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Paola Mara De Maestri. Tito Botta e i “Plebei”
23 Maggio 2012
 

Riprende, dopo la pausa di un mese, il nostro reportage sul mondo del rock valtellinese, prendendo spunto dal libro Scossa elettrica di Paolo Redaelli, Dario Tocalli, con Maurizio Ciapponi.

Questa puntata è dedicata a uno dei primi complessi che si formarono nel Morbegnese nel lontano 1965: Pop Group Plebei ‘65. Conosciamo meglio questo gruppo musicale attraverso i ricordi di uno dei suoi leaders, personaggio assai noto in Valtellina in quanto è stato anni addietro sindaco di Morbegno e Presidente della provincia di Sondrio. Stiamo parlando di Tito Botta, il quale è stato ben contento di ripercorrere con la mente e con il cuore quell’incredibile periodo della sua vita e che ringrazio per il suo contributo, ricco di particolari nella sua amarcord.

 

Com’è nata la sua passione per la musica?

Ho sempre amato la musica fin da quando, ultimo di cinque fratelli tutti appassionati, mi era stato assegnato il compito di sostituire le puntine metalliche sul braccio del grammofono non appena i “padelloni” a 78 giri cominciavano ad emettere i primi fruscii. Granada e Blowing wild di Frankie Lane, Moolight Serenade e Chattanooga cho cho di Glen Miller, Le grisbi, Petite fleur di Sidney Bechet e i tanghi argentini classici erano all’epoca i cavalli di battaglia; avevo una decina d’anni e già mi affascinavano le canzoni in lingua inglese delle quali non comprendevo il significato, ma che capivo essere innovative per ritmo e sound.

Come ha imparato a suonare?

A quei tempi arrivava ogni tanto il “sabato”, giorno di mercato che si teneva in Piazza Caduti per la Libertà, un cantante di strada che sbarcava il lunario vendendo canzonieri. Si piazzava all’ombra del monumento ai caduti (allora era sul lato sud della piazza Cappuccini) e proponeva, accompagnandosi con la chitarra, anche le ultime novità di un Festival canoro organizzato da poco a Sanremo. Chi immaginava che il Festival avrebbe caratterizzato il costume italico e la storia della musica italiana? Comunque quei libricini andavano a ruba ed anch’io ovviamente rompevo le scatole ai miei per farmelo comprare e poi, attraverso l’ascolto per radio delle canzoni, le imparavo in fretta. L’arrivo del segnale Rai e il successivo diffondersi degli apparecchi televisivi fece il resto. Mi è rimasto comunque nell’anima il ricordo di quell’artista come testimonianza di un’epoca che ormai non c’è più.

Con l’arrivo del microsolco, degli LP, dei giradischi portatili e dei cantautori italiani la passione per le canzoni cresceva di pari passo con l’età; ancora adesso, a distanza di 50 anni, alcune canzoni marcano i vari periodi della mia adolescenza. Era talmente forte l’immersione nel sound delle canzoni che bastava sentirle un paio di volte per ricordarne testo e melodia.

L’avvento del rock poi fu una vera e propria esplosione di emozioni. Per me ha rappresentato una rottura con il vecchiume, il modo di eliminare molte incrostazioni e di imprimere un’accelerazione al mondo che marciava con troppa prevedibilità. Certo i timpani degli anziani ne avranno risentito non essendo abituati ai ritmi e alle voci grezze dei vari Chuck Berry, Little Richard, Jerry Lee Lewis; i miei li consideravano strilloni e si meravigliavano, criticando i miei gusti depravati, come potessero piacermi così tanto. A volte, adesso lo posso confessare, lo facevo apposta per farli arrabbiare.

A che età ha iniziato? Con quale strumento? Lungo quale percorso?

La voglia di suonare non mi venne comunque per “rockettare”; arrivò verso i quindici anni: volevo cantare, accompagnandomi con la chitarra, canzoni come Tom Dooley e Little darling, come alcune canzoni dei Platters, quelle di Don Marino Barreto jr e successivamente quelle dei cantautori italiani. Potrà sembrare contraddittorio, ma i miei cantanti preferiti erano il mitico Paul Anka e Peppino di Capri prima maniera; quello di Malatia, Nun è peccato, Ghiaccio, quello, per intenderci, che incideva per la casa discografica Carish. Nei suoi arrangiamenti trovavo fosse riuscito a far convivere il melodico del passato con le nuove tendenze.

Per assecondare la mia passione mi regalarono una chitarra acustica e un metodo per imparare a suonare; accordo dopo accordo, giro di Do dopo giro di Do, rompendo quasi quotidianamente i timpani ai miei famigliari, cominciai a mettere insieme un buon repertorio. Penso che quasi tutti gli appassionati di allora abbiano seguito questa trafila. Io compravo gli spartiti soprattutto per vedere se gli accordi da me trovati coincidevano con quelli dell’autore. Con l’orecchio musicale che mi ritrovavo spesso ci beccavo; erano gli accordi per i virtuosi che mi fregavano e, non conoscendoli, mi facevano capire la necessità di dover studiare la musica.

Me lo sono sempre ripromesso, ma non l’ho mai fatto se non in maniera molto superficiale. Comunque quello che avevo imparato era sufficiente per cimentarmi, sempre in privato, con qualche amico, ampliando così le possibilità canore. Qualche brano a due o a tre voci veniva benino; allora lo si registrava sul magnetofono a nastro, il mitico Geloso, che ci consentiva poi di risentire la performance e di fare le opportune valutazioni.

Poi arrivarono le prime chitarre elettriche. Un sound fino ad allora sconosciuto che però penetrava nell’anima. I Juke boxes diffondevano i brani di Duane Eddy e non mi pareva vero che da uno strumento uguale al mio si potessero trarre suoni così diversi. Sembrava quasi che tutto potesse venire più semplice. Diventò quindi imperativo possederne uno; il regalo arrivò per il mio ventunesimo compleanno: una Meazzi di color marrone scuro. Fece subito una brutta fine: non sapendo che per ottenere il suono bisognasse passare attraverso un amplificatore la collegammo direttamente alla rete elettrica, manipolandone lo spinotto; la chitarra emise una nuvoletta di fumo e fortuna volle che il chitarrista non rimanesse fulminato! Per carità di patria ometto di citare il nome dell’esperto chitarrista. La riparazione che ne segui non consentì più alla stessa di emettere il suono originale che in seguito sperimentai, suonandone una simile non sinistrata. Comunque, appresa la costosa lezione, la utilizzai per affinare la tecnica, imparando soprattutto i cosiddetti accordi barrés. Forse ai giovani d’oggi sfugge che molti chitarristi per cambiare tonalità usavano un ferro per spostare il capotasto verso i toni alti.

Qual è stato il passaggio da suonatore “fai da te” a componente di un gruppo musicale?

In quegli anni Morbegno offriva pochissime alternative: c’era chi praticava il calcio, chi amava il cinema, chi abitualmente frequentava il bar; insomma, una vera noia! Suonare la chitarra e cantare con gli amici le canzoni del momento era diventato un modo alternativo e soddisfacente di passare il tempo. Fu così che incontrai coloro con i quali condivisi per alcuni anni la passione per la musica; un amore che rischiò seriamente di tramutarsi in lavoro, se ad un certo punto non fossero intervenuti altri ragionamenti che ci imposero di privilegiare gli studi rispetto ad una attività incerta anche se poteva forse procurare fama e denaro. Decidemmo di formare un gruppo, inizialmente senza nome; ci univa solo la passione per la musica e la convinzione di poter realizzare qualcosa di divertente.

Da quali componenti era formato il suo gruppo?

Oltre al sottoscritto, chitarrista, c’era, pure alla chitarra, Giampiero Petrelli, il Chicco, la vera anima del gruppo; quello che con le sue capacità vocali e strumentali trascinava tutti noi; c’era, al pianoforte, il compianto Gianmaria Villa che, avendo fatto il conservatorio, dava la quadratura ai brani; c’era alla batteria Luca Volpatti, sosia in bello di Ringo Starr; l’altro chitarrista era Franco Riccabone dalla strisciata hard. Inizialmente faceva parte della combriccola anche Aristide Romegialli che suonava la cornetta, ma solo a labbro caldo. Ricordo che in questa formazione suonammo per un intero pomeriggio al “Little Bar”, il locale oggi trasformato nel night all’imbocco del cavalcaferrovia di Via Forestale. Fu un successo mirabile anche perché fummo in grado di sopperire per quasi un’ora alla mancanza di corrente elettrica che aveva zittito le nostre chitarre elettriche, attraverso l’uso di quelle acustiche. Quella fu la prima esperienza in pubblico; quella ci diede la convinzione che potevamo provarci anche noi.

In seguito il problema da affrontare fu quello di ritrovarci insieme per le prove e soprattutto quello di avere un locale atto ad ospitare le prove stesse. Le difficoltà di far coincidere le esigenze di più ragazzi fecero sì che rimanessimo solo in quattro a formare lo storico gruppo dei Pop Group Plebei ’65 così costituito: Giampiero Petrelli Chicco, alla chitarra e cantante solista, Luca Volpatti alla batteria, Raimondo Petrelli, che sostituì Franco Riccabone, ed io che nel frattempo avevo acquistato una Eko uguale a quella usata dai Rockes. Tutti all’occorrenza fungevamo da vocalists e da bassisti.

Come avete scelto il nome del vostro complesso e dove vi esibivate?

Decidemmo di chiamarci così in contrapposizione al complesso dei Patrizi. Per le prove andavamo a turno in casa di ciascuno di noi per non disturbare più di tanto la quiete delle famiglie e dei loro vicini di casa. Ovviamente si teneva il volume degli amplificatori al minimo; tuttavia qualche problema con il vicinato l’abbiamo avuto. Abbiamo provato persino in un locale adibito a tinaia nella vigna dei miei, ma non vi dico il disagio!

Cominciammo così ad esibirci in alcune discoteche della Bassa Valle; ricordo Traona, in un locale all’ingresso del paese, Gerola Alta presso il “Bucaneve” e l’albergo della funivia, Bagni del Màsino nella “Taverna Punta Milano”, Nuova Olonio, Morbegno presso il “Little Bar”; nella stagione invernale ‘65/66 gli altoparlanti della funivia Fupes diffondevano brani suonati da noi.

...tutto per passione o anche un po di 'professionismo'?

All’inizio ci esibivamo solo per il piacere di farlo, senza alcun compenso, ma ci sentivamo realizzati lo stesso. Per il trasporto degli strumenti utilizzavamo due automobili di famiglia: un’Austin A40S grigio-scura e un maggiolino Volkswagen bianco. Sulle portiere, con plastica adesiva, avevamo messo ben in evidenza il nome del complesso. Anche allora la pubblicità era l’anima del commercio e noi lo sapevamo. Non potevamo però più permetterci di suonare gratis se volevamo rinnovare la dotazione tecnologica del complesso senza pesare ulteriormente sulle nostre famiglie.

A quali manifestazioni partecipavate?

Partecipammo, vincendo, alla manifestazione canora tenutasi al cinema “Iris” di Morbegno; l’evento è stato ricordato nel libro La scossa elettrica, che rappresenta degnamente uno spaccato di quel periodo e quindi non mi sto a ripetere.

Quando avvenne il “salto di qualità”?

Il salto di qualità avvenne a fine 1965 quando fummo invitati a Bormio ad allietare la serata di fine anno presso il Dancing dell’hotel “Europa”. I proprietari furono talmente contenti della nostra prestazione che ci ingaggiarono anche per l’estate successiva. Ci esibimmo per quasi tutto il mese di agosto, ogni sera, in un locale sempre più affollato e pronto all’applauso. Quella stessa estate al “Shangril-là” di Via Roma, la storica discoteca progettata dal famoso architetto Belgiojoso, avevano ingaggiato la cantante Brunetta e i suoi Balubas che incideva per la Ricordi. Non era una cantante sconosciuta: nel 1960 aveva recitato nel film Urlatori alla sbarra insieme a Mina, Celentano, Umberto Bindi, I Brutos, Gio Sentieri, Elke Sommer e Chet Baker. Scesa da Bormio vincerà il Festival di Pesaro con Baluba shake, un brano che fu utilizzato come stacchetto da Fabrizio Frizzi nel programma televisivo “La botola” e che fu presentato anche a “Sette Voci” condotta da Pippo Baudo. Nonostante la notorietà dell’artista quel locale era spesso semivuoto e un paio di volte lei e i suoi orchestrali vennero di nascosto a sentirci. A parte i complimenti di circostanza riportatici dal nostro datore di lavoro, non mi fu mai dato di sapere quale fosse il vero giudizio sulle nostre esibizioni.

Che tipo di repertorio prediligevate?

Il nostro repertorio spaziava dalle canzoni dei Beatles quali Girl, Michelle, Yellow submarine a quelle più melodiche suonate da Santo e Jhonny quali Sleep walk, Maria Elena, dalle evergreen tratte da vecchi films quali Verde luna, Blue moon e Chissà, chissà, chissà, con arrangiamenti modernizzati ai successi di Elvis Presley quali It’s now or never e La casa del signore. Non disdegnavamo nemmeno di cantare ogni tanto dei gospels. Non suonavamo mai il genere del ballo liscio che venne di moda solo più tardi; per soddisfare la mosca bianca che una sera ci richiese un tango, per non deluderla, spudoratamente e incoscientemente, ne improvvisammo con successo uno lì al momento.

Quali sono stati i momenti più significativi di questa sua esperienza musicale?

Quell’estate fu veramente indimenticabile: gli spazi pubblicitari, le vetrine dei negozi e dei bar erano tappezzati dal manifesti con la scritta “Al dancing Europa si esibiscono i Plebei e le loro chitarre”; ti fermavano per strada per chiederti l’autografo e la fotografia; ti accoglievano con simpatia ovunque tu andassi; le ragazze ti guardavano come un alieno. Questo solleticava anche l’ego più profondo e le occasioni erano innumerevoli, ma il pensiero era rivolto alla signorina che oggi è mia moglie. Il compenso per venti giorni di kermesse, oltre al vitto a alloggio gratuito presso l’hotel, fu di poco inferiore alla mia prima mensilità percepita sei anni dopo (ben 116.375 lire!).

Bormio era diventata la nostra piazza. Lì ci esibimmo per le feste di capodanno e di carnevale sempre con grande soddisfazione sia personale che professionale. Il successo ottenuto nella Magnifica Terra, non ricordo di chi fu l’interessamento a nostro favore (forse un ospite dell’Hotel che ci stimava o forse la stessa Brunetta), ci valse l’appuntamento per un’audizione presso la casa discografica Vedette.

Agli inizi di febbraio del 1967, di sabato, con l’Austin e il maggiolino bianco carichi di strumenti ci presentammo all’appuntamento a Milano in Corso Europa, sede della casa discografica.

Ricordo che, in attesa di salire, sbucarono dall’ascensore Gino Santercole e Pilade appartenenti al Clan Celentano. Non vi dico lo stupore e l’emozione! Salimmo ed entrammo in un ufficio dove una bella segretaria, dicendosi costernata, ci informò che, purtroppo, il maestro non c’era e che il nostro appuntamento era spostato al sabato successivo. Stessa trafila la settimana dopo: ci presentiamo pieni di belle speranze, ma la stessa segretaria, scusandosi ripetutamente, ci fece sapere che il maestro era ancora assente e che si doveva rimandare il tutto di un’altra settimana. L’impressione fu che ci volessero prendere in giro e scattò quindi un meccanismo di rigetto che ispirò Luca a regalare al maestro, per interposta persona, un buono per un bel vaffa… e ce ne andammo dicendo che non saremmo più tornati. Tralascio i nostri commenti sulla strada del ritorno: molti bip ... bip e parole poche.

La sera accesi il televisore per vedere il Festival di Sanremo; ad un certo punto Renata Mauro, la bella presentatrice della manifestazione che coadiuvava Mike Bongiorno, annunciò che Gian Pieretti avrebbe cantato Le pietre con l’orchestra diretta dal maestro Angel Pocho Gatti. Caspita! Era lui il nostro uomo, ma ormai la frittata era fatta e non tentammo nemmeno di riallacciare i rapporti. Venimmo a sapere a distanza di poco tempo che la Vedette aveva ingaggiato il complesso dei Pooh.

Come si è conclusa la vostra avventura nel mondo della musica?

A distanza di anni Luca, che ancora oggi frequenta l’ambiente degli artisti, si trovò a tavola con Roby Facchinetti il quale gli ha ricordato come agli inizi della carriera i Pooh fossero in lizza con un complesso valtellinese. Com’è piccolo il mondo!

Poi cominciarono le prime difficoltà: gli studi venivano trascurati e i genitori ci chiedevano a che punto fossero gli esami; le morose si lamentavano perché non potevano festeggiare con noi le ricorrenze, essendo noi impegnati a suonare; noi stessi cominciavamo ad interrogarci sempre più spesso sul nostro futuro: finire gli studi o cercare di guadagnarci da vivere con la musica? Chicco era iscritto alla facoltà di Medicina a Genova, Luca alla facoltà di architettura al Politecnico di Milano, io alla facoltà di economia e commercio della Bocconi di Milano, Ray stava imparando la professione di elettricista. La scelta a mio parere fu saggia: finiamo gli studi poi si vedrà! Così si sciolse il gruppo e ognuno seguì la propria strada che, vista oggi, è stata tutt’altro che impervia: mi sembra che ognuno di noi l’abbia percorsa con successo.

So che in seguito i miei amici hanno fatto parte di altre formazioni. Io invece sono stato fedele ai Plebei, esclusa una serata di capodanno nella quale ho sostituito il chitarrista assente dei Mal tràa 'nsema solo per togliere dall’impaccio il mio amico Stefano Pedemonti, capo del gruppo, che aveva già sottoscritto il contratto con un locale della zona.

Che cosa è rimasto di quel periodo?

Una grande amicizia fra i componenti del gruppo; anche se ci si vede raramente, quando ciò accade, è come se incontrassi una parte di te stesso. In fondo per un periodo abbastanza lungo abbiamo vissuto quasi in simbiosi, condividendo le stesse emozioni e le stesse speranze.

Personalmente attraverso la musica ho appreso che con costanza e impegno si possono sostenere senza sfigurare certi ruoli; ho superato in parte la paura dello stare in pubblico e a vincere il rispetto umano; ho accresciuto la mia autostima; stando in mezzo alla gente ho imparato a conoscere le persone, le loro esigenze e le loro aspirazioni. In ogni caso la chitarra è sempre stata l’amica dei giorni di malinconia e di amarcord, la musa che ispirava e dava corpo alle canzoni che componevo e che mai proposi ai miei coequipiers, perché troppo autobiografiche; la medicina appropriata per far passare la tristezza e far tornare il sorriso e l’equilibrio.

 

Grazie, Tito!

 

Paola Mara De Maestri

(da 'l Gazetin, dicembre 2011)


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Dir. responsabile Enea Sansi - Reg. Trib. Sondrio n. 208 del 21/12/1989 - ISSN 1124-1276 - R.O.C. N. 32755 LABOS Editrice
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