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Andrea Gratton. Sabotare l’ipocondria
31 Maggio 2012
 

Un ipocondriaco non è troppo diverso da un artista: ha i suoi “periodi”. Se Picasso, ad esempio, ha avuto il periodo blu, quello rosa, quello africano, quello analitico, quello sintetico e così via, un ipocondriaco può vivere un “periodo” per ogni malattia che si impone di avere. Di solito sono piccole sintomatologie, nella quasi totalità dei casi innocue, a fargli ipotizzare malattie di proporzioni cosmiche. Patologie devastanti, infezioni mortali, sindromi rarissime e, proprio per questo, incurabili. L’esistenza di quel mare magnum di notizie che è la rete 2.0 ha fatto sì che l’ipocondriaco saltasse spesso a piè pari la fase “consulto medico”, affidandosi a una ricerca online capace soltanto di aumentare i suoi dubbi e le sue paure, fino a farli sfociare in paranoia. Protraendo, così, i famosi “periodi” cui facevo riferimento in precedenza. Non so se si tratti di una precisa scelta degli spider di Google, fatto sta che, al momento di ricercare la causa di un sintomo banale come può essere un affaticamento muscolare o un’emicrania, le prime possibilità che vengono suggerite sono quasi sempre malattie estremamente rare e dolorose. Tutte, in maniera indistinta, con una percentuale di sopravvivenza inferiore al sedici percento. Inutile dire che quella che ho snocciolato finora non è una conoscenza teorica del fenomeno, bensì una nemmeno troppo sottile ammissione: sì, anch’io faccio parte del frammentato “Arcipelago degli ipocondriaci”. E ci sono dentro fino al collo.

La biblioteca del paese dei miei genitori mi ha visto nascere. Dai primi libri per ragazzi (la trilogia de I nostri antenati di Calvino, nella mitica edizione Einaudi) ai testi di filosofia per il liceo. Dai classici latini per l’esame di quinta superiore, al Canzoniere del Petrarca, per il secondo esame di Letteratura Italiana all’Università.1 In sostanza, però, ciò che mi portava a frequentare con assiduità quella biblioteca era la mia “formazione” come lettore. Un lettore, infatti, “costruisce” se stesso libro dopo libro, alimentandosi di volumi, alla ricerca di una ricorsività o di una rottura rispetto a uno stile, a un autore, a un periodo storico, o a un genere letterario. Pensandoci sopra, un lettore non è troppo diverso da un artista o da un ipocondriaco: anche lui ha i suoi “periodi”. Ecco, allora, il periodo “Thomas Mann”, il periodo dei poeti romantici francesi (Baudelaire, Verlaine, Rimbaud,..), quello della beat generation (Kerouac, Dos Passos, Ginsberg,…), quello dei classici francesi dell’Ottocento (Balzac, Stendhal, Zola,…), quello dei narratori italiani moderni (Tondelli, Tabucchi, Del Giudice,…), quello “Marcel Proust”, e molti, molti altri, fino ad arrivare a quello scoglio che ogni lettore ha incontrato almeno una volta nella vita: i “Russi”.2 Intendiamoci, il periodo “Russi” non è uno scoglio in quanto sia un periodo difficile da affrontare per noia, lunghezza dei testi o diversità strutturali tra la società russa e quella occidentale,3 bensì perché, una volta superato, lascia dentro un grande vuoto. Soprattutto quando ci si affaccia a nuove letture, estranee a quella galassia. Uno dei miei medici di fiducia,4 un simpatico signore sulla sessantina fissato sulla postura dorsale, mi disse un giorno, parlando di letture: «Andrea, io sono stato più furbo di te: Dostoevskij e Tolstoj me li sono tenuti tutti per la fine!». Chissà cosa sarà, poi, questa fine e quando inizierà il conto alla rovescia.

Nel 1970 Aleksandr Solženicyn vince il premio Nobel per la Letteratura. È curioso notare come, a quell’anno, l’unica opera di Solženicyn pubblicata in Russia fosse stata Una giornata di Ivan Denisovič, romanzo apparso nel 1962 e dato alle stampe solo dopo all’approvazione di Nikita Krusciov5 in veste di primo segretario del PCUS. Fino al 1990, infatti, Solženicyn non vedrà pubblicato in patria nessuno dei suoi svariati e importanti romanzi, se non in veste clandestina. Edizioni straniere che, per vie affatto agevoli, entravano illegalmente nella Grande Madre Russia, da cui fu esiliato nel 1974 a causa delle sue posizioni critiche nei confronti del PCUS. La sua colpa più grande, però, è stata di certo quella di aver fatto conoscere all’Occidente una parola tanto breve quanto sconvolgente: gulag. Solženicyn passò quasi una decina d’anni della sua esistenza nei campi di lavoro correzionale e politico istituiti dagli zar e poi implementati dai successori della rivoluzione bolscevica: Lenin e, soprattutto, Stalin. Per capire la vita in un Gulag e le sue dinamiche più recondite, Solženicyn ha scritto un’opera accorata, ma estremamente moderna: Arcipelago Gulag, uno dei più riusciti esempi di fusione tra ricerca storica e rielaborazione autobiografica in chiave narrativa portati a compimento da un autore russo.6 Inutile dire che quest’opera gli attirò le simpatie dell’Occidente nella stessa misura in cui allungò la sua condanna all’esilio. Non è di Arcipelago Gulag, però, che volevo parlare. Bensì di Reparto C (dove la C sta per cancro). Un libro che, per certi versi, è un suo progenitore prossimo;7 sia per quanto concerne le tematiche, che per quanto concerne le soluzioni stilistiche. Reparto C, da buon ipocondriaco, è un libro che mi ha sempre spaventato. Un libro che, quando lo prendevo in mano alla biblioteca del paese, mi trovavo a sfogliare incuriosito, salvo poi appoggiarlo di nuovo sullo scaffale e optare per un’altra soluzione.

Solženicyn ha quasi sempre avuto una bella barba imponente. Più alla Dostoevskij che alla Tolstoj, per intenderci. Una di quelle barbe soffici, imbiancate a striature. Linee sottili che, con il passare degli anni, si allargano fino a coprire l’intera estensione della barba stessa offrendo una sensazione di saggezza e misticismo capace di trasformare uno scrittore in un profeta. Nella copertina di Reparto C, invece, la barba di Solženicyn sembra essergli stata gettata in faccia a chiazze, senza alcun senso logico. Il tutto, poi, accompagnato da un verde smeraldo di fondo, che ne proietta la copertina nel mio inferno personale delle dieci più brutte copertine nella storia degli Struzzi Einaudi. È una copertina che allontana, quella di Reparto C, così come la tematica trattata: quella di un padiglione di un ospedale russo destinato alla cura di malati di cancro. Malati che entrano con le loro speranze, i loro dolori, le loro miserie, le loro vite in sospensione. Di primo acchito si potrebbe pensare alla Montagna incantata, ma sarebbe un errore. Là dove in Thomas Mann il filo della morte era sottile e allusivo, preludendo all’avvicinarsi della prima guerra mondiale, in Solženicyn è diretto, spietato, sbattuto in faccia con violenza fisica. Perché è il cancro stesso a esser violento, e la seconda guerra mondiale, con i suoi drammi, ha già avuto luogo: la catarsi è lontana mille miglia. Anzi, mille verste!8 Solženicyn, nella triplice veste di reduce, esiliato politico e scrittore non può far altro che descrivere tutto ciò. La vita dei malati del Reparto C è un susseguirsi di visite, burocrazie infernali, confronti esistenziali, paure. Il cancro è come una guerra, e Solženicyn conosceva bene entrambe le trafile: reduce decorato nel 1945 e dissidente politico malato nel 1954, anno in cui era stato ricoverato in quello stesso Reparto C, costretto a letto da un tumore per curare il quale dovette chiedere il permesso al PCUS. Il delirio della burocrazia si materializza quando il malato deve chiedere al suo Partito il permesso per potersi curare. Il permesso per poter vivere. Se si è stati espulsi9 da quello stesso Partito, allora, più che di delirio si può parlare di sadismo.

Poi, un giorno, mi decisi. Avevo appena consegnato alla bibliotecaria la copia di Lettere di condannati a morte della Resistenza europea, presa in prestito qualche settimana prima, quando mi trovai nuovamente di fronte Reparto C e il faccione verde e sbarbato di Solženicyn. Feci come deve fare un vero ipocondriaco: lo presi senza pensarci troppo su, e lo consegnai alla bibliotecaria, la quale si stupì non poco che io le avessi passato il libro con la copertina rivolta verso il basso. Lo portai a casa e iniziai a leggerlo tutto di un fiato. Lì, tra le pagine di Reparto C si riaccese la fiammella (mai sopita, a dire il vero) per i “Russi”. Lo divorai. Un passaggio, tra gli altri, mi colpì particolarmente: la scena in cui la figlia di un malato va a fare visita al padre (un noioso burocrate vecchio stampo) confessandogli le sue aspirazioni di poetessa/scrittrice, tanto speranzosa quanto ignara di ciò a cui va incontro. Il tema di discussione è la mancanza di sincerità degli scrittori russi, e la parola è alla figlia: «Il fatto è che bisogna apprezzare gli scrittori, sono dei lavoratori, eccome! Di mancanza di sincerità possono essere accusati gli scrittori occidentali, perché quelli sono anche venduti, se no l’editore non comprerebbe i loro libri. Là tutto è basato sui soldi». In fondo Solženicyn pubblicava in un Occidente opulento (più interessato a strumentalizzarlo in chiave anti-comunista che ad altro) che non apprezzava poi molto (e come dargliene torto?). La sua dimensione, come per ogni grande narratore russo, è la madre patria, con tutte le sue dicotomie. Nessuna esclusa. Odi et amo, come Catullo. O come Raskol’nikov, il cui nome10 serve a Dostoevskij per indicare un’anima scissa. La grande e tumultuosa anima Russa. Una specie di “Guerra e pace” intimamente irrisolta.

Proprio mentre stavo leggendo Reparto C Adam Yauch,11 membro fondatore dei Beastie Boys, moriva a New York a causa di un tumore alle ghiandole salivari. Ho pensato subito all’assurdità di tutto questo: un artista che vede la sua arte passare attraverso la voce e la saliva, muore a causa della degenerazione delle ghiandole che la emettono. L’ipocondriaco che c’è in me, prima ha pensato al malato di Reparto C che vede il collo gonfiarsi a dismisura (il padre dell’aspirante poetessa) e poi si è tastato il collo in cerca di linfonodi ingrossati. Chissà se la lettura di Reparto C ha fatto bene al mio tentativo di liberarmi da quest’ipocondria di fondo? Una cosa è certa, ovvero che i deliri e le paure restano tali, in ogni caso, soprattutto quando assecondati. E allora perché non assecondare le letture? Perché non moltiplicarle, perfezionarle, abbandonarci ai gusti che ci precludiamo o ai pregiudizi che ci siamo imposti. Perché non estenderle, fino a creare un arcipelago di suggestioni. Isole sconfinate di “periodi” non strutturati che ci arricchiscano e ci avvicinino a quello per cui, con forza, dovremmo puntare dal primo giorno in cui abbiamo preso un libro in mano, nelle nostre biblioteche di paese: la voglia di non smettere. Mai. Perché, a differenza di Solženicyn, non esiste nessuna nomenclatura capace di impedirci di farlo. Capace di rifiutarci una cura. La sola di cui abbiamo bisogno.

Ah, dimenticavo: I’m tellin’ y’all it’s a SABOTAGE!12

 

Andrea Gratton

 

 

1 Lo ricordo come fosse oggi, il mitico professor Balduino, tenutario della cattedra di Letteratura Italiana all’Università di Padova, il quale interrogava gli alunni sigaretta in mano, in barba alla legge anti-fumo. E se qualche inserviente zelante fosse intervenuto segnalando il palese divieto, sarebbero stati gli alunni a zittirlo. Perché un esame di Balduino senza le sue mitiche sigarette, non avrebbe avuto la stessa aura di sacralità tabagistica.

2 Inutile dire a chi mi riferisco quando parlo di “Russi”!

3 Uno degli appunti sulla letteratura russa che mi sono stati spesso mossi è piuttosto quello che riguarda la difficoltà di districarsi tra i vari nomi patronimici. Difficoltà che, una volta entrati nell’ottica di un Rodion Romanovič Raskol'nikov o di una Natal'ja Ilinična Rostova, scompare magicamente.

4 Un ipocondriaco ha sempre svariati medici di fiducia…

5 Nikita Krusciov, segretario generale del PCUS dal 1953 al 1964, nonché primo leader sovietico a visitare gli USA il 15 settembre 1959.

6 Prima delle opere “narrativo - storiografiche” di Solženicyn, penso ai diari di viaggio di Čechov, la cui esperienza di reporter è descritta in Scarpe buone e un quaderno di appunti (edizioni Minimum Fax). La cui copertina, casualmente, è di un vistosissimo verde smeraldo!

7 La prima versione “autoprodotta” di Reparto C apparve nel 1967, mentre la prima edizione di Arcipelago Gulag fu stampata a Parigi nel 1973.

8 La versta è l’antica misura di lunghezza dell’impero russo, equivalente a circa 1067 metri.

9 O meglio, costretto al confino perpetuo. Una specie di tabula rasa umana, che confina chi lo subisce alle regioni più ostiche e inospitali della Russia.

10 “Raskolnik”, infatti, è la traduzione russa per “scismatico” (riferita all’ambito clericale): Dostoevskij ne attua però un recupero in chiave laica, capace di alludere al tempo stesso all’aspetto religioso.

11 Adam Yauch, meglio noto come MCA, è stato cantante, musicista e regista di video musicali. Noto per essere uno dei tre membri del gruppo hip hop dei Beastie Boys, uno dei primi gruppi a fondere l’hip hop della cultura afroamericana con il punk/hardcore newyorkese.

12 “Sabotage” è il titolo del primo singolo estratto da Ill communication (1994), quarto album in studio dei Beastie Boys. Il video della canzone fu diretto dal regista Spike Jonze.


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Dir. responsabile Enea Sansi - Reg. Trib. Sondrio n. 208 del 21/12/1989 - ISSN 1124-1276 - R.O.C. N. 32755 LABOS Editrice
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