Maledimiele. Un miele che sa di fiele. Mellifluo e amaro morbo è. Anoressia, il suo nome.
Sara è una liceale di buona famiglia, un'adolescente che entra nel nero gorgo della malattia che è ormai la prima causa delle morti degli adolescenti in Italia, più di quante siano causate dalla droga, dall'alcol, dagli stessi incidenti automobilistici. Un disagio psichico-esistenziale travaglia impadronendosi, implacabile, della persona(lità) e scagliando in abissi di silenzio, nel segreto pozzo della solitudine. Il dimagramento abnorme, palese, è soltanto la punta dell'iceberg. Di anoressia, ricordiamolo, si può morire. Con l'anoressia, in ogni caso, si (con)vive malissimo. Al massimo, si sopravvive. Ma è curabile. Può e deve esserci una speranza, oltre che una terapia.
Il malessere di Sara, 15 anni, è senza conforto: né la madre, professionista del mondo dell'arte, né il padre medico colgono inizialmente il dolore ottuso e invincibile della ragazza, la sua buia corsa all'autoannientamento. Dopo, potrebbe forse essere tardi. Forse, chissà... Il regista ha rinunciato a ogni pruderie. Ma il dipanarsi della storia è egualmente, inevitabilmente, drammatico.
Una Milano stralunata e lunare fa da sfondo alle vicende, una città interiore di lunghi abbandoni.
L'ossessione della taglia perfetta, del peso perfetto... c'è molto di più in quella lenta vertiginosa corsa al degrado fisico, che diviene, nella testa di chi ne è schiavo, anche morale. Una piaga sociale.
Proiettato in vari istituti scolastici, il film ha suscitato dibattito e discussione e anche... outing (persino due professoresse!), innescando azioni virtuose, spirali positive, primi interventi risolutori. «Siamo stati sul limite del fastidio, del disturbo» sostiene il regista Marco Pozzi, «vedere il mondo con gli occhi di Sara... Non ci interessava la compassione, la trovavo pericolosa. Peraltro ho sempre pensato che il film doveva avere una parte importante nelle scuole».
Gianmarco Tognazzi, nel ruolo del padre Enrico, ha ribadito: «L'anoressia è un grido d'allarme alla famiglia, alla società».
Ancora dalle note di regia: «Ogni blocco narrativo è suddiviso ed evidenziato da un numero in cifre che indica il peso della protagonista. La scansione numerica accompagna passo dopo passo lo spettatore nell'evolversi della malattia e lo conduce dentro la dimensione mentale della stessa evitando ogni compiacimento voyeuristico […] Chi si ammala di anoressia è schiavo di un tiranno senza volto che esige sottomissione incondizionata. Mentre si scarnifica un'anoressica si fa bella corteggiando la morte. I sintomi dell'anoressia costituiscono un linguaggio del corpo che reclama ascolto, ma nella fretta del quotidiano non c'è tempo per vedere il dolore dell'altro. Nella società dell'abbondanza un'anoressica si lascia morire di fame: forse il troppo di tutto si sta trasformando in troppo di niente».
Peccato che film del genere passino quasi inosservati ai botteghini e rischino di restare nelle sale per un tempo minimale. Ma il merito, grande, rimane a chi si è cimentato in tale impresa.
Eccellenti le interpretazioni, e bravissima nel suo liquido, stordito e dolente vagare, gli occhi dolorosi di miele, la protagonista. Benedetta Gargari.
Da segnalare la presenza, nei panni (anche onirici) della nonna, di Isa Barzizza. Una che, partita dalla rivista e dal teatro di prosa lavorando al fianco di Eduardo De Filippo e Macario, ha avuto anche nel cinema una brillantissima carriera (vari film con Totò) e che il 3 gennaio 1954, giorno d'inizio dei programmi ufficiali della televisione italiana, è andata in onda, come protagonista, dell'atto unico di Carlo Goldoni Osteria della posta. Un cameo prestigioso per un film coraggioso.
Alberto Figliolia