Lo chiamavano Hemingway. Ma non era uno scrittore, piuttosto un vecchio ubriacone. Nessuno dei vecchi compagni di sbronze si ricordava chi fosse stato a trovargli quel soprannome. Forse Mario dell'officina, o Franco del negozio di alimentari all'angolo. Oppure Gianni, che passava il suo tempo al bar della stazione, a bere bianchi e Cynar e sgranocchiare patatine. Insomma, Hemingway era Hemingway, ma non sapeva perché lo fosse. Tuttavia lo era, e di quel soprannome ne andava fiero come di un titolo nobiliare. Era stato un professore di letteratura italiana, Hemingway. Cacciato con ignominia dal liceo del paese. «Tutto perché sono comunista!» diceva lui bestemmiando e bevendo vino. La realtà era molto più banale. Scoperto ad allungare la mano verso la gonna di una sua alunna («Maggiorenne, però!» ci teneva a precisare Hem), gli erano state poste di fronte due pillole amare. O meglio, la stessa pillola, ma raddoppiata. «O te ne vai o te ne vai...» aveva detto il preside salomonico. Hemingway, sangue rosso e cuore a sinistra, aveva risposto con il più garibaldino degli «Obbedisco!». E se ne era andato.
Così passava il tempo al bar, a leggere La Gazzetta dello Sport e bere vino. Aveva anche brevettato una nuova forma di alcolismo, di cui andava molto fiero. «Perché non mi versi il vino sul boccale della birra?» aveva chiesto un giorno al barista di servizio. Il barista lo aveva esaudito senza problemi, porgendogli mezzo litro di vino in un sol colpo. Hemingway, gli occhi lucidi, lo aveva subito ribattezzato “bomber”. Da quel giorno in poi il suo mondo non era stato più lo stesso.
Beveva cinque-sei bomber al giorno, seduto al bancone di formica del bar. Li spazzolava come fossero acqua di fonte, scatenando la disapprovazione dei passanti perbenisti e la segreta invidia dei suoi sociopatici compagni di sbronze. C'era poco da dire: il bomber era una prerogativa di Hemingway. Non sarà stata un'idea geniale, eppure era stata la sua idea, e loro lo invidiavano per questo. Avevano così iniziato a emarginarlo, per quanto sia possibile emarginare un ubriacone al bar. Non gli parlavano, se non per prenderlo in giro, ma con discrezione. Oppure gli sequestravano l'amata Gazzetta dello Sport, lasciandogli solo un giornaletto di annunci immobiliari, sostanzialmente illeggibile.
Hemingway, però, non si era demoralizzato e, rinvigorito da numerosi bomber, era partito al contrattacco. Recuperati un vecchio quaderno di scuola e una penna Bic nera dal cappuccio smangiucchiato aveva iniziato a scrivere fitto fitto dal bancone di formica, sbirciando i suoi ex-amici e ridendo sornione di tanto in tanto. E più questi gli rubavano la Gazzetta chiamandolo “Piccolo scrivano fiorentino” («Io lo odio il libro Cuore!» Rimuginava Hem), più lui scriveva fitto, coprendo le pagine del quaderno con il braccio sinistro.
In poco tempo il dubbio su cosa stesse scrivendo in maniera così assidua Hemingway sconvolse il locale. C'è chi ipotizzava stesse lavorando a un romanzo sulla sua vita, chi invece parlava di lacrimevoli scuse al preside della scuola. Altri ancora ipotizzavano fantomatiche lettere d'amore alla studentessa dei suoi sogni. Gianni, nella sbronza cattiva dell'ennesimo bianco e Cynar, disse che era certo che Hem stesse scrivendo il suo testamento. Cercò addirittura di tirare due schiaffi a Mario, per convincerlo di ciò. Pur non riuscendoci la tesi del testamento divenne universalmente accettata all'interno del bar.
Nessuno però si prese mai la briga di andare da Hem, affrontare il suo sguardo divertito e chiedergli che cosa ci fosse scritto in quel quaderno. Nessuno tranne Margherita, la nipotina di Mario. Si sa che i bambini sono lo voce della verità. O forse, semplicemente, la voce del buon senso. Così, una domenica mattina, uscita con il nonno dalla chiesa e entrata al bar per un cornetto, Margherita si era decisa a chiedere a quel signore perché ridesse così tanto e cosa stesse scarabocchiando con tanta foga. Hem, con tutta la dolcezza del mondo, prese la bambina sulle ginocchia e, chiudendo il quaderno, disse. «Scrivo dei discorsi, piccina!» «E che tipo di discorsi scrivi?» chiese Margherita con voce angelica. Nel bar calò un silenzio da spaghetti-western. Quando nel saloon entra il cacciatore di taglie, e i criminali si girano lenti e guardinghi a sfidarlo con gli occhi. «Scrivo, piccina, i discorsi che leggerò ai funerali di quei vecchi bastardi laggiù!» disse Hem puntando il dito verso il tavolo dei suoi ex-compagni di sbronze.
L'aria diventò irrespirabile. Gianni corse al bancone di formica. Strappò di mano il quaderno ad Hem, che se la rideva di gusto, e iniziò a leggere. Su ognuno di loro aveva scritto pagine e pagine di insulti, pettegolezzi, affari di corna, sbronze moleste e vigliaccherie varie. C'erano tutti. Nessuno escluso. E su tutti, i commenti si sprecavano, intervallati da bestemmie e improperi che rendevano la lettura gustosa e blasfema come un bibbia pornografica. Gianni passò il quaderno a Mario, che a sua volta lo passò a Franco, e così via, coprendo tutto il tavolino dei vecchi ubriaconi. Fu un attimo. Si guardarono tutti negli occhi, Hem compreso, e iniziarono a piangere come dei bambini, con Margherita incredula a guardarli. Gianni prese la Gazzetta dello Sport che aveva sequestrato gelosamente fino a quel momento e la porse a Hemingway. Anche Mario si alzò dal tavolo e, come fosse stata la più sacra delle reliquie, porse il quaderno all'amico ritrovato. «Il mio ideale» disse Hemingway parafrasando Garibaldi «è sempre stato un brigante. Ma onesto!». Poi ordinò un giro di bianchi e Cynar. E pace fu.
Lo chiamavano Hemingway. Ma non era uno scrittore, piuttosto un vecchio ubriacone. Nessuno dei vecchi compagni di sbronze si ricordava chi fosse stato a trovargli quel soprannome. Eppure, quando andarono al creatore, vollero tutti essere raccontati per un'ultima volta dalla parole di Hem. Perché la vita, per tutti loro, era stata una gara a nascondere i difetti. Salvo scoprire, poi, che nell'apoteosi della morte erano solo quelli ciò che portavano con sé.
Andrea Gratton