Nella poesia “Anticipo” dell’ultima raccolta Res Amissa Giorgio Caproni scrive: «Ancora non era morto. / Ma già aveva accesa in mente / la cecità del veggente».
Il poeta scopre che è possibile accedere a uno stato di veggenza in un tempo prossimo alla morte, come se, all'individuo che si avvicina alla propria fine, fosse rivelato qualcosa. Ma cosa? Caproni afferma che sia la propria immutabile condizione di morente. Perché questa condizione può definirsi veggenza? Perché avere coscienza della propria condizione di morente può dirsi veggenza? Ogni veggenza è cieca poiché mette in contatto chi la possiede con una propria esperienza personale non trasmissibile – descrivibile forse, ma non comunicabile come esperienza viva. Ma la cecità di Caproni è doppia, come rafforzata, invincibile, granitica, poiché l’attore principale non è ‘la veggenza’, ossia l’immagine che da fuori si riceve, ma invece la cecità stessa, che si scava nella mente dell’individuo paralizzato nella sua condizione ultima, nella vita alle porte della morte.
Caproni con il titolo “Anticipo” accende e spegne immediatamente la possibilità di una visione post-mortem. Questa viene istantaneamente risucchiata nell'assenza di tale visione, catalogabile come impossibile. È quindi pietrificata nella vita una visione cieca, che è l’unica realtà, l’unico dono che l’individuo può ricevere, e lo può ricevere da sé soltanto. Ma questa condizione è tanto ambigua quanto inequivocabile. È quindi una condizione sfuggente ma concreta, e può essere osservata, ma mai del tutto dominata.
Ogni poesia di Res Amissa riesce a fermare un grado essenziale di quella condizione, ma non a focalizzarne il fuoco.
Ecco un’altra breve poesia di Res Amissa, “Clausola”, che descrive lo stesso tema ma da una differente angolazione, si passa dalla percezione alla retorica: «Tanto per non finire: / la morte, già così allegra a viverla, / ora la dovrei morire? // (Non me la sento, d’ucciderla.)».
Il poeta si chiede se esiste il morire della morte al finire ancora vivo della vita, se il poterlo dire chiaramente in un’espressione verbale possa bastare a determinarlo come reale, come condizione estrema e vivibile. A Caproni basta l’ambiguità del possibile e mai certo. Definisce in questo modo la zona della condizione estrema dell’individuo. Il lettore, grazie a queste poesie, sembra poter toccare il suo fondo e scoprire una nuova apertura che, anche se in negativo, può riaccedere in futuro a una dimensione umana e generale non più solo individuale.
Ecco allora la poesia “Due tempi dell’indicativo”: «Ormai superato nel vuoto / il più futuro futuro, / già ho stanza nel trapassato / più trapassato e remoto?» Qui il poeta si chiede se l’essere nell'estremo futuro e nell'estremo passato siano raccolti nel medesimo tempo, riportandolo a una forma originaria e originale del sé.
Vorrei insistere su questo punto. Nell'opera di Caproni e nella sua ultima raccolta in particolare esiste una tensione di riscoperta della Vita. Per Caproni Res Amissa è la cosa perduta che non si riesce a trovare, che forse esiste e che non deve essere trovata. È la Vita stessa ad essere persa. E il poeta ci dice che questo è ciò che accade oggi: la Vita perduta che eternamente deve essere recuperata.
Ogni poesia di Res Amissa si avvicina a quel centro inafferrabile come l’ombra proiettata di quel luogo. Il suo lavoro consiste nel togliere lo spazio che ci separa da noi stessi.
Caproni vive quest’esperienza nella breve scena della poesia “Scaffalature”: «Guardavo le scaffalature. / Il ricco assortimento. / Guardavo nella bruna penombra / quasi claustrale, l’ombra / che in piedi m’interrogava». Egli diventa la proiezione di un’ombra e l’ombra il tutto residuale di un’anima e di un destino. La penombra che racchiude la scena opera uno svuotamento in cui appare il residuo di un individuo.
La Vita che abita nell'individuo non ha più filtri, e può essere toccata direttamente. Questa reale consistenza si mostra alla mente e non più agli occhi. Siamo alla radice nuda dello stato vivente di un individuo.
Nella poesia “La barriera” lo spazio si sdoppia, si ripete e si annulla isolando la presenza umana, che resta sola cosa esistente: «Quello che tu, mio vecchio, / scorgi oltre frontiera / è quanto è qua. //La barriera / - non te ne accorgi? – è uno specchio».
Ecco il miracolo di Caproni – non è un’esagerazione, ma esattamente ciò che accade –, egli permette il contatto con la nuda essenza alla base della mente e del pensiero. Egli riempie il mondo ormai svuotato con un seme nudo, reale, chiuso nell'identità di un singolo, di ogni singolo essere umano. Egli crea una trasmissione potenziale, ritrovata, nella marea umana, una forza personale che può riacquisire un linguaggio comune, ricostruito, reinventato, inequivocabile.
Caproni crea già la sostanza della cultura e della poesia del XXI secolo, e ne avverte l’architettura, il suo peso radicale che nasce nella persona.
Una quartina senza titolo lo afferma chiaramente: «Ahi mia voce, mia voce. / Occlusa. Rinserrata. / Anche se per legame / musaico armonizzata». Lo spazio, la pausa di tempo che frammenta e smonta la composizione è in Caproni ‘armonizzata’, cioè fedele a una costruzione il cui fine è sconosciuto, ma che sente in sé il compiersi di un accordo.
Egli riporta il Bene – termine che lui stesso ha usato a commento di Res Amissa – oltre la porta del suo tempo.
*
L'artista e poeta Jacopo Ricciardi mi ha affidato questo testo in memoria di Giorgio Caproni, esposto durante il suo intervento del 23 maggio presso la Biblioteca “Guglielmo Marconi” di Roma, per il centenario della nascita del poeta. La Biblioteca, che dal 2006 ospita la preziosa raccolta dei suoi libri, ha voluto onorarne il ricordo con diverse iniziative: una mostra e un incontro per raccontare il profondo legame di Caproni con la città, letture per ascoltare i suoi versi, documentari per trasmetterne un’immagine intensa e laboratori di poesia per i più piccoli. Il progetto è stato ideato e curato da Elisa Donzelli. Sono intervenuti anche Biancamaria Frabotta, Fulvio Stacchetti, Pamela Di Lodovico, e i figli Attilio Mauro e Silvana Caproni. (Matteo Bianchi)