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Brescia. Confermata in appello la condanna del “Gazetin” 
Pugno di ferro sì, ma... con i piedi di piombo! Che fine fa la libertà di espressione...
14 Giugno 2012
 

Si è tenuta martedì 12 giugno 2012, presso la Seconda Sezione Penale della Corte d'Appello di Brescia l'udienza dibattimentale per la discussione del ricorso contro la sentenza 25 novembre 2009 del Tribunale monocratico di Brescia che, come i nostri lettori ricorderanno (cfr. Tellusfolio, 26/11/2009), aveva condannato il periodico 'l Gazetin – e per esso, precisamente, il suo direttore responsabile (che qui scrive) con la redattrice Vanna Mottarelli – per l'articolo «Fanfarillo “one self man”», pubblicato dal giornale nell'agosto 2004. L'udienza era fissata per le ore 12:00, e puntuali eran presenti in aula per quell'ora i due imputati accompagnati dal loro difensore, ma ha avuto inizio intorno alle 16:30, ad esaurimento di tutte le restanti in programma per la giornata (comprese quelle che nell'ordine seguivano la nostra), ad aula completamente deserta di “estranei”: unici a spiccare nella parte riservata al pubblico – dove il presidente della Corte ha rivolto lo sguardo rientrando dalla camera di consiglio prima di leggere il dispositivo della decisione – l'incrollabile Franco Gianoncelli, ben noto a chi conosce la storia da cui anche l'odierna vicenda prende le mosse, e Gianfranco Camero, di Radicali Sondrio, venuti a Brescia in sostegno, morale, degli imputati.

Preso atto della rinuncia all'intervenuta prescrizione, la Corte ha confermato senza riforma alcuna la sentenza di primo grado, riservandosi il termine di trenta giorni per il deposito dei motivi. Evidentemente il collegio, così come già la procura e ovviamente la parte civile, ha fatto proprio il corposo argomentare del primo giudice che si è dovuto arrampicare sugli specchi per 'dimostrare' che l'espressione, unica, contenuta nel capo d'imputazione («Il pugno di ferro del dottor Fanfarillo ha colpito due generazioni della famiglia Gianoncelli e ora si appresta a colpire la terza».), di per sé oggettivamente non offensiva né diffamatoria, esplicitasse in realtà l'accusa di “parzialità” – particolarmente infamante essendo rivolta a un giudice – nel contesto e in relazione alle restanti parti dell'articolo. Articolo, si badi bene, di poche battute e redatto dalla “difensora dei diritti umani” (titolo a buon diritto guadagnato sul campo, a parere -sindacabilissimo- di chi scrive, ovviamente) Vanna Mottarelli a ridosso della decisione ritenuta, a torto o a ragione, ingiusta del Tribunale di Sondrio di rigettare la ricusazione di un giudice da parte della terza generazione della famiglia Gianoncelli. «Ricordiamo in breve», dice infatti a un certo punto l'articolista proprio perché i fatti, che poi vengono sommariamente elencati per mera dimostrazione della ragione giustificante la ricusazione, già erano stati singolarmente e ampiamente trattati sul giornale e dunque noti ai lettori. Tale mancata esaustività, e credo qui non ci si discosti molto dal paradosso, è stata invece strumentalmente usata, nel processo, per individuare ma più spesso soltanto alludere a presunte verità falsate, mezze verità e così via liberamente interpretando, che sarebbero contenute nell'articolo. Ma, al di là della produzione documentale (e sarebbe bastato leggerla, e studiarla...) che alcuno si è ben guardato dal qualificare non esaustiva, perché negare allora l'escussione dei testi richiesta nel primo e, parimenti inutilmente, reiterata nel secondo grado di giudizio?

Troppo lavoro? Timore per troppo complesse conseguenze che sarebbero potute derivare trattandosi di un “collega”? Non è dato sapere. Meglio procedere... con i “piedi di piombo”. Si prende così per buona la tesi sostenuta dalla parte civile, che l'articolo si sostanzi di sola “critica”, e così – se pure l'esercizio della stessa costituisce diritto tutelato – più difficile e maggiormente opinabile risulta dimostrane linearità, continenza, etc. Giacché trattandosi invece di pura “cronaca”, per la precisione antologizzata e compendiata nel caso in parola (si vedano, per chi vuol approfondire, i singoli pezzi nell'archivio on line), semplice e del tutto lineare sarebbe stato verificare, sulla base della documentazione e delle testimonianze, la veridicità dei fatti in essa riferiti. Se poi questi, i fatti, producano maggiore o minore onorabilità per chi ne è stato protagonista, potrà essere lecito per il cronista (specie se anche dichiarato “difensore dei diritti umani”) esprimerne personale opinione e dovere per il giudice trarne le eventuali conseguenze giuridicamente rilevanti. In buona sostanza e in conclusione: se questi fatti esistono, se ne può o non se ne può parlare?

A quanto pare, NO (scritto in caratteri via via sempre più cubitali). Con buona pace della libertà di espressione.

Conseguenze pratiche per il giornale, come già concludevo nel novembre 2009 commentando la prima sentenza: altri 15/16mila euro da sborsare, non appena l'odierna decisione diverrà provvisoriamente eseguibile, dalle casse già deficitarie e indebitate dell'Editrice, con pericolo sempre più imminente di definitivo collasso.

Per parte nostra, verificandone estremi e condizioni, non mancheremo di proporre ricorso in Cassazione per difendere le nostre, non venute meno, buone ragioni.

 

Enea Sansi


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