoria Frick, che recita la stessa parte nel dramma in un allestimento del Burgtheater di Vienna diretto da David Bösch, in questi giorni ospite al “Berliner Ensemble”, è stata premiata dalla critica per la sua interpretazione, applaudita anche dal pubblico tedesco. La sua magistrale recitazione è fatta, come si diceva, più di gesti che di parole, perché Beppi Staller è portatrice di handicap, non riesce a leggere e a parlare in maniera “normale” e soffre per il disprezzo evidente dei suoi genitori, che in questa figlia vedono una sorta di castigo. Ma anche fra loro la comunicazione è disturbata, fatta di qualche frase urlata che non arriva mai a una vera conversazione e a un vero reciproco scambio.

E limitata è anche la capacità espressiva di Sepp, il vecchio bracciante storpio alle dipendenze degli Staller, che dal padrone della masseria è trattato come una bestia da soma. Sepp, un reietto, è l’unico a prestare attenzioni a Beppi, come lui una outsider, inducendola ad avere con lui rapporti sessuali. Difficile dire dove sia il confine fra pura animalità e amore in questa anomala relazione. Quando gli Staller la scoprono, in ogni caso, la ragazza minorenne è già incinta. Per evitare scandali, i padroni della masseria licenziano Sepp, dopo avergli ammazzato il cane a cui è tanto affezionato, e decidono di far abortire la ragazzina. Ma la madre non riesce alla fine a infierire contro quella figlia sprovveduta e ignara, che porta a termine la gravidanza e partorisce Georg, sviluppando nei suoi confronti, pur nella limitatezza della sua coscienza, un profondo amore materno.

Quando i genitori decidono di affidare il neonato a un orfanotrofio, infatti, Beppi fugge di casa con il bambino e si rifugia da Sepp che accoglie entrambi con grande benevolenza. Ma l’idillio a tre dura ben poco, perché Sepp muore poco dopo di polmonite. Quando la ragazza, abbandonata a se stessa, viene invitata dal tribunale dei minori ad affidare il proprio bambino a una pubblica istituzione, preferisce ucciderlo.

La scena, nella regia di Bösch, è dominata da un enorme crocefisso, di fronte al quale Beppi, colta di tanto in tanto da quel senso del peccato inculcatole da una famiglia tanto bigotta quanto anaffettiva, s’inginocchia a pregare. Il testo è un’accusa contro ogni forma di sopruso: contro un cristianesimo ostentato, ma svuotato di senso e di fatto utilizzato solo come strumento di repressione e contro le angherie di chi è più ricco e più sano contro chi è meno fortunato. Ma è anche un invito a riflettere sulla complicità di persone come gli Staller che, trattando Sepp alla stregua di una bestia, in fondo contribuiscono a far sì che costui ricorra senza scrupoli alla pedofilia. La causa di tutti i mali è, in buona sostanza, l’ignoranza che inibisce ogni percorso verso l’autocoscienza.

Il divario fra la lentezza con cui procede l’azione e la brutale rapidità con cui si decide del destino del prossimo, fra le pause in cui predomina la mimica e il minimalismo concitato dello scambio verbale fra i personaggi, vuole indurre il pubblico, ormai indifferente a ogni scandalo, a non chiudere gli occhi di fronte a realtà perverse che cercano di mantenere se stesse avvolte nel buio e nell’omertà, ma che invece, secondo Krötz, vanno denunciate in tutta la loro disumana crudeltà.


 
 
 
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